martedì 11 novembre 2025

Il Piano Mattei e l'Africa: oltre i colonialismi

@ - Dal volgere del Millennio l’Africa è diventata terreno di scontro geopolitico tra Usa, Cina, Russia e altri soggetti, tra cui l’Europa. Al centro della contesa energia, agricoltura, materie prime e terre rare. L’arrivo dei cinesi ha rimesso al centro degli interessi globali l’Africa che gli occidentali, avevano abbandonato nel corso degli anni Novanta. Per quanto riguarda gli Stati Uniti, né Barack Obama né Donald Trump hanno mostrato grande e reale interesse; Joe Biden vi ha fatto solo una rapida visita. Il focus americano è ormai l’Indo-Pacifico. La Russia ha compiuto passi di presenza e influenza con l’unico strumento che possiede: armi e contractors (Wagner e successori). Altri investitori si sono affacciati come la Turchia o gli Stati del Golfo.

In questo contesto l’Europa rimane pur sempre il principale partner nell’aiuto allo sviluppo, ma con dei mutamenti profondi. La Francia non è più favorita dalla sua “relazione speciale” con i Paesi francofoni. La guerra in Ucraina drena moltissime risorse. Ai singoli Stati europei manca una visione geostrategica sull’Africa, ma l’Unione Europea si è data gli strumenti necessari per competere, come il Global Gateway. L’Italia è piccola per un continente immenso come l’Africa ma possiede alcune carte da giocare. Non siamo più il Paese delle grandi imprese pubbliche degli anni Sessanta-Settanta che hanno lasciato il segno sul continente: ancora tutti parlano delle nostre realizzazioni di quei decenni. A parte WeBuild (Salini), Eni, Enel, Fincantieri e Leonardo e poche altre, ci mancano campioni nazionali nel settore agroalimentare, turismo, pesca, lavori infrastrutturali intermedi (case, scuole, ospedali), logistica, trasporti, automotive. Tuttavia, Bonifiche Ferraresi e altri danno l’esempio di come si possa tornare sul continente con ottimi ritorni. Abbiamo migliaia di piccole e medie imprese che gli africani prediligono: preferiscono trattare con esse piuttosto che vedersi imporre tutto da una multinazionale. Inoltre, conoscono ed apprezzano la qualità italiana. L’idea del Piano Mattei è un volano che punta ad aiutare l’Africa a industrializzarsi, cosa mai tentata prima e unica via per un vero sviluppo, come è accaduto all’Asia. L’Italia è un partner ideale se le istituzioni avranno il coraggio di garantire gli investimenti delle nostre imprese. Il Piano Mattei è una rivoluzione copernicana per tutto il nostro sistema (Sace, Cdp, Simest e Ice) abituato da tempo all’iper-prudenza: con il piano deve garantire investimenti a più alto rischio e creare strumenti di garanzia specifici. Un altro vantaggio italiano è non avere – almeno nelle percezioni africane – strascichi post o neocoloniali.

Non è del tutto vero – si pensi al massacro di Debre Libanos nel 1937 – ma è un fatto che avvantaggia. Piano Mattei significa tornare in Africa per restarci: uno dei difetti storici italiani è quello della mancanza di continuità istituzionale. Il piano è un concetto-contenitore riempito di progetti innovativi: si proseguono le buone cose già fatte in passato a livello di sanità, educazione, formazione ecc., ma se ne aumenta la magnitudine. Vi sono molte buone pratiche italiane – soprattutto delle Organizzazioni non governative – da replicare. Il piano serve come strumento per partecipare a programmi europei di grandi dimensioni, come il corridoio di Lobito che ha l’ambizione di attraversare il continente da est a ovest. Con il Piano Mattei, l’Italia potrà divenire un partner stabile del continente: non è solo una questione di quanti soldi metterci ma di quanto know how, tecnologia e spirito di cooperazione paritaria saremo capaci di esprimere. Gli africani sanno fare la differenza tra chi è venuto solo a estrarre e sfruttare e chi vuole costruire qualcosa assieme. Gli Stati africani hanno imparato in questi decenni, in particolare dall’inizio dei conflitti in Ucraina e a Gaza, che le grandi potenze (Usa, Russia e Cina) e i paesi ricchi (Ue, G7, G20 e anche i Brics e la Sco) fanno solo i propri interessi e non credono più al multilateralismo. In tale contesto caotico e sregolato, l’Africa si adatta ma cerca anche partner affidabili.

martedì 4 novembre 2025

Così Stalin è riuscito (grazie a Roosevelt) a smembrare l’Europa

@ - Mesi fa, nell'ottantesimo della fine della Seconda guerra mondiale, suscitò qualche perplessità, se non altro fra gli storci, l'idea che a festeggiarla sul Vecchio continente in qualità di vincitori ci fossero solo potenze occidentali. Non era per la verità un fatto del tutto nuovo, perché per l'intero dopoguerra e finché esistette l'Urss l'Occidente fece più o meno finta di aver sconfitto il nazismo da solo e che quella vittoria la si fosse ottenuta in nome della libertà e della democrazia di tutti.

Così Stalin è riuscito (grazie a Roosevelt) a smembrare l’Europa
C'era dietro questa vulgata una gigantesca coda di paglia, a partire dal fatto di una guerra scoppiata per difendere la Polonia dall'aggressione nazista e che si era conclusa con una Polonia sotto il terrore stalinista, e dall'aver travestito quello che era stato un matrimonio di convenienza, contro un nemico a un certo punto divenuto comune, con una dittatura che non solo fino a poco tempo prima era stata ideologicamente avversa alle democrazie liberali, ma di quel nemico, Hitler, appunto, era stata alleata, nel senso che aveva stretto con lui un trattato di non belligeranza, proprio in Polonia...

La coda di paglia si faceva tanto più folta se si andava a guardare un po' più da vicino come, fra la fine del 1941 e ancora agli inizi del 1943 Inghilterra e Usa avessero, per supponenza o miopia politica, ci torneremo più avanti, perso l'occasione di negoziare con Stalin da posizioni di forza e stabilirne fin da allora i confini postbellici. Dopo, non solo non sarebbe stato più possibile, ma i trionfi militari lungo un fronte che misurava tremila chilometri, dal Baltico ai confini meridionali dei Balcani, unito a un tributo immenso di vite umane, otto milioni di soldati sovietici, avrebbe fatto di Stalin il vincitore tanto sul campo di battaglia quanto su quello dell'accordo postbellico che ne sarebbe seguito, in pratica l'intera Europa orientale, Germania orientale compresa, ai suoi ordini.

È questa la convincente chiave di lettura dello storico Jonathan Dimbleby nel suo 1944. Finale di partita (Feltrinelli-Gramma, traduzione di Roberto Serrai, 704 pagine, 26,60 euro) che non a caso ha per sottotitolo Come Stalin vinse la guerra...

Va detto che a facilitare la supremazia di Stalin concorsero le divergenze fra Churchill e Roosevelt, gli altri due grandi attori delle conferenze prima di Teheran, poi di Yalta. Agli occhi del presidente americano, l'approccio britannico era di tipo imperiale, in netta contraddizione con quell'afflato democratico e universale proprio di una nazione che nella guerra in Europa era entrata malvolentieri e perché costretta. Come scrive Dimbleby, «Roosevelt era molto meno preoccupato di Churchill dall'impostazione dittatoriale o dalle ambizioni strategiche del leader sovietico. Era determinato a forgiare un'alleanza con L'Unione Sovietica che non solo permettesse alle due potenze di conciliare le reciproche differenze, ma anche - insieme a Gran Bretagna e Cina sotto l'ombrello delle Nazioni Unite - assegnare loro la responsabilità condivisa di proteggere il diritto di ogni nazione, a prescindere dalle dimensioni, dal potere o dall'orientamento politico, a determinare il proprio futuro senza ingerenze interne. Fu questa convinzione ingenua e sincera a spingere il presidente degli Stati Uniti a guardare on profonda avversione alle prospettive di un mondo del dopoguerra diviso in sfere di influenza e a considerare affine al tradimento qualunque indizio, per quanto labile, che il suo alleato britannico nutrisse ancora illusioni imperiali».

Dietro la dolciastra retorica con cui Stalin diveniva per Roosevelt «lo zio Joe», c'era insomma, di là dalla sua «convinzione ingenua e sincera» di cui parla Dimbleby, una sostanziale ignoranza mista a disinteresse sulla realtà europea, geografica, politica, sociale, nonché una sottovalutazione delle mire espansioniste di Stalin che si univa a una sopravalutazione del ruolo degli Stati Uniti come esempio e guida per il mondo a venire.

Va detto che sulla sottovalutazione, ancora a Yalta, Churchill non fu da meno, il che è ancora più grave, considerato il suo anti-bolscevismo pregresso. Come osserva Dimbleby, anche il premier britannico si lasciò convincere «che Stalin non fosse più il tiranno comunista prebellico che aveva terrorizzato l'Unione Sovietica; che in qualche modo si fosse forgiato nella fornace della guerra e fosse divenuto un uomo di pace; che ci si potesse fidare di lui per interpretare le ambiguità dei comunicati ufficiali del vertice nei modi che gli altri due avrebbero desiderato».

Anche quando, suo malgrado, Roosevelt dovette prendere atto che erano proprio le «sfere di influenza» quelle che si sarebbero prospettate a guerra finita, e che «le questioni europee erano così complesse che voleva restarne fuori il più possibile, fatta eccezione per ciò che riguardava la Germania», la «resa incondizionata» che di quest'ultima veniva chiesta fu l'ulteriore dimostrazione di come gli Stati Uniti considerassero l'Europa, quella orientale, ma anche il suo alleato insulare e occidentale una «quantité negligeable», ovvero qualcosa di cui non tenere conto. La sconfitta tedesca senza se e senza ma, scrive Dimbleby, era per Washington «un mezzo per arrivare a un fine superiore, una precondizione per la creazione del nuovo ordine mondiale tanto caro al presidente per cui, dopo la sconfitta del Giappone, l'Unione Sovietica sarebbe stata un partner cruciale. Per Londra, la vittoria non comportava solo la distruzione dell'esercito nazista, ma anche la creazione di un potente baluardo occidentale nel cuore di un continente frammentato, contro la minaccia dell'espansionismo sovietico. Per gli americani, la città di Berlino era u obiettivo militare secondario; non importava molto se veniva conquistata dai russi o dagli alleati»...

Si spiega così perché Eisenhower, che era allora il comandante in capo delle forze alleate, senza nemmeno consultarsi con il suo presidente, tanto dava per scontato il suo assenso, ma naturalmente senza preoccuparsi di informare Churchill, comunicherà a Stalin che i piani per le sue prossime avanzate «escludevano un attacco a Berlino».

Come spesso, se non sempre, accade, ciò che avvenne dopo mise in evidenza quanto di sbagliato c'era stato prima, uno strapotere sovietico che imponeva la sua legge su metà del Vecchio continente, dando ragione a chi, come il ministro degli Esteri britannico Anthony Eden, già nel marzo 1942 aveva previsto: «Considerando che la Germania sarà sconfitta, che la potenza militare sarà distrutta, le posizioni della Russia sul continente europeo saranno inattaccabili. Il prestigio russo sarà così grande che l'instaurazione di regimi comunisti nella maggior parte dei Paesi europei sarà fortemente facilitata».

Succeduto a Roosevelt, Truman dovette in pratica fare il suo esatto contrario, con Stalin che da partner di un mondo libero tornava ad essere il nemico principale di quello stesso mondo. Ma come osserva Dimbleby, il crollo dell'Urss e la fine del comunismo mezzo secolo dopo hanno riproposto, paradossalmente rovesciato di segno, il problema del peso specifico della Russia all'interno dello spazio europeo.

Nel 1991, ancora con Gorbacev, l'Occidente, ma sarebbe più giusto dire gli Stati Uniti, aveva dato rassicurazioni verbali su fatto che la Nato non avesse alcuna intenzione di espandere i suoi confini oltre la frontiera di quella che era ancora la Germania dell'Est. Tempo un anno, l'ombrello Nato cominciò invece ad aprirsi sempre di più, a confermare la posizione egemonica americana sul continente. Era una strategia pericolosa, come George Kennan, che pure era stato il principale artefice della politica statunitense di contenimento sovietico, stigmatizzò con parole che lette oggi sono altrettanto illuminanti di quelle di Eden mezzo secolo prima. L'allargamento della Nato, scrisse, «sarebbe stato l'errore più fatale della politica americana dopo la Guerra fredda. Avrebbe infiammato le tendenze nazionalistiche, antioccidentali e militariste nell'opinione pubblica russa; avrebbe avuto un effetto negativo sullo sviluppo della democrazia russa; avrebbe restaurato l'atmosfera della Guerra fredda nelle relazioni fra Est e Ovest e avrebbe spinto la politica estera russa in una direzione decisamente di non nostro gradimento».

La guerra in Ucraina viene da lì e Dimbleby, in questo passato che ritorna non può che affidarsi alle parole di un poeta come T.S. Eliot nel primo dei suoi Quattro Quartetti: «Tempo presente e tempo passato sono forse presenti nel tempo futuro».

lunedì 3 novembre 2025

La provocazione di Mosca sul crollo della Torre dei Conti

@La portavoce del ministero degli Esteri russo, Maria Zakharova, ha pubblicato sul suo canale Telegram un messaggio in cui collega il crollo della Torre dei Conti, ai Fori Imperiali di Roma, al sostegno italiano all’Ucraina.

La provocazione di Mosca sul crollo della Torre dei Conti

«Finché il governo italiano continuerà a sprecare inutilmente i soldi dei contribuenti, l’Italia crollerà, dall’economia alle torri», ha scritto Zakharova, aggiungendo che secondo i dati del ministero degli Esteri italiano «il sostegno italiano all’Ucraina, compreso l’aiuto militare e in contributi versati attraverso i meccanismi Ue, ammonta a circa 2,5 miliardi di euro». Il post è stato pubblicato mentre i vigili del fuoco erano ancora impegnati nei soccorsi per estrarre un operaio rimasto intrappolato tra le macerie del monumento.

La portavoce del Cremlino non è nuova a dichiarazioni di questo tipo. Nei mesi scorsi aveva attaccato duramente Sergio Mattarella, commentando un suo discorso a Marsiglia. All’epoca lo aveva accusato di pronunciare «invenzioni blasfeme», ricordando che «l’Italia è stato il Paese dove è nato il fascismo» e definendolo «il presidente di un Paese che storicamente è stato tra quelli che hanno attaccato il nostro Paese». Uno dei tanti attacchi che poi Zakharova ha perpetrato nei confronti del Capo dello Stato, senza lasciarsi scappare anche delle critiche alla Farnesina.

Il Pd: «Parole inaccettabili, venga convocato l’ambasciatore russo»

La capogruppo del Partito democratico alla Camera, Chiara Braga, ha definito le frasi della portavoce «inaccettabili, stupide e volgari». In una nota, Braga ha aggiunto che le dichiarazioni risultano «tanto più gravi mentre i soccorritori – a cui va il nostro ringraziamento – ancora stanno scavando per tirare fuori dalle macerie un operaio». La deputata ha quindi invitato il ministro degli Esteri a convocare l’ambasciatore russo «per esprimere lo sdegno del nostro governo e di tutti i cittadini per affermazioni ciniche che manifestano solo l’intolleranza e la violenza di un regime autoritario e aggressivo».

sabato 25 ottobre 2025

Italia «più imparziale» degli altri Paesi Ue: perché Trump ha scelto Meloni per mediare con l'Iran

@Per costruire il «nuovo Medio Oriente» serve anche qualcuno che parli con l’Iran. E Trump ha scelto Meloni. In questa fase di transizione non conta solo chi è seduto al tavolo della trattativa, serve che niente e nessuno compromettano l’esito di un progetto complicato.

Italia «più imparziale» degli altri Paesi Ue: perché Trump ha scelto Meloni per mediare con l'Iran

Già le variabili sono tante nel processo di stabilizzazione della tregua a Gaza, ci mancano le incognite. Che per la Casa Bianca sono rappresentate soprattutto dalle mosse di Teheran. Perciò è necessario avere un canale di contatto. E siccome Stati Uniti e Iran al momento non vogliono (e non possono) parlarsi, Washington ha deciso di affidare a Roma un ruolo delicato: quello di tramite. Palazzo Chigi diventa così il crocevia di messaggi che i due nemici si scambiano per via indiretta. È uno dei compiti che fa capire perché Meloni in Parlamento abbia detto: «Stiamo compiendo la nostra parte». Da mesi. A parte le storiche relazioni con Teheran, nell’ultimo periodo l’Italia è stata «l’unica nazione del Vecchio continente ad aver tenuto aperta un’interlocuzione diplomatica con il regime teocratico, assumendosi non pochi rischi e attirandosi l’ostilità di Francia, Germania e Regno Unito».

A raccontarlo è un’autorevole fonte internazionale, vicina al dossier, che riferisce le tensioni maturate tra i Paesi europei all’indomani dello «snapback» con cui sono state ripristinate dopo dieci anni le sanzioni contro l’Iran per la proliferazione nucleare. Teheran considera l’Italia lo Stato dell’Occidente «più imparziale». Non a caso in aprile aveva accettato che si svolgesse a Roma il secondo round dei colloqui sul nucleare con gli americani gestito dall’Oman. Una mediazione che dopo l’esplosione del conflitto con Israele a giugno si è interrotta. Ma ci sarà un motivo se nell’occasione Tajani aveva detto che «l’Italia sostiene ancora i negoziati in prima fila». La dichiarazione del ministro degli Esteri faceva seguito a quella di Trump, secondo il quale «l’Iran potrebbe avere un’altra possibilità di accordo».

L’affidabilità del governo italiano è vissuta come una garanzia da Teheran. E siccome Trump privilegia le relazioni bilaterali, la Casa Bianca ha dato l’incarico a Palazzo Chigi sapendo peraltro che Meloni ha instaurato ottimi rapporti con gli altri Paesi dell’area mediorientale. In questo momento il presidente americano è concentrato sul suo progetto per Gaza e la Palestina. Le variabili sono numerose quanto gli interessi (contrapposti) dei Paesi interessati. «Un passaggio importante sarà la visita di metà novembre a Washington del principe ereditario dell’Arabia Saudita», spiega la fonte: «Riad vorrebbe indicare il nome della personalità che sarà chiamata a guidare il processo. Ma non lo farà finché Hamas non sarà stata completamente disarmata».

Per quanto sia stata duramente colpita, l’organizzazione terroristica continua a massacrare palestinesi inermi nella Striscia di Gaza, intralciando la distribuzione degli aiuti umanitari. E il nome di Hamas si collega direttamente all’Iran. Ecco l’incognita tra le tante variabili. E il rischio che una mossa di Teheran possa scatenare un effetto domino, incendiando nuovamente il Medio Oriente. Ecco perché Washington «ha bisogno di segnali» dal regime: l’obiettivo primario è che l’Iran faccia capire di non voler uscire definitivamente dal trattato di non proliferazione delle armi nucleari.

Perciò dopo la reintroduzione delle sanzioni è stato inviato a Teheran un messaggio: «Evitate di reagire pesantemente». C’è il forte e motivato timore che in caso contrario Israele — sentendosi minacciato — torni ad attaccare l’Iran. E a quel punto il progetto a cui lavorano gli Stati Uniti, e quanti hanno aderito al piano di Trump, salterebbe. In questa partita ha un ruolo importante l’italo-argentino Grossi, direttore generale dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica, che si sta giocando la poltrona di segretario generale delle Nazioni Unite. Ognuno ha un compito nel processo di stabilizzazione dell’area. E l’Italia ha le sue mansioni. Sarà (anche) per questo che Meloni ripete spesso di sentirsi «un infopoint».

giovedì 23 ottobre 2025

“Se oserete venire qui troverete un Vietnam”. Il vero bersaglio di Hamas è il mondo arabo-islamico

@ Gli attacchi di Hamas al territorio israeliano non sono la classica escalation del conflitto israelo-palestinese. Analizzando più a fondo le dinamiche mediorientali, emerge che il vero bersaglio di Hamas non è tanto lo Stato ebraico, quanto il mondo arabo-islamico.

Veicoli della Croce Rossa trasportano gli ostaggi rilasciati da Hamas

La domanda da porsi infatti è: perché Hamas continua a lanciare attacchi contro Israele, sapendo perfettamente che la risposta militare sarà devastante? L’esercito israeliano, infatti, dispone di una superiorità schiacciante. Hamas lo sa benissimo, visto che è stata decimata in questi due anni dall’Idf. La risposta non risiede in una follia suicida, ma in una strategia comunicativa ben precisa.

Questi attacchi sono messaggi destinati non tanto a Gerusalemme, ma a Riad, al Cairo, ad Amman e alle altre capitali del mondo arabo-islamico che stanno organizzando una forza internazionale per gestire Gaza. Il messaggio è chiaro e brutale: “Se oserete venire qui con le vostre forze di pace, se proverete a sostituirci nel controllo di Gaza, troverete un Vietnam”. È insomma una minaccia esplicita a chiunque nel mondo islamico osasse prendere il controllo della Striscia senza passare attraverso gli islamo-mafiosi di Hamas.

Non è un caso che l’Arabia Saudita, la settimana scorsa, avesse pubblicamente dichiarato che non avrebbe inviato propri soldati a Gaza se la situazione non si fosse calmata. Il riferimento era alle esecuzioni pubbliche che Hamas stava conducendo ai danni di centinaia di palestinesi etichettati come “collaborazionisti”. Il regime saudita, tradizionalmente cauto nelle sue mosse internazionali, aveva colto perfettamente il senso di quella violenza interna: Hamas stava consolidando il proprio potere attraverso il terrore, eliminando qualsiasi opposizione interna e mostrando al mondo arabo chi comanda davvero a Gaza.

Per le forze islamiche di peacekeeping, si prospetta insomma una guerriglia prolungata contro un’organizzazione terrorista che conosce ogni vicolo, ogni tunnel, ogni nascondiglio della Striscia. Quale Paese avrà voglia di mandare i propri soldati a Gaza ad affrontare tali rischi? Questo ci riporta alla questione fondamentale che divide Israele dall’Europa: la natura stessa di Hamas come ostacolo insormontabile alla pace. Mentre l’opinione pubblica europea tende a vedere il conflitto attraverso la lente della tragedia umanitaria palestineseche è innegabile e drammatica – spesso non comprende che finché Hamas manterrà il controllo di Gaza, qualsiasi prospettiva di pace è un’illusione. L’Unione europea, con la sua tradizione diplomatica basata sul dialogo e sul compromesso, fatica a confrontarsi con la realtà di un’organizzazione che ha fatto della guerra perpetua e del controllo autoritario della Striscia la propria ragion d’essere.

La vera pace a Gaza – quella che permetterebbe ai palestinesi di vivere dignitosamente la propria vita, di sviluppare un’economia funzionante, di costruire istituzioni democratiche – è incompatibile con Hamas. Questa è la scomoda verità che l’Europa si rifiuta di riconoscere, preferendo spesso concentrarsi sulla condanna delle risposte militari israeliane piuttosto che sulle cause profonde del conflitto. Finché questa dinamica non verrà compresa nella sua complessità, la prospettiva di una vera soluzione al dramma palestinese rimarrà lontana. E i primi a pagarne il prezzo continueranno ad essere i civili palestinesi di Gaza, ostaggi involontari di una strategia che li usa in una partita geopolitica che va ben oltre i confini della Striscia.

mercoledì 22 ottobre 2025

“Trump, un fesso”: la derisione russa che diventa strumento geopolitico

@Sulle televisioni controllate dal Cremlino la figura di Donald Trump non è più trattata come quella di un interlocutore autorevole. È diventata oggetto di scherno, imitazioni e battute che colpiscono direttamente la sua credibilità.

“Trump, un fesso”: la derisione russa che diventa strumento geopolitico

Due mesi dopo il vertice di Anchorage, quando i media russi lo avevano presentato come “la parte ragionevole dell’Occidente”, le stesse emittenti hanno cambiato registro. Oggi Trump viene descritto come un leader confuso, in balia di Putin, ridicolizzato persino per le sue capacità cognitive.

Nelle trasmissioni di Vladimir Solovyov e Olga Skabeeva, le voci più potenti della propaganda russa, Trump è deriso apertamente. In una puntata di Rossiya-1, Solovyov lo imita maldestramente, cercando di riprodurne il tono di voce mentre dice: "Sto pensando di rifornire l’Ucraina di missili Tomahawk, ma prima devo parlarne con Putin". La risata generale in studio non lascia spazio a dubbi: la scena è costruita per umiliarlo. Poco dopo un ospite si spinge oltre, chiamandolo "un fesso, ma un incomparabile, eccezionale, inimitabile fesso". Le risate del pubblico e gli applausi dei deputati di Russia Unita presenti in studio suggellano la trasformazione di un ex alleato di convenienza in una caricatura.

La derisione non è un fatto isolato. È diventata parte del linguaggio politico del Cremlino, che attraverso la televisione misura la distanza simbolica da Washington. Quando in agosto Trump era stato descritto come l’unico occidentale capace di parlare con Putin, i messaggi diffusi dalle emittenti erano calibrati con cautela, in attesa di capire fino a che punto gli Stati Uniti avrebbero spinto sull’invio di armi a Kiev. Oggi quella prudenza è sparita. Da giorni i programmi principali della tv di Stato presentano un Trump che vacilla, che promette ma non agisce, che annuncia decisioni militari solo per poi ritrattarle. L’immagine di un presidente incerto è funzionale a una narrativa precisa: quella di un’America che non comanda più.

Questo cambio di tono arriva mentre Putin consolida la propria posizione internazionale. Dopo la riunione del cosiddetto “Nuovo Mondo multipolare” a Pechino, il Cremlino si sente libero di trattare la relazione con gli Stati Uniti in termini di forza e non più di diplomazia. La stessa agenzia Ria Novosti sottolinea che i rapporti tra Putin e Xi Jinping sono ormai di natura strategica, impermeabili alle oscillazioni americane. In questo contesto, Trump non è più utile come volto “ragionevole” dell’Occidente. È diventato un bersaglio perfetto per dimostrare quanto poco contino ormai le parole di Washington.

Negli ultimi giorni le emittenti russe hanno trasmesso persino barzellette su un immaginario incontro tra Trump e Putin a Budapest. “Prenditi pure l’Alaska”, scherza il conduttore, “ma finisci questa guerra”. Le risate in studio confermano che la deferenza di un tempo è stata sostituita da un sarcasmo corrosivo. In un Paese dove la critica ai potenti è ancora rigidamente controllata, il fatto che simili battute siano diffuse in prima serata mostra che la linea politica è cambiata.

Il nuovo messaggio è chiaro: Putin appare come il regista che muove i fili, Trump come un attore spaesato. In questo modo la propaganda russa trasforma la satira in un’arma di potere. La risata, in televisione, diventa lo strumento con cui Mosca misura la propria superiorità. E nella cornice di una guerra che continua e di una diplomazia sempre più fragile, la barzelletta su Trump racconta molto più di quanto sembri: la convinzione, dentro la Russia di oggi, che l’America non faccia più paura.

domenica 19 ottobre 2025

Guerra bloccata, Putin ha bisogno di un secolo per vincere: l'analisi

@ - Donald Trump non fornisce i missili Tomahawk all'Ucraina. La guerra, però, rimarrà un rebus irrisolto per la Russia. Vladimir Putin sta pagando costi altissimi per progressi ridotti sul campo di battaglia e la vittoria 'classica' appare una chimera: per conquistare l'Ucraina, servirebbe un secolo.

Guerra bloccata, Putin ha bisogno di un secolo per vincere: l'analisi

E' il quadro che elabora The Economist sulla base di una approfondita analisi, che sembra offrire una base solida all'ultimo messaggio inviato da Trump a Putin e al presidente ucraino Volodymyr Zelensky: "Fermatevi lì dove siete".

Il presidente degli Stati Uniti invoca il congelamento della linea del fronte, con lo stop alle ostilità. E' possibile che il tema sia stato affrontato e condiviso nella telefonata di giovedì con Putin. Venerdì, alla Casa Bianca, Zelensky ha fissato come priorità il 'cessate il fuoco': una dichiarazione interpretabile come un 'sì' al messaggio di Trump.

Lo stop arriverebbe in un quadro delineato e, secondo The Economist, quasi cristallizzato mentre l'offensiva estiva della Russia si va esaurendo. Il terzo 'attacco estivo' di Mosca ha prodotto risultati ridotti se paragonati alle perdite. "A meno di cambiamenti drastici, Vladimir Putin non sarà in grado di vincere la guerra sul campo di battaglia", sentenzia The Economist.

Da gennaio 2025 fino al 13 ottobre, le perdite russe ammontano a 984.000-1.438.000 vittime, con un numero di morti variabile tra 190.000 e 480.000. A questi ritmi, la disponibilità di uomini diventerebbe un problema maggiore per la Russia che per l'Ucraina.

Da quando le linee del fronte si sono stabilizzate dopo la fine della prima controffensiva ucraina nell'ottobre 2022, si sono verificate variazioni minime. Nessuna grande città ha cambiato 'padrone'. Se la Russia avanzasse al ritmo degli ultimi 30 giorni, la conquista di ciò che resta delle quattro regioni che Putin già rivendica – Luhansk, Donetsk, Kherson e Zaporizhzhia – verrebbe completata nel 2030. E per occupare tutta l'Ucraina, la Russia avrebbe bisogno di altri 103 anni di guerra.

Le analisi non escludono cambiamenti repentini, che però vengono considerati estremamente improbabili. Il collasso delle linee difensive dell'Ucraina non è una prospettiva realistica: Kiev dispone di droni e armi a lungo raggio sufficienti per arginare le spallate russe. Mosca può avanzare, a costi altissimi, ma non potrebbe consolidare i progressi.

The Economist accende i riflettori anche sul prezzo che Putin paga in termini di mezzi. Oryx, un sito olandese di intelligence open source, fa riferimento alla perdita di 12.541 carri armati e veicoli corazzati da combattimento; 2.674 sistemi di artiglieria e missili; 166 aerei e 164 elicotteri. I numeri sono approssimati per difetto. A questo bilancio va aggiunto l'effetto dell'attacco ucraino contro aeroporti russi e altri obiettivi a giugno, con un'azione compiuta con droni nascosti in camion: si ritiene che sia andato distrutto forse un sesto della flotta di bombardieri strategici russi. I velivoli possono essere rimpiazzati, ma non a basso costo e non in tempi rapidi.

Infine, il 'fattore economia'. L'Ucraina ha avviato la produzione di missili e droni relativamente economici. Se le linee del fronte rimangono stabili in una guerra 'di installazioni', osserva The Economist, non è più così ovvio che la Russia abbia il sopravvento. L'economia della Russia è più grande di quella ucraina, ma non regge il confronto rispetto a quella degli alleati dell'Ucraina: "Se il sostegno occidentale all'Ucraina dovesse reggere, la guerra potrebbe protrarsi a caro prezzo per la Russia".

sabato 11 ottobre 2025

Decalogo Alzheimer. Regole per proteggere la salute del cervello

 @In occasione della XXXII Giornata Mondiale Alzheimer la Federazione Alzheimer Italia presenta un ’Decalogo per la prevenzione della demenza’, elaborato da Simone Salemme, neurologo e consulente dell’Istituto Superiore di Sanità, e da Davide Mangani, ricercatore immunologo dell’Istituto di Ricerca in Biomedicina di Bellinzona.

Decalogo Alzheimer. Regole per proteggere la salute del cervello

Il documento raccoglie le più recenti evidenze scientifiche e traduce la ricerca in indicazioni concrete, con una doppia prospettiva: quella del singolo, che può adottare comportamenti protettivi nella vita quotidiana, e quella della società. Governi e Istituzioni, infatti, sono chiamati a mettere in campo politiche pubbliche e scelte strutturali a tutela della salute cerebrale collettiva.

"Oggi sappiamo che la prevenzione è una leva potente – afferma Simone Salemme – fino al 40% dei casi di demenza potrebbe essere evitato o ritardato intervenendo sui fattori di rischio modificabili". "Il decalogo unisce responsabilità individuali e responsabilità collettive – aggiunge Davide Mangani – È un invito a ciascuno di noi, ma anche alla politica, alle Istituzioni e a tutta la comunità, ad agire per costruire un futuro con un minore impatto della demenza".

La prima regola è tenere la pressione arteriosa sotto controllo proteggendo cuore e cervello. Il singolo può misurare regolarmente la pressione, seguire le cure prescritte, ridurre l’uso del sale, mantenere uno stile di vita attivo, tenere sotto controllo il peso. La società deve promuovere screening diffusi, facilitare l’accesso ai farmaci, progettare città che incoraggino il movimento, con parchi e piste ciclabili. Il secondo avvertimento riguarda il colesterolo Ldl che se alto aumenta il rischio di demenza e ictus. Il singolo può tenere sotto controllo i livelli dei lipidi, seguire una dieta mediterranea, fare attività fisica, non fumare e limitare l’alcol. La società può aiutarli offrendo check-up cardiovascolari accessibili, garantire l’accesso a farmaci e terapie.

Terzo comandamento’ proteggere l’udito la cui perdita favorisce isolamento e declino cognitivo. Il singolo può fare screening dopo i 60 anni e usare gli apparecchi acustici aiutato dalla società che ha il dovere di renderli più accesibili. Quarta regola proteggere la vista, anche in questo caso il consiglio è di sottoporsi regolarmente a visite oculistiche, avvalersi di occhiali o lenti adeguati. La società può ridurre le liste d’attesa per gli interventi, promuovere screening visivi.

Quinto consiglio fare attività fisica regolare, il movimento è una delle armi più efficaci per la salute del cervello. Sesto adottare un’alimentazione di tipo mediterraneo che protegge da infiammazione e declino cognitivo. Occorre consumare frutta, verdura, cereali integrali, legumi, pesce, olio d’oliva e limitare zuccheri e cibi processati. Settima regola smettere di fumare e contenere l’uso dell’alcol. Tabacco e alcol danneggiano i vasi, alzano la pressione e favoriscono infiammazione e atrofia cerebrale.

All’ottavo posto ci sono l’attenzione a patologie come il diabete e monitorare peso e salute metabolica. Il diabete di tipo 2 e l’obesità aumentano il rischio di demenza. Il singolo può monitorare glicemia e peso, seguire le terapie, adottare uno stile di vita sano, dormire a sufficienza e fare attenzione allo stress eccessivo. La società deve attivare programmi di prevenzione, facilitare l’accesso a nutrizionisti, adottare politiche che limitino il consumo di bevande zuccherate, promuovere politiche per garantire equità nell’accesso a cibi sani. Al nono posto la necessità di mantere una mente attiva e le relazioni sociali, infatti gli stimoli mentali rafforzano la riserva cognitiva. Il singolo può imparare cose nuove, coltivare hobby, partecipare ad attività sociali, chiedere aiuto in caso di depressione. La società deve garantire un’istruzione di qualità fin dall’infanzia, promuovere centri comunitari e biblioteche, sostenere università della terza età, garantire servizi di salute mentale accessibili.

Infine attenzione ai rischi ambientali e ai traumi: incidenti e inquinamento atmosferico pesano anche sulla salute cerebrale. Il singolo deve proteggersi indossando il casco in bici o in monopattino e usare protezioni adeguate, la società deve proteggerlo dell’inquinamento.

mercoledì 1 ottobre 2025

Benedetta Scuderi sulla Flotilla: «So bene di rischiare l’arresto»

@«So bene di rischiare l’arresto, lo avevamo messo nel conto, ma andremo avanti». Sono ore concitate quando risponde al telefono, a sera, Benedetta Scuderi , 34enne eurodeputata di Avs, espressione di Europa Verde.

Benedetta Scuderi sulla Flotilla: «So bene di rischiare l’arresto»© Fornito da Avvenire

A bordo della nave Morgana è ormai vicinissima alla zona a rischio che il nostro governo ha ricollocato a 150 miglia dalla costa. «E noi siamo a solo 180 miglia», ci dice. Questo vuol dire che in piena notte, dopo che la fregata Alpino riterrà conclusa la sua missione, chi vorrà proseguire senza più la scorta assicurata ai nostri connazionali dalla Marina lo farà a suo rischio e pericolo.

Emerge una differente valutazione sul da farsi con i colleghi del Pd che sono sulla nave Karma e che si fermeranno al primo alt.

Non direi. Al di là delle differenze che possono esserci, o apparire tali sul piano verbale, sul piano sostanziale abbiamo lo stesso obiettivo: arrivare fino a Gaza per rompere un blocco e aprire un canale umanitario stabile.

Ma di fronte all’intimazione dell’alt da Israele, con il governo che a 150 miglia dalla costa vi invita a non proseguire e Mattarella che vi ha invitato ad affidare gli aiuti al Patriarcato di Gerusalemme, si preannunciano decisioni diverse fra voi. Lei prosegue?

Nessun dubbio, ci atterremo alle decisioni che verranno prese dalla direzione della missione, intenzionata ad andare fino in fondo. Agiremo con i mezzi della non violenza, convinti di avere dalla nostra il diritto internazionale, essendo la nostra una missione umanitaria.

Israele la pensa diversamente e ha pensato bene di accusarvi di essere finanziati da Hamas.

Nei confronti di Hamas c’è la nostra totale presa di distanza. Quanto a Israele, non è una novità che pensi questo senza averne alcuna prova. La novità è che lo dica a chiare lettere in un giorno in cui ci si poteva aspettare qualche parola distensiva. Non so dire se così si stia preparando la strada per trarre in arresto qualcuno che considera legato ad Hamas.

Temete attacchi?

Israele ha escluso mezzi violenti.

Ma l’arresto lo ha messo nel conto?

Assolutamente sì, è una delle cose considerate già all’atto d imbarcarci, anche se non so prevedere che cosa potrà accadere di qui a poco.

Ma come giudica la decisione del governo di fissare a 150 miglia la zona a rischio, oltre la quale non vi garantisce più protezione?

Una decisione assurda, inaccettabile. Ci avevano promesso protezione entro le acque internazionali, ora invece si fermano più di 100 miglia prima, perché è da lì che sono avvenuti episodi precedenti. In pratica è come se si trasformassero i soprusi di Israele in una prassi da rispettare.

Mattarella non andava ascoltato?

Siamo qui per sopperire all’inerzia delle istituzioni europee. Ho molto apprezzato le sue parole di considerazione del valore della missione. E se attraverso la Chiesa sarà possibile ripristinare un canale umanitario stabile noi saremo felici. Vorrà dire che il nostro scopo sarà stato raggiunto.

Il piano della Casa Bianca per Gaza può contribuire ad alleggerire la tensione?

È stato un incontro sbilanciato e d’altronde la nostra situazione non mi pare sia stata affrontata. Il tempo è pochissimo per poter sperare in novità dall’esito di quel negoziato appena avviato.

domenica 28 settembre 2025

Dombrovskis: Mosca e Ue già in una guerra ibrida. Lavrov: pronti a rispondere

@ -  Nuove provocazioni, nei cieli sulla sterminata frontiera dell’Est Europa. Venerdì sera, ha riferito la polizia, «uno o due droni» sono stati avvistati sopra la base militare di Karup, la più grande della Danimarca. Per le autorità danesi un «attacco ibrido» durato alcune ore. I droni, ha precisato l’ufficiale Simon Skelsjaer «non sono stati abbattuti».

Dombrovskis: Mosca e Ue già in una guerra ibrida. Lavrov: pronti a rispondere© 
Fornito da Avvenire

Nessuna dichiarazione, invece, sulla loro provenienza. Per alcune ore, per precauzione, la base militare è stata chiusa come pure il vicino aeroporto civile di Midtjylland.

Nei giorni scorsi episodi simili erano già stati denunciati da Copenaghen: giovedì il premier danese Mette Frederiksen aveva parlato di «attacchi ibridi» puntando esplicitamente il dito sul Cremlino. Pure la Norvegia ha fatto sapere di stare indagando su «possibili avvistamenti di droni» ieri mattina nei pressi della base militare di Orland, la più grande e che ospita i suoi F-35. Le indagini su quanto accaduto, ha precisato il governo di Oslo, sono ancora in corso.

Segnali evidenti di una pressione militare crescente: anche di questo si occuperà il vertice informale dei capi di stato e di governo in programma mercoledì e giovedì a Copenaghen, capitale della Danimarca presidente di turno dell’Ue. Una vigilia di tensione, con il commissario Ue alla Difesa Valdis Dombrovskis che non usa mezzi termini: quello che il Cremlino sta mettendo in campo «disinformazione», «sabotaggio», «uso dell’immigrazione clandestina come arma» ha avvertito il commissario Ue intervistato da France24: questa «è già una guerra ibrida con Mosca» che «parla apertamente di invadere altri Paesi, anche Ue e Nato» ha aggiunto il politico lettone. Da qui per il commissario Ue, l’urgenza del “muro di droni” sul fianco Est dell’Unione. Non meno esplicito il ministro dell’Interno tedesco Alexander Dobrindt: «Stiamo assistendo a una costante minaccia ibrida», ha detto. La Germania, secondo la Bild, è intenzionata a modificare la legge sulla sicurezza per consentire, in precise circostanze, alle Forze armate di abbattere droni che violino lo spazio aereo.

Allerta strategica condivisa. L’altra notte il presidente Usa Donald Trump, incontrando Volodymyr Zelensky a margine dell’Assemblea generale Onu, faceva sapere di essere pronto a togliere il veto all’uso di missili a lungo raggio in grado di colpire il territorio della Russia. Ieri pomeriggio anche la Nato ha alzato i toni. Le violazioni da parte della Russia dello spazio aereo di numerosi Paesi Nato, sono «atti sconsiderati» che «mettono in pericolo vite umane» e di cui «la Russia ne ha la piena responsabilità» ha dichiarato a Riga l’ammiraglio Giuseppe Cavo Dragone, presidente del Comitato militare dell’Alleanza , alla vertice dei capi di Stato maggiore. «La risposta dell'Alleanza è stata vigorosa e continuerà a rafforzarsi» ha concluso l’ammiraglio.

Dall’Assemblea generale Onu è giunta la replica di Sergeij Lavrov. Per il ministro degli Esteri russo non vi è alcun piano di attacco a Paesi Nato ed Ue: «La Russia non ha e non ha mai avuto tali intenzioni». Anzi, «nutriamo qualche speranza per la continuazione del dialogo russo-americano, soprattutto dopo il vertice in Alaska». E riferendosi al Medio Oriente ha accusato Israele di volere una sorta di «colpo di Stato» per «seppellire le decisioni dell’Onu sulla creazione di uno Stato palestinese». Ma, ha avvertito rivolto alla Nato, «qualsiasi aggressione avrà una risposta decisa».

Da segnalare, sempre nella guerra dei cieli, la denuncia di Zelensky di un misterioso sconfinamento fra Ucraina e Ungheria «di droni da ricognizione, probabilmente ungheresi». L’obiettivo, pare, un monitorare di alcune industrie militari. Secca la smentita di Budapest: Zelensky «sta perdendo la testa» ha scritto il ministro degli Esteri ungherese Szijjarto su X. Ma sempre su X il ministro degli Esteri ucraino Sybiha replicava di avere le rotte esatte dei droni ungheresi e di aspettare chiarimenti da Budapest.

Prosegue pure lo scontro tra Kiev e Mosca. L’Ucraina ha neutralizzato l’altra notte 97 dei 115 droni lanciati dalla Russia che hanno colpito obiettivi in 6 diverse località. Colpiti da Mosca pure gli impianti energetici nel Cernihiv mentre il Cremlino ha rivendicato la conquista dei villaggi di Derylove e Maiske nel Donetsk, e dell'insediamento di Stepove nel Dnipropetrovsk. E si torna a parlare con preoccupazione della centrale atomica di Zaporizhzhia: Kiev ha accusato la Russia di aver provocato per il quarto giorno di fila un black-out La centrale dal 23 settembre è alimentata da generatori diesel di riserva e non ha scorte infinite. A Zaporizhzhia, ha detto giovedì il presidente dell’Aiea Rafael Grossi, in visita a Mosca, «si gioca col fuoco». Infine una partita politica decisiva si gioca pure in Moldavia, oggi al voto. La presidente Maia Sandu ha denunciato «pressioni crescenti di Mosca» mentre due partiti filorussi sono stati estromessi dalla consultazione.