martedì 20 maggio 2025

Un professore universitario propone di sospendere le pensioni a un terzo degli anziani

@ - Negli Stati Uniti, come nel nostro Paese, la previdenza sociale è uno dei pilastri del benessere di milioni di anziani. Tuttavia, il suo futuro è incerto: secondo gli esperti, se non verrà attuata una qualche riforma, i fondi a sostegno potrebbero esaurirsi entro il 2035, con conseguenti tagli automatici alle prestazioni sociali.


Un professore universitario propone di smettere di pagare le pensioni a un terzo degli anziani: una proposta provocatoria che riapre il dibattito sulla giustizia generazionale e sulla sostenibilità del sistema pensionistico© picture alliance - Getty Images


In questo contesto, il professore della New York University Scott Galloway, noto per le sue posizioni controverse, ha proposto una soluzione drastica: eliminare i sussidi per un terzo degli attuali beneficiari. Il motivo? Beh, secondo lui, semplicemente non ne hanno bisogno.

La dichiarazione non è passata inosservata. Nel suo podcast, Galloway ha sostenuto che tra il 10 e il 30 percento dei beneficiari della previdenza sociale appartiene alla fascia più ricca della popolazione americana e che continuare a versare loro la pensione rappresenta un ingiusto trasferimento di ricchezza dalle generazioni più giovani e povere ai pensionati più abbienti.

"Stiamo parlando della generazione più ricca nella storia di questo pianeta", ha affermato, riferendosi ai baby boomer, ora in pensione. "Ogni anno, 1,2 trilioni di dollari vengono trasferiti da giovani in difficoltà crescente a persone che, in molti casi, non ne hanno bisogno. Qualcosa non funziona".

Smettere di pagare le pensioni a un terzo degli anziani
Galloway non si riferisce solo a una questione morale, ma anche strutturale. Il sistema, sostiene, è stato concepito come meccanismo di ridistribuzione, ma ha finito per funzionare al contrario. I dati della Federal Reserve indicano che il 10% più ricco ha un patrimonio netto medio di 7,8 milioni di dollari. Per questo gruppo, la perdita di un sussidio mensile avrebbe avuto un impatto minimo o nullo sulla qualità della vita. Per molti giovani lavoratori, tuttavia, questo onere fiscale fa una differenza significativa.

Critica anche il tetto fiscale sui contributi previdenziali. Negli Stati Uniti, entro il 2025, saranno tassati solo i primi 176.100 dollari di reddito. Ciò significa che, in pratica, un CEO miliardario contribuisce al sistema nella stessa misura di un professionista della classe media.

Una delle proposte più popolari per affrontare i problemi finanziari della previdenza sociale è quella di eliminare il limite massimo per i redditi superiori a 400.000 dollari. Tuttavia, secondo gli esperti, anche questa misura ritarderebbe il collasso del fondo solo di circa 20 anni.

Organizzazioni come il Manhattan Institute, un think tank conservatore, sostengono in parte la tesi di Galloway: mantenere i benefici per i pensionati ad alto reddito comporta una redistribuzione regressiva. Secondo lui, continuare ad aumentare le tasse e i contributi per mantenere questi benefici è "uno dei più grandi e ingiusti trasferimenti di ricchezza intergenerazionali della storia".

La proposta di Galloway tocca una corda sensibile nel dibattito negli Stati Uniti e in un numero crescente di paesi: la previdenza sociale dovrebbe essere un diritto universale garantito dal versamento dei contributi oppure un sistema su misura per le esigenze di ogni individuo? La sua idea, seppur controversa, ci costringe ad affrontare una scomoda realtà: mantenere lo status quo delle pensioni potrebbe avere conseguenze altrettanto ingiuste, ma per le generazioni più giovani.

lunedì 19 maggio 2025

Niente svolta in Ucraina, la Ue rilancia il mercato unico, schiaffo della Corte a von der Leyen

@ - Buongiorno e bentornati su Europa24, in una settimana che ha ruotato inevitabilmente attorno all’auspicata ripresa di negoziati diretti tra Russia e Ucraina.


Il ministro degli Esteri turco Hakan Fidan (al centro) parla alle delegazioni ucraina (a sinistra) e russa riunite nel Palazzo presidenziale a Istanbul EPA/TURKISH FOREIGN MINISTER OFFICE

Non si è concretizzato l’incontro ai massimi livelli tra i presidenti Volodymyr Zelensky e Vladimir Putin, che qualcuno a un certo punto si era spinto a ipotizzare, ma venerdì due delegazioni si sono incontrate a Istanbul, per la prima volta in tre anni. La svolta non c’è stata e le posizioni restano molto distanti, ma il filo del dialogo non è stato completamente interrotto.

Mentre russi e ucraini negoziavano in Turchia, a Tirana, a margine del vertice della Comunità politica europea, il leader della cosiddetta coalizione dei volenterosi hanno incontrato Zelensky e hanno avuto un colloquio telefonico con Donald Trump, lanciando a Mosca un messaggio di unità e ventilando nuove pesanti sanzioni coordinate se la Russia continuerà a prendere tempo e a porre condizioni inaccettabili per la tregua.

Complice la guerra in Ucraina, il tema della difesa rimane al centro del dibattito europeo, con particolare riferimento all’incremento delle spese militari in sede Nato. I ministri degli Esteri dell’Alleanza ne hanno parlato giovedì, in una riunione in Turchia preparatoria al vertice di giugno. L’Amministrazione Trump preme per un incremento al 5%, il segretario della Nato, Mark Rutte, è al lavoro per una sorta di mediazione che possa farvi rientrare non solo le spese militari propriamente dette, ma anche quelle per infrastrutture per la difesa.

Al 5% sembra puntare - anche se sui numeri il neo-cancelliere Friederich Merz invita alla cautela - la Germania, in ogni caso decisa a una svolta in campo militare per dar vita alla «più potente forza armata convenzionale d’Europa», come lo stesso cancelliere ha ribadito nel suo primo intervento al Bundestag.

Sull’altro grande dossier che ha dominato le cronache delle ultime settimane, la guerra dei dazi con gli Stati Uniti, da Bruxelles filtra intanto un cauto ottimismo, con i ministri Ue e il commissario al commercio Sefcovic che hanno evidenziato giovedì segnali di distensione da parte di Washington, seppure in un contesto che rimane ancora incerto.

I dazi non sono l’unico ostacolo per fa ripartire l’economia Ue, che ha bisogno anche di un rilancio del mercato unico, fiore all’occhiello dell’architettura comunitaria che ne riflette però anche contraddizioni e inefficienze. Le prospettive e i piani d’azione allo studio della Commissione in questo approfondimento.

Le cronache brussellesi degli ultimi sette giorni registrano infine un colpo all’immagine della presidente della Commissione Ue, Ursula von der Leyen: la Corte europea di Giustizia ha infatti accolto un ricorso del New York Times, bocciando la mancata pubblicazione degli sms da lei inviati al gruppo farmaceutico Pfizer durante la pandemia.

In chiusura torniamo alla guerra in Ucraina, per raccontarvi, attraverso il reportage del nostro inviato, una forma particolare di resistenza all’invasione russa: quella delle “fate partigiane”.

lunedì 12 maggio 2025

Il primo viaggio apostolico di Papa Leone XIV potrebbe essere in Turchia: un gesto simbolico in occasione dei 1.700 anni dal Concilio.

@ - Nel solco delle grandi decisioni dei predecessori, ogni nuovo Papa affronta la delicata scelta del proprio primo viaggio apostolico, un evento carico di significato teologico, simbolico e politico. Papa Leone XIV, recentemente eletto, si trova davanti a questa decisione.

Papa Leone XIV e il suo primo viaggio: ecco dove sarà

Da sempre, la destinazione scelta riflette le priorità spirituali e diplomatiche del pontificato nascente. Giovanni Paolo II scelse il Messico, Benedetto XVI la Germania, Francesco il Brasile. E ora, Leone XIV guarda a Oriente.

Un inizio pontificale tra storia e simbolismo
Il 2025 non è un anno qualunque per la cristianità: ricorrono i 1.700 anni dal Concilio di Nicea, evento fondativo per la dottrina cristiana e la sua organizzazione ecclesiale. Quel concilio, convocato nel 325 dall’imperatore Costantino nella città di Nicea – l’odierna İznik in Turchia – è alla base del Credo niceno, pietra angolare della fede cristiana ancora oggi recitata nelle celebrazioni liturgiche.

Ma non è solo la storia a suggerire questa meta. C’è un altro elemento che spinge verso questa scelta: l’ecumenismo.

Il dialogo con l'Oriente: un ponte verso l’unità
Papa Francesco ha segnato il proprio pontificato con un deciso slancio verso il dialogo ecumenico, stringendo legami profondi con il Patriarca Bartolomeo e avviando percorsi di collaborazione con il mondo ortodosso. Il suo successore potrebbe raccoglierne l’eredità, e rilanciare.

Un viaggio in Turchia, luogo dove l’Oriente cristiano affonda le sue radici, avrebbe una forza simbolica eccezionale. Lì, nella terra dove il cristianesimo si è confrontato con le sue prime controversie teologiche, Papa Leone XIV potrebbe scegliere di iniziare il proprio cammino pontificale, offrendo un gesto di apertura e riconciliazione verso l’Ortodossia.

Ed è proprio qui la notizia chiave: il 24 maggio potrebbe essere la data del primo viaggio ufficiale del nuovo Papa, proprio a İznik. Una scelta che unirebbe memoria storica, volontà teologica e apertura diplomatica. In un’epoca di divisioni e conflitti, il ponte tra Roma e l’Oriente potrebbe nascere proprio lì dove, 1.700 anni fa, fu proclamata l’unità della fede.

sabato 10 maggio 2025

L'America si contende Leone XIV, ma il primo Papa «born in the Usa» è un vero figlio del mondo | «È uno dei nostri»

@ - DAL NOSTRO INVIATO
WASHINGTON - Sul treno regionale 95 da New York a Washington, all’altezza di Philadelphia, all’una e 13 ora locale dell’8 maggio 2025, si è alzato un grido di gioia. Un po’ tutti i passeggeri, tra cui molti afroamericani, stavano seguendo la diretta da San Pietro sul telefonino, chi sulla Cnn chi sulla Fox, a seconda delle inclinazioni politiche.


Ma tutti, democratici e repubblicani, neri e bianchi, hanno esultato alla notizia del primo Papa nordamericano della storia. Questo popolo ottimista e irrequieto è anche un popolo molto nazionalista. Un popolo con la bandiera in giardino. E l’elezione di un Papa «born in the Usa» ha avuto un effetto elettrizzante in tutto il Paese, da Chicago, dove Robert Francis Prevost è nato, alle comunità latine del Texas e della California, sin qui, sulla East Coast, dove italiani e irlandesi sbarcavano nel secolo scorso.

«Per noi cattolici nordamericani è motivo di immenso orgoglio che sia caduto questo veto. È una giornata storica: al livello del 4 novembre 2008, quando fu eletto il primo afroamericano alla Casa Bianca, come mio padre aveva previsto» dice al Corriere Kathleen Kennedy, figlia di Bob, leggendario leader democratico, e sorella di Robert Jr., ministro della Sanità di Trump.

Poi, siccome l’America è divisa e polarizzata, un minuto dopo ognuno ha cominciato a rivendicare il Papa per sé.

La Casa Bianca fa filtrare la notizia che Prevost sarebbe un repubblicano convinto. Kathleen Kennedy ribatte che «Papa Francesco non avrebbe mai chiamato al suo fianco a Roma un cardinale che non fosse progressista». Di sicuro, Donald Trump è euforico. Si attribuisce il merito di aver fatto eleggere il primo Pontefice nordamericano, e non solo con l’assegnone da quattordici milioni di dollari staccato al Vaticano a latere del funerale di Francesco. Più ancora, Trump rivendica di aver rimesso gli Stati Uniti d’America al crocevia della Storia. Giovedì ha abbreviato una conferenza stampa, si è chiuso nello Studio Ovale a seguire la fumata, poi ha fatto quello che fa nei momenti di euforia: ha attraversato la Pennsylvania Avenue ed è andato a salutare i camerieri dell’Old Ebbitt Grill, la sua steakhouse preferita, che l’hanno accolto con entusiasmo e hanno brindato con lui al primo Papa yankee.

All’insediamento andrà il vicepresidente, JD Vance, convertito al cattolicesimo, che con Prevost ha duellato via tweet. Sarà un confronto serrato, quello tra la Santa Sede e la Casa Bianca. Ponti contro muri. Ma la caduta del veto sul Papa americano è importante per tutti. Gli Usa sono più che mai la grande potenza economica della cristianità. Da qui vengono le donazioni che mandano avanti non solo il Vaticano ma la macchina dell’istruzione e dell’evangelizzazione. Nessun sospetto, nessuna insinuazione. Semplicemente, quello che un tempo era uno svantaggio — essere americano — ora non lo è più.

L’America non fa che parlare del suo declino. Ma se c’è un libro, un film, una medicina, una scoperta scientifica, un’innovazione tecnologica, una tendenza culturale che scuote il mondo, viene dagli Stati Uniti. Ora pure il Papa. E l’apertura alla Cina, materializzata da Luis Tagle, di madre cinese, e da Pietro Parolin, autore dell’accordo con Pechino, non ha portato bene agli altri candidati. Poi c’è la profezia di Steve Bannon. Che è invece funerea. L’unico che previde nel 2016 l’elezione di Trump — lo stesso Donald pensava di perdere, Melania se l’augurava — stavolta ha beccato clamorosamente l’elezione di Prevost. Per Bannon, però, si tratta di un presagio funesto. «È un liberal», quasi un comunista. «Sarà un disastro. Rischiamo lo scisma».

Timothy Dolan, il potente e mediatico cardinale di New York, non la pensa così. Lui sì sarebbe stato davvero il Papa di Trump; per questo sapeva di non avere possibilità. Nel 2013 era stato il king-maker di Bergoglio, per poi pentirsene amaramente. Stavolta è stato tra i grandi elettori di Prevost, insieme con i latinoamericani, anche loro consapevoli di non avere chance in prima persona, e con gli africani, che si sono sentiti confortati nella convinzione di non poter assolutamente benedire le coppie omosessuali, altro tema molto dibattuto qui in America.

Nato a Chicago, Illinois — la città segnata dal magistero sociale dell’arcivescovo Joseph Bernardin, molto vicino negli ultimi anni al giovane Obama —, Prevost ha studiato in Pennsylvania nell’università degli agostiniani, Villanova. Motto: Veritas, Unitas, Caritas. Spiega Kathleen Kennedy che l’ateneo di papa Leone, più che per gli studi teologici, è noto negli Usa per il basket: «Hanno sempre avuto una squadra formidabile. Il mio vicino di casa, compagno di studi del Papa, ha fatto costruire per i ragazzi del quartiere un grande campo di basket, che per i padri agostiniani è metafora della vita: passione razionale, impegno, gioco di squadra». Nulla di più yankee? Al contrario. Papa Leone — per gli americani Pope Leo — è un vero figlio del mondo. Il padre, Louis Marious, aveva radici francesi e italiane; la madre, Milfred Martinez, viene descritta come di origine spagnola.

Ma il New York Times rilancia una storia straordinaria: la nonna materna del Papa, Louise Baquié, era creola; e il nonno, Joseph Martinez, era nero, piccolo proprietario terriero a Seventh Ward, quartiere di New Orleans tradizionalmente abitato da una comunità cattolica di origini africane e caraibiche. I nonni del Papa lasciarono la Louisiana per Chicago agli inizi del Novecento, portando con sé la fede cattolica e la cultura creola della musica e del pescegatto fritto, che è poi l’humus culturale del South Side di Chicago, dove nacque nel 1955 il loro nipote, Robert Francis. La storia è frutto delle ricerche di uno studioso di genealogie, Jari C. Honora, pure lui educato dagli agostiniani, che lavora presso l’Historic New Orleans Collection, e precisa che i nonni materni del Papa sono descritti come neri o mulatti in tutti i documenti e le testimonianze che ha rintracciato. E la storia è stata confermata al New York Times dal fratello maggiore del Papa, John Prevost, 71 anni, che vive tuttora alla periferia di Chicago. Sì, avete capito bene: papa Leone, oltre a essere il primo nordamericano, secondo il principale quotidiano Usa è anche il primo Papa nero, o almeno nipote di neri, della storia. Non è meraviglioso?

La grande fuga dal ministero di Nordio: dimissioni a raffica e nomine bloccate, senza guida tre dipartimenti su cinque

@ - Mentre prosegue lo stallo sul capo del Dap, dovuto allo scontro con il Colle, il Csm ha ufficializzato gli addii di altri due dirigenti. E i loro sostituti non arriveranno a breve


Sei alti dirigenti dimissionari in poco più di un anno, tre dipartimenti su cinque rimasti ufficialmente senza un capo. Sono i numeri record (in negativo) della grande fuga dal ministero della Giustizia di Carlo Nordio: un’emorragia senza precedenti che ha avuto il culmine mercoledì scorso, quando il Consiglio superiore della magistratura ha dato l’ok al ritorno in toga di Luigi Birritteri e Gaetano Campo, i due magistrati scelti dal ministro per guidare rispettivamente i dipartimenti degli Affari di giustizia (Dag) e dell’Organizzazione giudiziaria (Dog). Birritteri, com’era noto, ha chiesto di rientrare in ruolo il 10 aprile scorso; Campo l’ha imitato sei giorni dopo, il 16. Prima di loro, nell’arco di pochi mesi, avevano lasciato altre quattro figure centrali: il capo di gabinetto Alberto Rizzo, la direttrice dell’Ispettorato Maria Rosaria Covelli, il capo della digitalizzazione Vincenzo De Lisi e il numero uno del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap) Giovanni Russo. Se i primi tre sono stati sostituiti, la nomina del nuovo capo del Dap manca ormai da quasi sei mesi: la Presidenza della Repubblica infatti ha bloccato la promozione della vice Lina Di Domenico, decisa in quattro e quattr’otto da Andrea Delmastro, sottosegretario di FdI con delega alle carceri, senza consultare il Colle. E ora che il Csm ha ufficializzato gli addii di Campo e Birritteri, restano senza guida anche altre due strutture fondamentali come il Dag, competente tra l’altro sulla cooperazione internazionale, e il Dog riferimento organizzativo di tutti gli uffici giudiziari italiani.

I nuovi capi in realtà sono già stati scelti: agli Affari di Giustizia andrà Antonia Giammaria, già pm a Roma e direttrice generale degli Affari giuridici e legali, all’Organizzazione Stefano De Michele, già presidente del Tribunale di Tivoli e attuale dg delle Risorse. Ma i tempi dell’avvicendamento non saranno brevi: Nordio vuole evitare a tutti i costi un nuovo incidente col Quirinale e quindi saranno compiuti tutti i necessari passaggi – formali e informali – prima di procedere alle nomine. Per quanto riguarda il caso Dap, invece, la soluzione non è ancora in vista: rispondendo a un’interrogazione parlamentare, il Guardasigilli ha fatto capire di voler insistere sul nome di Di Domenico, che nel frattempo governa di fatto il dipartimento come reggente. Il piano dunque è di trascinare lo stallo almeno fino a raggiungere gli otto mesi dalle dimissioni di Russo, cioè il periodo massimo – citato nella stessa risposta del ministro – in cui finora il Dap è stato senza un capo. Superata quella deadline, a intervenire per tentare di superare le resistenze del Colle (con una sorta di moral suasion alla rovescia) potrebbe essere la stessa premier Giorgia Meloni.

Secondo innumerevoli retroscena (mai smentiti), la ragione dietro la maggior parte degli addii è lo strapotere della capa di gabinetto Giusi Bartolozzi, magistrata fuori ruolo e già deputata di Forza Italia. Ascoltatissima da Nordio, è stata la vice di Rizzo per un anno e mezzo, scavalcandolo però in continuazione, tanto da spingerlo alle dimissioni. Promossa al posto del suo ex superiore, Bartolozzi ha accentrato su di sé il controllo di quasi tutte le articolazioni del dicastero, tanto da guadagnarsi i nomignoli di “ministra ombra” o “zarina“. Nel caso dell’ex capo Dap Russo, invece, a pesare è stato il rapporto teso con Delmastro, definitivamente compromesso dopo che il dirigente ha reso una testimonianza sfavorevole al sottosegretario (poi condannato in primo grado a otto mesi) nel processo a suo carico per rivelazione di segreto per il caso Cospito. Ancora diversa la vicenda di Birritteri, precipitata a causa dello scandalo Almasri: erano stati i suoi uffici, infatti, a preparare l’atto per chiedere di tenere in carcere il generale libico accusato di torture. Ma il ministro aveva rifiutato di firmarlo e trasmetterlo alla Corte d’Appello di Roma, permettendo così la liberazione. A incoraggiare l’ondata di dimissioni, in ogni caso, sono state sicuramente anche le norme approvate ad hoc dalla maggioranza per neutralizzare la legge anti-porte girevoli dell’ex ministra Marta Cartabia, permettendo ai magistrati fuori ruolo (quasi tutti i dirigenti) di tornare direttamente in toga e persino di aspirare a incarichi di vertice. L’ultimo blitz, realizzato a febbraio con un emendamento al decreto Milleproroghe, sospende la normativa addirittura fino ad agosto 2026: anche i futuri capi dipartimento di Nordio, quindi, potranno scappare da via Arenula senza troppe remore.

lunedì 5 maggio 2025

Gotti Tedeschi: "La Chiesa povera di Bergoglio? Un fallimento". Era ora che qualcuno lo dicesse

Storia di Di Antonino D’Anna
 • 1giorno/i 
@ - Era ora che qualcuno lo dicesse: la Chiesa ha bisogno di soldi per compiere le sue opere, il pauperismo tre palle un soldo non serve a niente e soprattutto non sconfigge la povertà.

Gotti Tedeschi: "La Chiesa povera di Bergoglio? Un fallimento". 
Era ora che qualcuno lo dicesse

Ettore Gotti Tedeschi, l’ex presidente dello Ior, Istituto per le Opere di Religione (a torto ritenuta la Banca vaticana, che è invece l’Apsa, Amministrazione Patrimonio Sede Apostolica) viene intervistato da Felice Manti per Il Giornale e mostra di non aver perso smalto. Con un buon contorno di polemiche, visto che definisce questa “Chiesa (ex) cattolica, apostolica, romana”.

Gotti Tedeschi: "La Chiesa povera di Bergoglio? Un fallimento"
Era ora che qualcuno lo dicesse: la Chiesa ha bisogno di soldi per compiere le sue opere, il pauperismo tre palle un soldo non serve a niente e soprattutto non sconfigge la povertà. Ettore Gotti Tedeschi, l’ex presidente dello Ior, Istituto per le Opere di Religione (a torto ritenuta la Banca vaticana, che è invece l’Apsa, Amministrazione Patrimonio Sede Apostolica) viene intervistato da Felice Manti per Il Giornale e mostra di non aver perso smalto. Con un buon contorno di polemiche, visto che definisce questa “Chiesa (ex) cattolica, apostolica, romana”.

Il riformatore che venne cacciato
Detto da uno che venne messo alla guida dello Ior da Benedetto XVI è una cosa grave, molto grave: ancora di più se si pensa che venne defenestrato dallo Ior suddetto con l’intervento del board della banca nel quale sedeva Carl Anderson, allora esponente dei ricchissimi, potentissimi, discretissimi e americanissimi Cavalieri di Colombo. Una realtà piena di soldi figlia di una Chiesa locale, quella yankee, che in donazioni riesce a tenere il passo di quella tedesca (specie ora che il cattolicesimo in Germania è molto azzoppato) e in Conclave dispone del secondo gruppo, per entità, di cardinali elettori sebbene salomonicamente divisi tra progressisti e conservatori o, se preferite, trumpiani e bergogliani.

Già, quel lontano 2012 quando Gotti Tedeschi finì sospettato di riciclaggio (23 milioni di euro che stavano per prendere la via della Germania: soldi su cui lui voleva collaborare con le autorità italiane) e nel maggio dello stesso anno venne cacciato. Il board motivò il licenziamento parlando di mancanze gravi, scrisse che Gotti Tedeschi si disinteressava della gestione della banca (e il Vaticano, nel prendere posizione sulla cacciata, sottolineò che non si trattava di una defenestrazione per motivi legati alla trasparenza): nel 2014 la giustizia italiana ha archiviato la sua posizione, riabilitandolo in pieno. Ma, ovviamente, la Curia non perdona: quando prende una decisione non torna indietro; Gotti Tedeschi non riebbe il suo posto.

Le ambiguità bergogliane minano la sua eredità e il ruolo mondiale della Chiesa
Ma torniamo all’intervista. L’ex banchiere del Papa indica come: “La posta in gioco, più che il cristianesimo e cattolicesimo, è la intera civiltà. Non più, ripeto, cristiana od occidentale, ma civiltà ormai mondiale. Perché di fatto il Pontefice della Chiesa Cattolica è e resta la maggior Autorità Morale al mondo, ascoltata da tutti. Perciò affrontare il tema della eredità di Papa Francesco è estremamente complesso”.

Lo spiega indirettamente con le parole di un amico ebreo:Mi preoccupa la possibile, potenziale confusione che si può percepire tra cosa è bene e cosa non lo è, perché quando c’è questa confusione, nella storia, siamo stati noi ebrei a subirne in qualche modo le conseguenze...”. Diciamo pure che Francesco, specie nei confronti di Israele, dopo il 7 ottobre 2023 non ha mancato di remare in direzione contraria e spesso polemica verso le scelte del governo guidato da Benjamin Netanyahu (e infatti il premier israeliano se l’è presa comoda: tre giorni per mandare le condoglianze in Vaticano).

Dice che la Chiesa con Jorge Mario Bergoglio ha parlato quasi esclusivamente di economia, realtà capace di “inventare soluzioni utopistiche. Ma se queste entrano nel Magistero della Chiesa, che succede?”. Rispondiamo noi: succede che, per esempio, un Papa discetti di parti per milione di anidride carbonica sposando di fatto le idee di Greta Thunberg, e forse questo non dovrebbe essere nelle sue missioni.

Il prossimo? Sia un Papa che parli di spirito
E allora chi deve prendere il posto di Bergoglio? Uno che:Deve indicare le vie di salvezza per l’uomo, proprio in questo mondo di oggi, non nonostante questo mondo! Si rilegga Caritas in Veritate, l’Enciclica della globalizzazione dove il (grande) Benedetto XVI spiega nell’introduzione che in un mondo impregnato di cultura nichilista, l’uomo faticherà a gestire gli strumenti sofisticati di cui dispone, che rischiano di sfuggirgli di mano e prendere autonomia morale”.

E dunque va cambiato il cuore dell’uomo con le “armi” della Chiesa: “Magistero, preghiera e Sacramenti”. Attenzione, questa non è una predica. È un ritratto di un Papa che non va verso l’applauso del mondo – cosa che Francesco ha più volte sembrato fare – ma di un Papa che: “Sappia adottare le norme di governance necessarie all’interno della Chiesa, dotarsi di un Segretario di Stato forte e determinato, profondo conoscitore del funzionamento attuale della struttura”.

Gotti Tedeschi in tema di Segretario di Stato ha ragione da vendere: Tarcisio Bertone era il Segretario di Stato di Benedetto XVI e nel corso del suo mandato ha mostrato di non essere tagliato per il ruolo: salesiano, canonista, ottimo comunicatore, ma non aveva la benché minima formazione diplomatica. Quando si mette qualcuno così alla guida della migliore diplomazia del mondo succedono guai: gli americani, nei cablo di Wikileaks, quando Bertone andò in visita a Cuba lo presero in giro per l’appiattimento sulle posizioni castriste: “Un parroco ci ha detto che tra non molto Bertone prenderà la tessera del partito comunista cubano”. Così, per dire.

Chiesa povera? No, grazie. E Pell…
Conclusione? Amara ironia. Francesco, dice Gotti Tedeschi: “Dichiarò che voleva una Chiesa povera, e ciò l’ha ottenuto mi pare. Ma la Chiesa deve essere ricca. E deve esserlo per poter fare evangelizzazionee correggere caritatevolmen-te ed amorevolmente le cause di taluni squilibri socioeconomici che sono a lei propri. Per far questo ci vogliono tanti soldi”.

È proprio così, e Gotti Tedeschi manca poco che ripeta le parole di Margaret Thatcher, figlia di un pastore protestante: “Nessuno ricorderebbe il Buon Samaritano soltanto per le sue buone intenzioni. Aveva anche i soldi”. Già: senza soldi non raccogli gente bastonata dalla strada, non la porti in albergo, non paghi la camera e non la curi, perché questo fece il buon samaritano. E così è oggi: vuoi sfamare orde di poveri in Africa? Se non hai soldi, tanti soldi, non puoi farlo.

Il problema sta nel come si sono ottenuti e come sono spesi... Se la Chiesa ottempera alla sua missione, verrebbe ‘coperta di soldi’”, dice Gotti Tedeschi, e ha pienamente ragione. Cosa ci vuole per gestire tutti questi santi soldi? “Regole di governance e controllo, conseguentemente. Ho letto che il cardinale George Pell l’aveva ben capito”. Pell, l’australiano ex pugile accusato di pedofilia, andato in carcere, assolto e anche lui uno che si vide sollevare dall’incarico da Francesco. D’accordo, è sterco del demonio: ma è quello che aiuta i disperati. Vedete un po’ voi.

venerdì 25 aprile 2025

Papa Francesco, l'assurda coincidenza sulla tessera del San Lorenzo: il numero da tifoso rivelava già l'età e l'ora della morte

@ - Un destino segnato, quello di papa Francesco. O almeno così sembra a guardare oggi, nel giorno del suo funerale, la tessera con cui il Pontefice era socio della sua squadra del cuore, il San Lorenzo de Almagro.

Papa Francesco, l'assurda coincidenza sulla tessera del San Lorenzo: il numero da tifoso rivelava già l'età e l'ora della morte© Redazione

«Non è mai stato solo uno di noi ed è sempre stato uno di noi», lo ha salutato la sua squadra del cuore. «Cuervo da bambino e da uomo... Cuervo da sacerdote e cardinale... Cuervo anche da Papa... Ha sempre trasmesso la sua passione per il 'Ciclón': quando andava al vecchio 'Gasómetro' a vedere la squadra del '46, quando cresimava Angelito Correa nella cappella della Ciudad Deportiva, quando riceveva le visite del Barcellona in Vaticano, sempre con totale felicità... Membro n. 88235». La coincidenza non è sfuggita ai più attenti: Francesco è morto a 88 anni, alle 2.35 del mattino, ora argentina (le 7.35 in Italia).

Un Papa tifoso
L'amore di Francesco per il San Lorenzo de Almagro, la squadra dei 'corvi', è noto. «Quando è diventato Papa Francesco, quando è stato nominato Papa, ha manifestato al mondo il suo amore per il 'Ciclón' in ogni modo possibile. Si è commosso in ogni visita del Barcellona, dopo la vittoria della Libertadores, con l'amichevole a Roma e nell'ultima, quando gli è stato chiesto il permesso di intitolare il nuovo stadio di Boedo a lui. Da San Lorenzo, oggi salutiamo Papa Francesco, grazie e arrivederci. Insieme per l'eternità», ha sottolineato il club in una nota.

Ma nella storia di Jorge Bergoglio, ragazzo argentino e sacerdote tra la gente di strada, non c'è solo l'amore per il San Lorenzo; ci sono anche giornate passate con campioni assoluti come Maradona, feste con piccoli praticanti, messaggi continui sul valore unificante dello sport, un'amichevole tutta per lui tra l'Argentina di Messi e l'Italia di Balotelli. E poi il lancio dell'Athletica Vaticana, la squadra che sogna di andare alle Olimpiadi. Un rapporto speciale, quello tra lo sport e Papa Francesco. Se accadrà, il merito sarà stato, anche e soprattutto, di Jorge Bergoglio.

«Gli intitoleremo il nuovo stadio»
Ci duole l'anima - ha scritto sul suo sito il San Lorenzo dopo la morte di Francesco - Papa Francesco ha lasciato questo mondo, ma non lascerà mai i nostri cuori. Socio onorario del nostro club, la sua passione per il San Lorenzo ci ha sempre commosso in modo speciale e ora ci unisce nelle preghiere per la sua anima. Fin da bambino i colori 'azulgrana' lo avevano affascinato, per mandato familiare: suo padre Mario José praticava il basket in Avenida La Plata (l'impianto del San Lorenzo, che è una polisportiva ndr). Così aveva imparato ad amare 'el Ciclon' e si era goduto il vecchio Gasometro (lo stadio, ndr), sede di quella squadra emblematica, campione nel 1946, che in attacco aveva Armando Farro, René Pontoni e Rinaldo Martino. La sua passione per René non aveva uguali». Si tratta appunto del 'bomber', Pontoni, di quel San Lorenzo che, come detto più volte dallo stesso Bergoglio, era stato l'idolo del futuro Papa quando era bambino.

«Sempre vicino al nostro club - continua la nota -, aveva celebrato la Messa nella cappella della Ciudad Deportiva, somministrando la Comunione a vari nostri ragazzi, fra i quali Angelito Correa (campione del mondo 2022, ndr). E ogni volta ci ha festeggiato con gioia quando, in questi anni, ci ha ricevuto in Vaticano. L'anno scorso aveva ricevuto il nostro presidente Marcelo Moretti che gli aveva proposto ufficialmente che il nostro futuro stadio in Avenida de la Plata venisse chiamato 'Papa Francesco'. Emozionato, il Santo Padre aveva accettato senza il minimo dubbio».

Pope GREGORY the GREAT social life: Cagnolina mamma non abbandona un attimo il suo cuc...

Pope GREGORY the GREAT social life: Cagnolina mamma non abbandona un attimo il suo cuc...: @ - Dalla fame all’amore: il legame tra una cagnolina randagia e la sua cucciola commuove il personale del rifugio e apre le porte a una nu...

lunedì 14 aprile 2025

Cosa ha reso Putin così feroce, la sua storia dall'inizio: i ratti di San Pietroburgo, il kuzushi e gli anni da spia nel Kgb

@ - La carriera fulminante dello zar comincia con la fine dell'Urss, grazie a una fitta rete di relazioni con personaggi influenti (la cricca di San Pietroburgo). Ma le radici della sua «cattiveria» sono da ricercare nell'infanzia.


Questo articolo è un estratto di Nella mente di Putin, la guida di Marco Imarisio uscita gratuitamente con il Corriere della Sera.

Chi è davvero Vladimir Putin, quale è stato il suo viaggio? Chissà perché, ma a ben vedere la spiegazione appare evidente, quasi tutte le sue biografie danno grande risalto a un episodio in apparenza insignificante, raccontato da lui, e da alcuni testimoni oculari, veri o presunti. La «kommunalka», l’appartamento comunitario di San Pietroburgo dove viveva da bambino, era in un edificio infestato dai topi. Lui e i suoi amici li inseguivano nel cortile con i bastoni.

Un giorno, un grosso ratto che era riuscito a intrappolare, reagì attaccandolo con rabbia, facendogli prendere quello che considera ancora oggi lo spavento più grande della sua vita. «Nessuno deve essere messo all’angolo» ripete sempre accompagnando il racconto di quel lontano episodio. «Nessuno deve essere portato fino al punto di non avere più vie d’uscita». Perché diventa ancora più cattivo, e pericoloso. Ecco la ragione dell’importanza simbolica attribuita a quell’aneddoto.

È il suo metodo. Con lui è sempre stato così. Quando tutti lo ritengono con le spalle al muro, isolato, in difficoltà, alza la posta. Attacca sempre, proprio come fa il suo nuovo amico americano, Donald Trump. Con caratteri così simili e così particolari, in Russia hanno molti dubbi che l’idillio tra Cremlino e Casa Bianca possa durare a lungo.

La famiglia Putin
Ma torniamo a San Pietroburgo. Il 7 ottobre 1952, quando ci nasce Vladimir Putin, si chiama ancora Leningrado. È la città martire del grande assedio durante la Seconda guerra mondiale. La madre Maria e il padre Vladimir vivono quei terribili novecento giorni, ci perdono anche un figlio, Viktor, che muore a cinque anni di difterite, anche a causa dell’impossibilità di curarsi.

Il papà del futuro presidente viene assegnato a un battaglione dell’NKVD, la ex Ceka, che poi diventerà Kgb. È incaricato di operare dietro le linee nemiche dei nazisti. Ferito a una gamba, si rifugia in un canale pieno di fango e si nasconde sotto l’acqua gelata sfuggendo così a una pattuglia tedesca. È un episodio che Putin figlio racconta spesso, anche nella sua autobiografia ufficiale, dal quale si fa impropriamente discendere la sua passione mai dismessa per i Servizi segreti russi.

La serie «Lo scudo e la spada»
In realtà, Putin deve la sua vocazione a un noto film degli anni Sessanta. Se vogliamo, tutto è cominciato con Shchit i Mech, che in italiano vuol dire «Lo scudo e la spada», come l’emblema dei servizi segreti: quattro puntate in onda a partire dal 1965, una storia di avventura e di spionaggio accaduta durante la guerra lungo il confine fra la Germania di Hitler e le Repubbliche sovietiche.

Uno sceneggiato che ebbe un impatto enorme sulla gioventù sovietica. Vladimir Putin ha raccontato più volte di avere deciso d’arruolarsi nei ranghi del Kgb dopo avere seguito tutti gli episodi della serie. La prima volta, lo rimandano indietro. «Ripresentati quando sarai laureato». Lui esegue.

Nonno Spiridon
Quanto al nonno paterno, Spiridon Putin ha avuto un destino decisamente meno ordinario all’interno del regime comunista. Prima cuoco di Lenin nella casa di campagna di Gorki, vicino a Mosca. Poi, al servizio di Stalin. Una vicinanza al vecchio Pcus che è sempre piaciuta poco al presidente russo. Subito dopo essere diventato presidente, Putin si trova a dover affrontare la questione.

«Che penserebbe suo nonno del nipote diventato un presidente
democraticamente eletto?» gli chiede una volta un giornalista.
Putin mostra un certo imbarazzo: «Il fatto che mio nonno abbia
lavorato come cuoco per Stalin non dice assolutamente niente
sulle sue opinioni politiche. Era un altro Paese, un’altra vita, un
altro mondo».

Il maestro di judo e il kuzushi
Il giovane Putin cresce in una città ancora devastata dalla guerra e dalla povertà. Un bambino difficile. Così scatenato che un giorno Vera Dmitrievna Gurevich, la maestra della scuola elementare, andò dal padre per parlargli di quel ragazzo molto intelligente ma con la tendenza a perdersi.

Il colloquio all’evidenza servì. Perché all’improvviso, all’età di undici anni, il piccolo Volodia cambiò. Diventò il più bravo della classe in tedesco, iniziò a fare sport. Un naso rotto lo convinse che non era fatto per la boxe. Fu nelle arti marziali che trovò la vera passione: «Il judo mi ha tolto dalla strada, non so cosa sarebbe stata la mia vita se non avessi conosciuto Anatoly Rakhlin, il mio primo maestro». Con lui ha appreso il kuzushi, movimento che tende a far perdere l’equilibrio fisico e mentale all’avversario per poi rovesciarlo, una tecnica che ha usato anche in politica.

«Ero un piccolo teppista»
Al profilo da ragazzo di strada, cresciuto nelle avversità, ci ha sempre tenuto in modo particolare. Nella sua autobiografia racconta di essere stato espulso dai giovani pionieri, l’organizzazione dei giovanissimi del Pcus, dopo avere insultato il professore di chimica. A differenza di tutti, per punizione, non potrà mai esibire al collo l’ambito fazzoletto rosso e sul petto il
distintivo della faccia di Lenin.

«Non ero un pioniere, ero un piccolo teppista». Una frase che fa parte della costruzione della sua immagine, e lo rende simpatico ai milioni di russi che amano gli uomini venuti dal basso e detestano i prodotti della nomenklatura. Il giovane Putin ama alzare le mani, e diventa un esperto di arti marziali.

Impara il judo con Putin
Molti studiosi si sono dedicati in questi venticinque anni alla ricerca e allo studio delle sue principali influenze culturali, da Kant a Marx eccetera. Le cose, almeno qui, sono un po’ più semplici. Le foto diffuse periodicamente che lo riprendono in kimono, con l’espressione corrucciata, non sono una semplice posa. «Il judo unisce in sé tecniche di combattimento uniche e una filosofia originale e profonda» dice in una intervista recente «che sviluppa le migliori qualità».

Durante un incontro con dei giornalisti giapponesi, si spinge oltre, ricordando che la parola judo significa «via della cedevolezza»: «È una vera e propria filosofia, l’unica alla quale aderisco, perché preferisce l’evoluzione alla rivoluzione, e ci insegna a utilizzare e preferire ciò che già abbiamo». Un elogio ante litteram dell’attuale autarchia russa, sotto forma di disquisizione sportiva.

Nel 2001, anche in Italia, quando tirava un’aria ben diversa da quella di oggi tra Russia ed Europa, uscì il libro. Impara il judo con Putin. In copertina, lui con il kimono bianco e un sorriso gioviale stampato sulla faccia.

Un'idea romantica dello spionaggio
Ma nella sterminata burocrazia sovietica, una volta ottenuta la laurea in giurisprudenza, Putin ci entra comunque a pieno titolo con l’arruolamento nel Kgb. «Una figura senza volto, senza colore» così lo ricordano i suoi superiori. Senz’altro, non un uomo di punta. Sono gli anni di Breznev, quelli della stagnazione. Non succede nulla, lo Stato comincia a scricchiolare sotto il peso della corruzione diffusa.

Il futuro presidente corona il suo sogno, fatto non dalle purghe staliniane, ma da una idea romantica dello spionaggio, come scrisse nella sua autobiografia. Ironia della sorte, ottiene come primo compito il controllo di un gruppo di dissidenti, missione che svolgerà con modi molto più moderati di quelli adottati quando salirà al Cremlino.

«Loro organizzavano qualche manifestazione e chiamavano a partecipare diplomatici e giornalisti stranieri. Noi non potevamo usare la forza per disperderli, non avevamo ordini in tal senso. Così, organizzavamo una contromanifestazione per deporre corone di fiori nello stesso posto e alla stessa ora, convocando i membri regionali del partito e dei sindacati, e quindi facendo transennare la zona. A volte, facevamo suonare anche la banda con i tromboni e gli ottoni. I giornalisti si annoiavano, e la protesta falliva».

Il crollo dell'Urss
Lo mandano a Dresda, nella Germania orientale. È il 1985, Gorbaciov ha appena lanciato la perestrojka, ma laggiù non è ancora arrivata. Non ce n’era traccia. Eppure, la città tedesca diventa quasi un punto di vista privilegiato per assistere a quella che Putin non esita a definire come «la più grande catastrofe geopolitica del XX secolo»: il crollo dell’Urss.

Ma quegli anni prima che venga giù tutto, sono forse decisivi per la formazione del futuro Capo di Stato. Quel Kgb è anche un osservatorio dal quale seguire il malfunzionamento del sistema sovietico, il dilagare del malaffare, la sconfitta imminente nei confronti dell’Occidente, e la crescita di una sfiducia generalizzata della società russa verso il suo stesso mondo. Putin assiste inerme al crollo di tutto quello a cui aveva creduto. Quando cade il muro di Berlino, vive l’umiliazione dell’assalto della folla alla sede di Dresda del suo Kgb.

Spia per sempre
Si dimette subito dopo. Motiverà il suo gesto come una rassegnata presa d’atto, non certo come un pentimento o una presa di distanza morale. «Mi era divenuto ben chiaro che per questo sistema non c’era più futuro».
È venuto giù tutto. Putin e la moglie Ludmila, ex operaia tornitrice in una fabbrica di Kaliningrad, hostess della Aeroflot, sposata nel 1983, tornano a San Pietroburgo in treno, per poter portare con sé anche una lavatrice vecchia di vent’anni, ultimo regalo dei colleghi e dirimpettai della Stasi.

Hanno due figlie. Maria è nata a Leningrado, Ekaterina a Dresda. E hanno un problema. Come guadagnarsi da vivere? Il capofamiglia racconta agli amici di essere rassegnato a fare il tassista. Rifiuta un impiego del Kgb nella periferia di Mosca: non gli pagano la casa, e lui non può permetterselo. Torna all’università, per un dottorato in diritto internazionale. Diventa assistente del rettore, anche per via del suo ruolo di agente Kgb «in riserva». Come ripeteva spesso nelle interviste dei primi tempi, una volta Agente segreto, lo rimani per sempre. Scherzava, ma non troppo.

Le teorie cospiratorie
L’incontro che cambia la sua vita è quello con Anatolij Sobchak, suo ex docente e presidente del Consiglio comunale, destinato ben presto a diventare sindaco. Putin confessa al professore la sua appartenenza al Kgb, ma lui non ne tiene conto. «È solo un mio ex studente», ripeteva. Su questo legame sono cresciute molte teorie più o meno cospiratorie. Secondo alcune, fu il Kgb a manovrare per mettere un suo agente al fianco di uno dei politici in ascesa nella nuova Russia: aveva documenti compromettenti su Sobchak e li fece valere.

Secondo altre, fu lo stesso sindaco a cercare Putin, garantendosi così la protezione del Kgb. Lui, comunque, rimase per cinque anni nella squadra del sindaco della seconda città più grande di Russia, che gli affidò l’organizzazione interna e in buona sostanza anche la gestione degli affari, nominandolo capo dell’ufficio per le relazioni economiche con l’estero. Intanto, Putin si dimette dal Kgb il 20 agosto del 1991. Un giorno dopo il tentato colpo di Stato contro Gorbaciov da parte della vecchia guardia sovietica guidata da un manipolo di suoi colleghi del Kgb. «Capii subito da che parte dovevo stare».

La cricca di San Pietroburgo
In quegli anni si formano i legami e le amicizie che viaggeranno con Putin fino al Cremlino. Nasce la cosiddetta «cricca di San Pietroburgo», definizione forse un po’ esagerata, ma che contiene una verità. Nella capitale baltica, il futuro presidente cementa il suo legame con Nikolaj Patrushev, collega di Kgb e di affinità imperialiste, conosce il giovane avvocato di Sobchak, un certo Dmitrij Medvedev, fa amicizia con Roman Abramovich, aiutandolo a districarsi dalle accuse di aver rubato un treno carico di cisterne di petrolio destinato all’estero. Lavoravano tutti insieme per il sindaco: il futuro premier e presidente Dmitrij Medvedev, il futuro ministro delle Finanze Alexej Kudrin, il capo di Rosneft Igor Sechin, il boss dello sport russo Vitaly Mutko, il capo della Guardia Nazionale Viktor Zolotov, quello dei servizi segreti Sergei Naryshkin.

Poi c’erano i compagni di judo, i fratelli Rotenberg, Arkady e Boris, che sarebbero diventati i «suoi» oligarchi. E non ultimo c’era il proprietario di un ristorante che lui frequentava, Evgenij Prigozhin, detto il cuoco di Putin, miliardario grazie ai catering per il Cremlino e fondatore della Wagner, la milizia mercenaria che interviene nel mondo, dalla Siria alla Libia, in nome e per conto di Mosca.

Con i suoi vecchi amici, si mostrerà quasi sempre magnanimo, come per restare fedele a un patto di gioventù. Tranne che con Prigozhin, che deluso dall’Operazione militare speciale guidata dal «moscovita» ministro della Difesa Sergey Shoigu, marcia su Mosca, tradendo così la fiducia del suo vecchio amico. Che, come noto, non lo perdonerà.

Il mistero sulla ricchezza personale di Putin
In qualche modo, la verticale del potere putiniano nasce lì, all’interno del municipio. Anche per questo, sugli anni san pietroburghesi di Putin permane ancora un velo di mistero, che comprende le origini della sua ricchezza. Secondo una versione mai verificata dei fatti, la fortuna personale di Putin si forma in modo affine a quella di Abramovich. Una volta a capo del Dipartimento degli Affari internazionali, protesta contro gli scaffali vuoti nei negozi e si fa regalare da Eltsin, per intercessione di Sobchak, una fornitura enorme di legname pregiato, petrolio, diverse tonnellate di metalli rari, che rivenderà all’estero per acquistare beni di prima necessità per gli abitanti di San Pietroburgo, tenendo per sé la differenza tra le due operazioni, equivalente a due milioni di dollari.

Ma sono voci non confermate da alcuna prova. La ricchezza di Putin rimarrà sempre un mistero. Anzi, secondo il sito ufficiale del Cremlino, non esiste.

La scalata al Cremlino
Nel 1996, Putin perde nuovamente il lavoro. San Pietroburgo è una città corrotta e in mano alla criminalità organizzata. Vladimir Yakovlev, il vice di Sobchak, vince le elezioni amministrative con una campagna molto aggressiva, che non gli verrà mai perdonata dal futuro presidente. Ma i contatti stabiliti durante quei cinque anni lo portano ancora più in alto. Lo portano al Cremlino, tramite Pavel Borodin, capo della Tesoreria di Boris Eltsin.

Putin ne aveva aiutato la figlia, affetta da una grave malattia, quando era studentessa a San Pietroburgo, cercando per lei dei medici di qualità. Borodin si sdebita chiamando l’amico nel suo ufficio, che gestisce le proprietà personali di Eltsin, e affidandogli la cura dei possedimenti esteri. Per ovvie ragioni, è un lavoro che lo mette in contatto con «la Famiglia».

La prima apparizione in tv
La sua ascesa diventa fulminea. Gli bastano meno di due anni per imparare i codici di comportamento non scritti del Cremlino. Poche parole, sempre con la soluzione pronta in tasca. Nel 1998, Eltsin lo nomina capo del Fsb, erede del Kgb. Lui mostra totale lealtà al capo. E anche molto zelo. Quando il Procuratore federale Yurij Skuratov apre un’indagine per corruzione sulla famiglia Eltsin, un video andò in onda improvvisamente su tutte le televisioni russe. Skuratov era senza veli, in azione con due acrobatiche prostitute. Era il più classico dei kompromat nell’arsenale della Lubjanka.

Putin appare per la prima volta in televisione, spiegando che non si tratta di un falso. Dimissioni immediate di Skuratov, fine dell’indagine. Ma fare il primo ministro, quello è il salto più grande, davvero un salto potenzialmente mortale. Di chi è stata l’idea? In molti rivendicarono la trovata di aver messo al potere quell’oscuro funzionario che aveva come unico compito quello di garantire al presidente una onorevole ritirata al riparo delle inchieste giudiziarie sulla corruzione, e al suo clan di continuare a gestire il potere.

L'«inventore» di Putin
Ma l’unico che ha sempre potuto vantare una primogenitura era Valentin Yumashev. Dopo averne discusso soltanto con Anatolij Chubais, il plenipotenziario economico che all’inizio degli anni ’90 consegnò le più grandi aziende pubbliche ai privati, creando gli oligarchi, fu lui a convincere il futuro suocero a scegliere Putin come proprio successore.

In una rara intervista concessa alla Bbc nel 2019, altri tempi ormai, se ne vantò con discrezione, raccontando come erano andate le cose. Eltsin aveva una sua rosa di candidati, tra i quali spiccava Boris Nemtsov, il liberale che il 27 febbraio 2015 verrà assassinato mentre cammina sul ponte del Cremlino, forse il delitto politico russo più misconosciuto e importante.

Ne parlò con Yumashev, l’ex giornalista, capo del suo staff e in seguito marito di sua figlia Tatiana: erano i suoi consiglieri occulti fin dal 1996, quando diressero una campagna elettorale che sembrava destinata a fallire contro i comunisti di Zyuganov e invece si trasformò in un trionfo grazie ai finanziamenti di quelli che poi sarebbero diventati oligarchi. «Invece io gli dissi che Putin sarebbe stato perfetto, perché era chiaro che fosse pronto per incarichi importanti». Eltsin annuì. La storia della Russia stava per cambiare.