martedì 4 febbraio 2025

Place of Ancient Roman Countryside for European Life - Esarcato Area PARCEL: Dazi e armi, ecco come Meloni sta mediando fra Tru...

Place of Ancient Roman Countryside for European Life - Esarcato Area PARCEL: Dazi e armi, ecco come Meloni sta mediando fra Tru...: @ - Non finire stritolata tra Washington e Bruxelles. Non essere costretta a scegliere tra Donald Trump e Ursula von der Leyen. Giorgia Me...

Dazi e armi, ecco come Meloni sta mediando fra Trump e l’Europa e cosa può ottenere per l’Italia

@ - Non finire stritolata tra Washington e Bruxelles. Non essere costretta a scegliere tra Donald Trump e Ursula von der Leyen. Giorgia Meloni è una trapezista senza rete. Da un lato, la minaccia del Presidente Usa che incombe sull’Europa con i suoi dazi e la sua richiesta di riarmo. Dall’altro, l’Unione Europea, divisa e paralizzata, come sempre. 

Dazi e armi, ecco come Meloni sta mediando fra Trump e l’Europa e cosa può ottenere per l’Italia

La Premier italiana ha scelto di stare al centro, di fare da mediatore. Ma quel ruolo che oggi le sembra una posizione di forza si può trasformare in un abito troppo stretto, soffocante. Meloni lo sa ma non ha alternative. Anzi è convinta che può ricavarne qualcosa di solido in prospettiva. Ad esempio una flessibilità del Patto di stabilità sul computo delle spese per la Difesa, che Roma chiede da anni senza successo.

Il riarmo dell’Europa assieme ai dazi sono i due temi portanti di questo inizio anno su cui incombe l’ombra del nuovo inquilino della Casa Bianca, come dimostra il confronto avvenuto nel Consiglio straordinario di lunedì 3 febbraio a Bruxelles. Un vertice durante il quale Meloni da un lato ha suggerito agli alleati di evitare il corpo a corpo con Trump e dall’altro è tornata alla carica sulla necessità di escludere dal calcolo del deficit le spese per la Difesa. Per ora il Presidente Usa ha minacciato ma non deciso di aumentare le tariffe: “Vuole negoziare”, è la convinzione della Premier. In parte è certamente vero. Ma solo in parte, perché la stessa Presidente del Consiglio è consapevole che quella minaccia a breve si tradurrà in qualcosa di molto concreto e doloroso. Soprattutto per i Paesi più esposti nell’interscambio con gli Usa: Germania e Italia.

Nel frattempo, la data del 23 febbraio incombe. Sono le elezioni tedesche, e Trump potrebbe aspettarne l’esito prima di affondare il colpo sui dazi. Chissà se qualcuno – magari Elon Musk, il suo amico e sponsor della destra estrema europea– gli ha suggerito di temporeggiare, per vedere di quanto salirà l’AfD e puntare sulle difficoltà di Berlino per formare il nuovo governo. E non è da escludere anche che, quando la minaccia si farà concreta, Trump l’articolerà. Nel senso che si muoverà puntando a dividere la Ue, favorendo alcuni prodotti rispetto ad altri. Comprare armi (e gas liquido) made in Usa può certo aiutare a riequilibrare la bilancia commerciale tra le due sponde dell’Atlantico e rendere meno ostile Trump. Meloni ci conta. Ma per giocare questa carta ha bisogno di soldi, di margini di spesa che Bruxelles, per ora, non le concede. E così la Premier prova a barattare il riarmo con la flessibilità, chiedendo che le spese militari siano escluse dal calcolo del deficit, che si adottino misure straordinarie - emissione di debito - come avvenuto con il Covid.

La Presidente della Commissione Ursula von der Leyen si è detta disponibile a una qualche forma di flessibilità mentre si lavora a un possibile faccia a faccia a Washington. No (per ora) della Germania e dell’Olanda. Un no paradossale, soprattutto quello di Amsterdam, che ha un ministro dell’Economia di destra-destra che va a braccetto con Matteo Salvini e un ex premier, Mark Rutte (quello che andò a Tunisi con Meloni per firmare il patto sui migranti) alla guida della Nato, impegnato proprio a spingere per l’aumento della spesa militare europea. Il cortocircuito è evidente.

L’Italia al momento è ancora parecchio sotto il tetto del 2% del Pil che era stato fissato qualche anno fa e che nel frattempo è diventato anacronistico. Trump ha alzato l’asticella al 5%. Per noi si tradurrebbe in oltre 100 miliardi. Impossibile, anche solo in prospettiva. Meloni sa che l’Italia, da sola, rischia di essere solo un vaso di coccio tra i giganti. Eppure, continua a provarci. Con una strategia che somiglia a una scommessa ma che domani potrebbe rivelarsi un vicolo cieco.

lunedì 3 febbraio 2025

L’annuncio di Donald Trump: dazi anche contro l’Europa. «L’Italia sarà colpita»: il piano di Meloni per fermare il tycoon

@ - A Roma potrebbero costare dai 4 ai 10 miliardi di dollari: 44 mila imprese colpite. Bruxelles vuole proporre acquisti di gas e armi per evitare lo scontro. La premier mediatrice con gli Usa


È arrivato il momento. Donald Trump annuncia dazi anche contro l’Unione Europea. E continua ad attaccare il Wall Street Journal e gli hedge fund che sono contrari. «Queste persone o entità sono controllate dalla Cina o da altre compagnie straniere e locali», ha scritto il presidente americano in un post su Truth. «Chiunque ami e abbia fiducia negli Stati Uniti è a favore delle tariffe», ha aggiunto. Il presidente ha anche annunciato che discuterà delle tasse sul commercio con Cina e Canada «nelle prossime ore». E ha pure fatto sapere che gli Usa presto riprenderanno il Canale di Panama, «altrimenti succederà qualcosa di molto grosso».

L’Europa e i dazi doganali americani
I prodotti europei saranno «molto presto» colpiti dai dazi doganali americani, dopo quelli imposti sui prodotti provenienti da Canada, Messico e Cina, ha detto Trump alla stampa. Spiegando che «si stanno davvero approfittando di noi, abbiamo un deficit di 300 miliardi di dollari. Non ci prendono le nostre auto o i nostri prodotti agricoli, quasi nulla e noi tutti prendiamo milioni di automobili, quantità enormi di prodotti agricoli». Sul timing Trump ha spiegato: «Non ho un calendario ma arriverà molto presto». Intanto l’Unione Europea prepara le contromosse. Il Corriere della Sera fa sapere che dagli uffici di Ursula von der Leyen in queste ore è stato aperto un canale negoziale con la Casa Bianca. Bruxelles sta cercando di offrire pacchetti di maggiori acquisti di gas liquido e aumenti della spesa militare per scampare ai dazi.

«L’Italia sarà colpita»
E c’è anche un retroscena che riguarda il governo. «L’Italia sarà colpita», è il ritornello di cui a Palazzo Chigi non fanno mistero. Nonostante le dichiarazioni di «simpatia» di Trump nei confronti di Giorgia Meloni. In questa fase la premier cerca di minimizzare i danni: gli americani per esempio potrebbero colpire lo champagne francese ma non il prosecco o il franciacorta. La fase di risposta della Ue non sarà bilaterale ma presa a maggioranza dal Consiglio Europeo. Tra le ipotesi di risposta c’è quella di colpire l’agroalimentare, le importazioni di whisky e bourbon, le Harley Davidson, i suv e i pick-up. E l’Europa potrebbe anche rendere più difficile ai big del tech come Microsoft e Tesla di accedere agli appalti pubblici.

La mediatrice
Meloni vorrebbe indossare i panni della mediatrice. A Palazzo Chigi, spiega oggi La Stampa, sono convinti di poter fare cambiare idea a Bruxelles. La premier può garantire una maggiore sintonia con il tycoon. Ma in cambio chiederà di venirle incontro sulle spese per la difesa. E sulla necessità di scorporare gli investimenti del settore dal calcolo del deficit secondo il nuovo Patto di Stabilità. . Mentre il ministro dell’Industria francese, Marc Ferraci, auspica una «reazione aggressiva», che deve «avere un impatto sull’economia americana per costituire una minaccia credibile. Dobbiamo smetterla di essere ingenui».

10 miliardi
Ma a quanto ammonterebbe il costo dei dazi per l’Italia? Potrebbero colpire fino a 44 mila imprese nei campi della meccanica, della moda, dell’agroalimentare e della farmaceutica. Uno studio di Prometeia citato dal ministero degli Esteri parla di un minimo di 4 e un massimo di 7 miliardi. Altre stime portano il valore dei dazi sulle merci italiane a 10-12 miliardi. Secondo un report di Banca dek Fucino però, analizzando le categorie di prodotti sulle quali è concentrato l’export italiano verso gli Usa (al 98% beni manifatturieri) «accanto a prodotti tipici del made in Italy come i prodotti alimentari e l’abbigliamento, si trovano categorie con un peso anche maggiore come macchinari, mezzi di trasporto e articoli farmaceutici che costituiscono le vere e proprie colonne portanti dell’industria e dell’export italiani».

Nicchie di mercato
Secondo gli analisti dell’istituto di credito si tratta «di nicchie di mercato difficilmente contendibili e produzioni in gran parte altamente sofisticate, e dunque con un alto grado di specializzazione. E quindi è presumibile che gli Usa nel breve medio termine non saranno in grado di rimpiazzare le forniture italiane su queste categorie di prodotti».

mercoledì 29 gennaio 2025

Quali Paesi hanno la pena di morte nel 2025?

 @ Nel 2025 la pena di morte è ancora una realtà in diversi Paesi e non mancano le esecuzioni. Ecco dove e quali sono le novità per gli Stati Uniti.

Parlare di pena di morte nel 2025 sembra anacronistico in alcuni Stati, ma non c’è argomento più attuale. L’attuale contesto geopolitico e i cambiamenti introdotti da Donald Trump, nuovamente insediato alla Casa Bianca, impongono riflessioni accurate su quello che è da sempre un argomento divisivo. La pena di morte è un tema caldo di dibattito sia nel campo giuridico che in quello etico e filosofico e nessuno può ergersi a giudice universale.

Attualmente sono ancora diversi gli Stati in cui vige la pena di morte, anche se non tutti la applicano effettivamente. I reati per cui è prevista e le modalità di esecuzione sono aspetti altrettanto importanti per questa pena, che separa anche l’opinione pubblica. Qualcuno la considera una vera e propria barbaria, altri la giusta punizione per i crimini più efferati. Da un punto di vista prettamente funzionale, possiamo però dire che la pena di morte non funziona granché come deterrente, al contrario di ciò che tanti pensano.

Negli Stati dove viene applicata, infatti, non si registrano cali rispetto ai reati in questione. Diversi studi e ricerche internazionali sostengono questa tesi, motivo per cui alcuni esperti sostengono altri argomenti a favore della pena capitale. In ogni caso, ogni Nazione decide con una certa autonomia e questa pena non trova alcuno spazio nella Costituzione italiana. Non è per tutti così.

La pena di morte in Italia
In Italia la condanna a morte non trova spazio nell’ordinamento penale, che attribuisce alla pena innanzitutto una funzione rieducativa e non deve contrariare il senso di umanità costituzionale. Non bisogna guardare alla pena di morte come un passato lontano, visto che la sua abolizione formale è avvenuta soltanto nel 1948, per l’appunto grazie alla Costituzione.

Il processo che ha portato a questo traguardo è stato però graduale e i primi segnali di ridimensionamento si hanno già a partire dal 1889, quando la pena di morte viene abolita nel Regno d’Italia, salvo essere ripristinata nel ventennio fascista, durante il quale si ebbero 118 esecuzioni. Di fatto, l’ultima condanna a morte è stata eseguita nel 1947. Già prima dell’abrogazione definitiva, il d.l.l. n. 224 del 10 agosto 1944 di re Umberto di Savoia riduce notevolmente l’applicazione della massima condanna, limitandoli a reati legati al fascismo e destinandone la competenza ai tribunali militari.

La pena rimane comunque nel Codice penale militare di guerra fino al 1994, per venire poi sostituita con l’ergastolo. Il processo è stato molto lungo, ma ha portato a un’abrogazione definitiva, che per tanti Stati del mondo appare più lontana che mai. Nel 2024 i Paesi che hanno la pena di morte sono molti di più di ciò che si potrebbe pensare, nonostante l’impegno delle Nazioni Unite e delle organizzazioni di pace. Di seguito l’elenco dei Paesi in cui c’è ancora la pena di morte e qualche informazione per contestualizzare.

Quali sono i Paesi con la pena di morte nel 2025
Attualmente, sono più di 50 i Paesi che prevedono ancora la pena di morte nel loro ordinamento penale e la eseguono. Pur non avendo espressamente cancellato la pena capitale, infatti, diversi Paesi l’hanno abolita di fatto non praticandola nelle condanne. Per esempio, diversi Stati degli Usa hanno aderito a moratorie contro l’uso della pena capitale, pur non abolendola. Tra gli Stati che ancora usano la pena di morte rilevano soprattutto la Cina e i paesi afro-asiatici, tra i primi per il numero elevato di esecuzioni.

Per semplificare, si citano soltanto i Paesi con la pena di morte che nel 2025 la praticano ancora per i reati comuni, evidenziando solo quelli particolarmente ingiustificati rispetto alle indicazioni delle Nazioni Unite. Di norma, la pena capitale è prevista per l’omicidio e l’alto tradimento, ma spesso anche per spionaggio e tentativi sovversivi oltre che per crimini sessuali.
Algeria;
Botswana;
Camerun;
Comore;
Repubblica del Congo;
Egitto (anche per traffico di stupefacenti e bestemmia);
Etiopia;
Gambia;
Kenya;
Lesotho;
Liberia;
Libia;
Malawi;
Mali;
Mauritiana (anche per la sodomia);
Marocco;
Niger;
Nigeria (compresa la sodomia, oltre a eventuali specifiche della legge islamica vigente nel Nord);
Somalia;
Sudan e Sudan del Sud (anche per sodomia, prostituzione e apostasia);
eSwatini;
Tanzania;
Tunisia;
Uganda;
-* Antigua e Barbuda;
Bahamas;
Barbados;
Belize;
Dominica;
Giamaica;
Saint Kitts e Nevis;
Saint Lucia;
Saint Vincent e Grenadine;
Trinidad e Tobago;
Turks e Caicos;
Stati Uniti, con 25 Stati/territori abolizionisti e la sospensione dell’applicazione federale;
Guyana;
Perù;
Afghanistan (tra cui adulterio, sodomia, apostasia, omosessualità);
Arabia Saudita (apostasia, reati di droga, condotta sessuale immorale e stregoneria);
Bahrein;
Bangladesh (anche per reati di droga);
Brueni (anche per il possesso di stupefacenti);
Cina, di cui non si dispongono i dati ufficiali;
Giordania;
India;
Indonesia;
Iran (tra cui sodomia, terza condanna per uso di alcol, prostituzione reiterata e adulterio);
Iraq (anche distribuzione di droga);
Israele;
Giappone;
Corea del Nord;
Kuwait (anche per traffico di droga);
Laos (per traffico di droga);
Libano;
Malaysia, dove ne è stata abolita l’obbligatorietà;
Maldive;
Birmania;
Oman;
Pakistan (tra cui sodomia);
Qatar;
Singapore (anche per detenzione di stupefacenti);
Sri Lanka;
Siria;
Taiwan (anche per traffico di droga);
Thailandia (tra cui ribellione e traffico di droga);
Emirati Arabi Uniti (tra cui reati di droga e omosessualità);
Vietnam (tra cui reati di droga e contro il patrimonio);
Yemen (tra cui omosessualità e adulterio);
Russia, di cui non si dispongono dati ufficiali e con diversi interventi contradditori.

La pena di morte nel mondo
Non è facile trovare dati unitari e completi sulle esecuzioni capitali nel mondo, su cui la maggior parte dei Paesi che le applicano prova a mantenere grande riserbo. Questo perché la pena di morte viene spesso impiegata per ragioni ingiuste anche negli stessi ordinamenti che la prevedono e/o con metodi crudeli. Rileva in proposito il report annuale di Amnesty International, associazione che promuove l’abolizione, al momento disponibile con dati aggiornati al 2023. Tra i dati presi in considerazione ci sono proprio la frequenza delle esecuzioni e i reati per cui sono previste. Nel complesso, c’è stato un notevole aumento del ricorso a questa pena, tanto che hanno ripreso a usarla anche ordinamenti che da tempo la ignoravano.

In particolare, nell’anno 2022 ci sono state 883 esecuzioni in 20 Stati, il tasso più alto degli ultimi 5 anni ha portato a un aumento del 53% rispetto al 2021. Queste informazioni, tuttavia, non sono omogenee, infatti il 90% dell’aumento di esecuzioni si è concentrato nell’area tra Medio Oriente e Africa del Nord. Si fa però riferimento alle sole condanne registrate, mentre si stima che le condanne siano state ben superiori in alcuni Paesi, principalmente Cina, Corea del Nord e Vietnam, dei quali però non si hanno a disposizione i dati precisi.

La Cina è comunque rimasta al primo posto per l’uso della pena di morte, seguita da Iran, Arabia Saudita, Egitto e Stati Uniti. I dati sono preoccupanti perché, a fronte dell’aumento delle esecuzioni, non sono invece aumentate le condanne tra il 2021 e il 2022.

Un’altra situazione allarmante riguarda i reati per cui sono state eseguite le condanne e, in genere, quelli per cui sono previste dagli ordinamenti statali. In particolare, il diritto internazionale chiede almeno di limitare le esecuzioni ai reati più gravi, come l’omicidio intenzionale. Non tutti i Paesi hanno accolto questo limite, come dimostrano le esecuzioni avvenute in Arabia Saudita per chi aveva esercitato il diritto di protesta. Nel 2023 l’organizzazione ha registrato in tutto il mondo ben 1.153 esecuzioni, con una crescita del 71% rispetto al 2022. La tendenza sta proseguendo nel 2024, dovuta principalmente a Iran e Arabia Saudita.

Non solo, si stima che quasi il 40% delle condanne a morte eseguite sia relativo ai diritti legati alla droga. Molti paesi islamici prevedono la pena di morte anche per la blasfemia e l’apostasia, talvolta perfino per l’adulterio e l’omosessualità. In ogni caso, la maggior parte dei Paesi con la pena di morte ha registrato un aumento delle esecuzioni, che sono ricominciate anche in:
Afghanistan;
Kuwait;
Myanmar;
Palestina;
Singapore.

L’abolizione della pena di morte, fortemente sollecitata dalle Nazioni Unite, sta gradualmente prendendo piede, nonostante le tendenze. Già nel 2022, alcuni Stati hanno abolito la pena capitale per tutti i reati, si tratta di:
Kazakistan;
Papua Nuova Guinea;
Repubblica Centrafricana;
Sierra Leone.

La Guinea Equatoriale ha abolito la pena di morte per i reati comuni. Nel complesso, molti Paesi stanno muovendo i primi passi in questa direzione, fra cui le Isole Maldive, lo Sri Lanka (che hanno annunciato la sospensione delle esecuzioni), la Malesia, il Ghana e la Liberia, che stanno affrontando iniziative legislative apposite.

Il dialogo di Amnesty International sta funzionando soprattutto in Kenya, Zimbabwe e Gambia, dove comunque negli ultimi 10 anni non sono state eseguite condanne a morte e anzi diverse pene sono state commutate. Lo Zimbabwe ha addirittura abolito definitivamente la pena capitale, precisamente il 31 dicembre 2024, diventando il 30° Paese africano ad abolire ufficialmente questa pena (dopo averla precedentemente eliminata per i reati comuni).

Il problema della pena di morte resta piuttosto complesso, ma dal punto di vista funzionale i dati non mostrano che sia un deterrente efficace. In secondo luogo, laddove non c’è apertura verso pene differenti, è comunque importante rivedere i metodi di esecuzione, che non dovrebbero perlomeno causare sofferenza e agonia nel condannato. Anche sotto questo profilo, in diversi Paesi c’è ancora molto da fare (si pensi alla lapidazione in Arabia Saudita).

Cosa succede negli Stati Uniti?
Lo Zimbabwe abolisce del tutto la pena di morte, mentre gli Stati Uniti la ripristinano a livello federale. Non c’è una correlazione diretta tra le due decisioni, ma considerando la diversità intrinseca tra i due territori è impossibile non fare un confronto. Inutile sottolineare che lo Zimbabwe è un Paese infinitamente più piccolo e povero rispetto al gigante a stelle e strisce. Lo Stato africano sta attraversando tuttora importanti difficoltà a livello politico e sociale, condizioni che hanno portato a disordini notevoli e spianato le strade a meccanismi come la repressione di massa. Proprio gli Stati Uniti hanno sanzionato lo Zimbabwe per le violazioni dei diritti umani e la corruzione governativa, interrompendo il programma dopo decenni durante l’amministra-zione Biden.

Oggi lo Zimbabwe saluta la pena capitale, mentre negli Stati Uniti si procede per il verso opposto. Il tycoon ha infatti stabilito che la pena di morte federale sarà ripristinata: il procuratore generale potrà chiederla “indipendentemente da altre fattori” per l’uccisione di un agente di polizia, i reati capitali commessi da stranieri irregolari e altri crimini considerati molto gravi. Nulla cambia nella normativa dei singoli Stati, molti dei quali continuano a mettere in pratica le esecuzioni. Queste ultime avranno inevitabilmente una spinta considerata la politica del nuovo presidente, che nel corso del primo mandato ha dato il via proprio alla loro ripresa dopo 17 anni di sospensione.

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sabato 25 gennaio 2025

Guerra in Ucraina, le condizioni di pace che Putin accetterebbe

@ - Donald Trump ribadisce la sua volontà di "mettere fine alla guerra orribile" in Ucraina. "Mi piacerebbe incontrare Putin presto", ha affermato il presidente Usa intervenendo ieri in videoconferenza al World Economic Forum di Davos, assicurando che anche "l'Ucraina è pronta a un accordo". 

                 

Ma le pressioni del tycoon - anche e soprattutto in tema economico - non sembrano smuovere il Cremlino. "Nulla di nuovo", ha detto il portavoce Dmitrij Peskov. "Restiamo pronti al dialogo", ha però assicurato, purché sia "un dialogo su un piano di parità e nel rispetto reciproco". Putin è "pronto" a eventuali colloqui, ma a precise condizioni (TUTTE LE NEWS LIVE SUL CONFLITTO)

Le intenzioni di Trump e la posizione del Cremlino
La telefonata fra Trump e Vladimir Putin, evocata a più riprese da Usa e Russia, si fa ancora attendere. "Aspettiamo segnali, che ancora non sono stati ricevuti", ha detto Peskov. Che poi ha sorvolato sull'intenzione annunciata da Trump di fare pressione sulla Russia con lo strumento delle sanzioni e dei dazi per indurla a mettere fine al conflitto. "Qui non vediamo alcun elemento di particolare novità - ha glissato il portavoce -. Sapete che Trump nel suo primo mandato è stato il presidente Usa che ha fatto ricorso più frequentemente alle sanzioni. Questi metodi gli piacciono, almeno gli piacevano durante il primo mandato".

Per approfondire:

Mosca: "Registriamo tutte le sfumature"
Chi si è detto "molto, molto contento della posizione di Trump di imporre più sanzioni alla Russia" è stato il segretario generale della Nato, Mark Rutte. Ma gli ultimi avvertimenti, sembra dire il Cremlino, potrebbero far parte di una tattica in vista di possibili negoziati. "Stiamo seguendo da vicino tutta questa retorica, ogni dichiarazione, e registriamo tutte le sfumature", ha sottolineato Peskov.

La posizione di Kiev
Sul lato ucraino del fronte, sembra degna di nota la dichiarazione con la quale Zelensky ha parlato concretamente della possibilità di avviare trattative, sottolineando che tutto dipende dalle garanzie di sicurezza che gli Usa sono pronti a offrire a Kiev per sventare il pericolo di un nuovo, futuro attacco russo una volta che si sarà arrivati alla pace. Se Trump "può garantire una sicurezza forte e irreversibile per l'Ucraina, ci muoveremo su questo percorso diplomatico", ha assicurato il presidente.

Le possibili condizioni di Putin
Ma quali sono le mire di Putin? E quali le condizioni che potrebbe mettere sul tavolo per un accordo? Stando a fonti di Repubblica, Putin vorrebbe:
nuove presidenziali in Ucraina, per poter negoziare con un presidente legittimo e non con Zelensky che, ai suoi occhi, non lo è perché il suo mandato è scaduto il 21 maggio.
No all’ingresso di Kiev nella Nato.
Inoltre il presidente russo vorrebbe raggiungere un’intesa su una nuova architettura della sicurezza “indivisibile ed eguale” in Europa, il che passa anche dallo smantellamento delle forze ucraine e dall’assenza di truppe straniere sul suo territorio.
Infine, il riconoscimento di quelle che chiama “nuove realtà territoriali”: oltre alla penisola di Crimea, le quattro regioni annesse nel 2022, Donetsk, Lugansk, Zaporizhzhia e Kherson, compresa la parte che non controlla oltre l’attuale linea di contatto, la riva del Dnipro.
L’unico margine di trattativa sarebbe uno scambio tra il territorio che occupa a Kharkiv con la parte di Kursk sotto controllo ucraino, benché conti di riconquistarla prima di eventuali trattative.

No truppe Nato in Ucraina
Del resto, qualsiasi schieramento di truppe della Nato in Ucraina, anche come peacekeeper, è "assolutamente inaccettabile" per la Russia e rischierebbe di provocare una escalation del conflitto a un livello "fuori controllo”, come ha detto la portavoce del ministero degli Esteri, Maria Zakharova. La portavoce, citata dall'agenzia Tass, ha citato notizie di media occidentali secondo le quali la Gran Bretagna, la Francia e la Germania hanno discusso la possibilità di inviare truppe in Ucraina per operazioni di mantenimento della pace se verrà sancito un cessate il fuoco. "Ogni intervento di forze Nato in Ucraina rischia di fare aggravare il conflitto a livelli fuori controllo e questo scenario è assolutamente inaccettabile per la Russia", ha detto Zakharova

Per appofondire:

mercoledì 1 gennaio 2025

Rimini, egiziano accoltella 4 persone e aggredisce i carabinieri: militare spara e lo uccide

@ - Lo straniero, dopo aver ferito i passanti, si è scaraventato contro i carabinieri e ha provato ad accoltellarne uno: il militare ha lasciato partire un colpo e lo ha ucciso.

Articolo in aggiornamento
Ha impugnato il coltello, ha ferito 4 persone in strada e si è scagliato contro un carabiniere di una pattuglia che era intervenuta per fermarlo. La situazione stava sfuggendo mano: così un militare ha estratto la pistola, ha sparato e ha ucciso l'egiziano. I fatti sono avvenuti nella serata di ieri, verso le 22:30, a Villa Verucchio (nel Riminese). Lo straniero, senza un apparente motivo, ha aggredito un giovane di 18 anni che stava acquistando delle sigarette a un distributore automatico e lo ha colpito con l'arma da taglio; poi si è scaraventato contro altre tre persone (nello specifico si tratterebbe di una coppia anziana e di una ragazza).

Sul posto sono prontamente intervenuti i carabinieri della stazione di Villa Verucchio: uno dei militari avrebbe esploso un colpo di avvertimento in aria, ma l'egiziano ha perso la testa e si è avventato nei suoi confronti. Poi avrebbe continuato ad avvicinarsi in maniera minacciosa e brandendo il coltello; a quel punto il carabiniere avrebbe lasciato partire il colpo fatale per difendersi e per evitare i fendenti.

4 persone ferite, soccorse dai sanitari del 118 intervenuti sul posto, risultano in pericolo di vita: 3 sono state portate all'ospedale Bufalini di Cesena, mentre l'altra è stata trasportata all'ospedale Infermi di Rimini.

sabato 21 dicembre 2024

Notizie dai Giovani: Sigarette elettroniche, i ricoveri in ospedale

Notizie dai Giovani: Sigarette elettroniche, i ricoveri in ospedale: @  -  Sigarette elettroniche, allarme tra i giovanissimi: « Più di 30 ragazzi ricoverati in ospedale a causa dello svapo ». I sintomi da non...

Ucraina, ultimatum "alla cowboy" di Trump: a Putin e Zelensky conviene davvero far finire la guerra

@ - Provare a mettere di fronte a un tavolo, per una vera trattativa di pace, Russia e Ucraina ci hanno provato in molti. L'istituzione più importante per un negoziato dovrebbe essere l'ONU, ma anche in questo caso ci si ferma solo a proclami e poi, diciamocelo chiaramente, ormai non ha più un peso “politico” importante dato che la Carta e le varie raccomandazioni sono prontamente glissate in favore degli interessi di ciascun membro coinvolto.

Se Trump riuscirà in questo intento avremo la possibilità di riportare nell'alveo della “normalità” le economie

Ucraina, ultimatum "alla cowboy" di Trump: a Putin e Zelensky conviene davvero
 far finire la guerra

Quindi alla fine ci dovrebbe essere qualcuno che con una prova “muscolare” si permetta di fare da pacere con i due contendenti affinché si giunga a un accordo. A chi mi riferisco? A Donald Trump che fra un mese sarà il 47° Presidente degli Stati Uniti, e fin da ora ha messo le carte in tavola per arrivare almeno ad un dialogo fra le parti.

Naturalmente non l'ha detto con l'aplomb degli inglesi, ma in modo diretto, alla cowboy, con questa modalità, però ci tengo a precisare che l'ho letta da qualche parte: “Se Zelen'skyj non si siede al tavolo delle trattative verranno immediatamente tagliati finanziamenti e armamenti, se Putin non presenzierà alla trattativa gli USA raddoppieranno finanziamenti e armamenti in favore dell'Ucraina”.

Se così è stato detto direi che è una bella prova muscolare! Ci sono commenti? L'unica cosa che mi viene in mente è che ci sia questa possibilità di dialogo poi i dettagli verranno da soli. Domanda, si può essere in conflitto per sempre?

Se Trump riuscirà in questo intento avremo la possibilità di riportare nell'alveo della “normalità” le economie mettendo così da parte anche le apprensioni per un eventuale e paventato conflitto nucleare. Attendiamo con grande fiducia la risoluzione di questo conflitto che ha superato i mille giorni e che è costato e costa tutt'ora in termine di perdite umane (civili e militari) troppo. Chiudo con un pensiero del Mahatma Gandhi:Non esiste una via per la pace, esiste solo la pace”.

martedì 10 dicembre 2024

Così la sconfitta di Iran e Russia rischia di diventare crisi globale

 @Il conflitto in Siria è uno dei segmenti della “policrisi” di questi ultimi anni, un intreccio di crisi che si amplificano reciprocamente, con effetti che si estendono ben oltre la regione d’origine. La crisi siriana è un esempio eloquente di come i conflitti regionali possano trasformarsi in crisi globali, colpendo anche attori non direttamente coinvolti.

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Tra di essi, l’Italia non è al riparo dalle conseguenze di questo conflitto, soprattutto se consideriamo le possibili mosse future dei due grandi sconfitti della crisi siriana: Iran e Russia.

Innanzitutto l’Iran. La caduta di Assad è un rovescio catastrofico per Teheran, che perde un alleato strategico, vede frantumarsi l’Asse della Resistenza e interrompersi la Mezzaluna Shiita, zona di influenza e continuità territoriale attraverso Yemen, Iraq, Siria e Libano. La Siria è persa e con essa il corridoio logistico verso Hezbollah in Libano, fulcro e bastione avanzato della strategia iraniana contro Israele e strumento del sogno iraniano di egemonia regionale. Ricostituire questo asse e renderlo nuovamente efficace, non è scontato e comunque richiede tempo.

Il risultato, gravissimo per la Repubblica Islamica, è che Israele ora rafforza la sua posizione di potenza dominante in Medio Oriente. A Teheran cresce dunque la tentazione di accelerare il completamento del programma nucleare iraniano, per poter ripristinare una deterrenza strategica in chiave anti israeliana. Si tratta, evidentemente, di una ipotesi molto preoccupante.

Per Mosca, la caduta di Assad mette a serio rischio la base navale russa a Tartus in territorio siriano, snodo cruciale per la proiezione militare della Russia nel Mediterraneo orientale. Qualora perdesse Tartus, al fine di mantenere una efficace influenza mediterranea, Mosca dovrebbe rafforzare la propria presenza navale in Libia, ove già sostiene il generale Haftar e dispone di forze militari in Cirenaica. Del resto, già durante la guerra civile libica nel 2019-2020, i russi trasferirono, a sostegno di Haftar, mercenari, armi ed equipaggiamenti dalla Siria alla Libia, utilizzando la base aerea siriana di Hmeimim. Un rafforzamento russo in Cirenaica causerebbe tuttavia una reazione della Turchia, che mantiene una presenza pervasiva in Tripolitania e potrebbe decidere di aumentarla, a scapito degli interessi italiani in Libia.

Gli eventi in Siria trasmettono inoltre un messaggio eloquente ai regimi africani alleati della Russia, alimentando dubbi sulla capacità di Mosca di assicurare la sopravvivenza dei suoi partner. Ciò preoccupa le fragili autocrazie del Sahel che hanno finora fatto affidamento sulle milizie russe per consolidare il proprio potere. È plausibile che, per contrastare questa percezione di debolezza, la Russia possa adottare un atteggiamento più aggressivo nel continente africano, cercando di rafforzare la propria influenza in un’area critica per il passaggio dei flussi migratori diretti in Europa e, quindi, in Italia.

Per Mosca e Teheran mostrare i muscoli può essere una scelta necessaria. Le autocrazie non possono permettersi di trasmettere una immagine di debolezza, poiché la loro sopravvivenza si basa sull’immagine di potenza che sono capaci di proiettare, all’esterno come all’interno. Ciò che spesso conta, soprattutto per questi regimi, non è la realtà, ma la percezione della realtà. L’apparenza di forza non è un lusso, ma una questione di sopravvivenza.

Oltre a queste vi sono tuttavia altre possibili conseguenze di portata globale che rischiano di riguardarci da vicino.

Innanzitutto, la situazione in Siria potrebbe scatenare una nuova ondata migratoria verso i Paesi della regione e verso l’Europa e, dunque, anche verso l’Italia.

Inoltre, la presa di potere da parte di un gruppo legato, almeno alla sua origine, ad Al Qaeda, potrebbe destabilizzare ulteriormente il Medio Oriente e sollevare preoccupazioni sulla possibile espansione dell’estremismo e sull’aumento delle minacce terroristiche sia a livello regionale che internazionale.

Il pericolo di un Iran nucleare, una Russia più aggressiva nel Mediterraneo, in Libia e in Africa, la pressione migratoria legata alla crisi siriana o all’azione russa in Africa, una possibili recrudescenza del terrorismo sono questioni che riguardano direttamente il nostro Paese. Per l’Italia, affrontare questi scenari con la consapevolezza dei rischi è una priorità e un interesse cruciale. Il nostro Paese, in quanto attore primario nel Mediterraneo allargato e in Africa deve saper giocare un ruolo di primo piano nei processi internazionali che delineeranno il post-Assad e non deve restare escluso dai formati ristretti che, inevitabilmente, definiranno il futuro della Siria. Ogni soluzione, positiva o negativa, si ripercuoterà, direttamente o indirettamente, anche sull’Italia. Il ruolo della nostra diplomazia sarà fondamentale.

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Video correlato: Cade Assad, quale futuro per la Siria: perde Putin, vince Erdogan. Perché il Medio Oriente è il focolaio delle guerre (Riformista Tv)


mercoledì 4 dicembre 2024

Ucraina, Nato suona l'allarme: "Avanzata Russia accelera"

@ - Il fronte della guerra tra Russia e Ucraina "si muove verso ovest", sia pure "lentamente" e non "verso est". Tradotto, Vladimir Putin avanza nel conflitto in corso da oltre 1000 giorni.

Ucraina, Nato suona l'allarme: "Avanzata Russia accelera"

I messaggi che arrivano dal segretario generale della Nato, Mark Rutte, hanno un tono decisamente diverso, rispetto a quelli che arrivavano dal quartier generale di Evere, alla periferia di Bruxelles, fino a qualche mese fa.

Kiev si prepara ad affrontare "un inverno difficile" e avrà bisogno di tutto l'aiuto possibile da parte dell'Occidente per poter arrivare al "tavolo negoziale in posizione di forza". Pertanto, ha sottolineato Rutte, servono "meno discussioni su come potrebbe configurarsi un accordo di pace e più aiuti militari", che è quello di cui a Kiev hanno veramente bisogno.

Ancora più indicativi, se possibile, sono i messaggi che arrivano off the record. Le linee del fronte in Ucraina, ha spiegato un alto funzionario Nato, sono sottoposte ad una pressione "crescente" da parte delle forze russe. Il ritmo dell'avanzata delle truppe di Mosca aumenta: se prima "le forze russe avanzavano dieci metri al giorno", oggi ci sono giornate in cui "guadagnano terreno al ritmo di dieci chilometri al giorno". Il cambiamento nel tenore dei messaggi segnala, con ogni probabilità, che a Bruxelles hanno deciso che è opportuno mettere al corrente l'opinione pubblica della serietà della situazione.

Ad oggi in non pochi Paesi europei, specie in quelli più a ovest, che si sentono meno minacciati dalla Russia, l'opposizione all'invio di armi all'Ucraina in lotta contro l'invasore è molto diffusa.

Nella regione russa di Kursk, ha riferito la fonte Nato, le forze ucraine "controllano tuttora circa due terzi degli 8-900 km quadrati di territorio" che avevano conquistato nello scorso agosto, malgrado la "controffensiva russa" in corso da tempo nell'area. La Nato si attende che le forze di Mosca "continueranno a tentare di fiaccare le forze ucraine, usando la massa" per conquistare le "posizioni difensive" dei nemici e conseguire così "guadagni tattici" sul campo.

Le condizioni stagionali, ha osservato la fonte, "non hanno ancora prodotto alcuna riduzione delle operazioni offensive delle forze russe, che mantengono un significativo vantaggio quantitativo" rispetto a quelle ucraine in termini di "munizioni, uomini ed equipaggiamento".

I russi, secondo le stime dell'Alleanza, "reclutano probabilmente 30mila nuovi soldati al mese e, in questo modo, sono in grado di "assorbire perdite massicce", mentre tentano di "affossare" le forze ucraine usando la forza d'urto della massa. I russi hanno anche "intensificato i bombardamenti contro le infrastrutture critiche", in particolare le centrali elettriche.

"Senza dubbio", comunque, si è assistito ad un "aumento del ritmo dell'avanzata russa e gli attacchi che si sono visti contro le infrastrutture ucraine fanno chiaramente parte di una campagna orchestrata per aumentare la pressione" che il popolo ucraino avverte nella "vita di tutti i giorni", mentre "l'inverno avanza".

Per Rutte, dunque, il presidente ucraino Zelensky "ha ragione a chiedere aiuti militari non solo offensivi, ma anche difensivi", per proteggere le infrastrutture energetiche, che i russi prendono di mira per fiaccare la popolazione civile.

"Concordiamo sul fatto - ha proseguito Rutte - che dobbiamo rafforzare l'Ucraina perché oggi, mentre parliamo, il fronte non si sta muovendo da ovest verso est, ma da est verso ovest. Lentamente, con molte perdite sul lato russo". Per la Nato, oggi sono "700mila" le vittime russe, tra "morti e feriti gravi".

Mosca "sta pagando un prezzo molto elevato, ma è un fatto che il fronte non si muove verso est", bensì "verso ovest". Il segretario generale ha tenuto a concentrare l'attenzione sulle necessità immediate: gli alleati, ha detto, "concordano sul fatto che il futuro dell'Ucraina è nella Nato. Al summit di Washington abbiamo parlato di 'percorso irreversibile' verso l'Alleanza".

Ma, ha aggiunto Rutte, "penso che dobbiamo concentrarci molto su quello che è necessario ora. E quello che serve ora è che gli aiuti militari arrivino all'Ucraina, perché per loro sono cruciali: se decideranno di parlare con i russi, lo faranno da una posizione di forza".

La Nato, ha aggiunto, accoglie "con favore gli ulteriori aiuti militari" all'Ucraina "annunciati da parte di Usa, Germania, Svezia, Estonia, Lituania e Norvegia", ma "tutti dobbiamo fare di più: più forte sarà il nostro supporto in questo momento, prima potremo porre fine all'aggressione russa una volta per tutte in Ucraina". Il ministro degli Esteri Antonio Tajani ha detto che il decimo pacchetto di aiuti militari dell'Italia è "pronto" e che verrà inviato "entro fine anno".

Per Rutte, inoltre, "il coinvolgimento della Corea del Nord in questa guerra, in aiuto alla Russia, è una enorme escalation, che minaccia non solo l'Ucraina, ma anche Corea del Sud, il Giappone e gli Usa". Perché "la Corea del Nord non dispiega truppe senza ottenere soldi, su questo non c'è dubbio, ma anche tecnologia missilistica. Questo avvicina il teatro atlantico e quello dell'Indopacifico".

Secondo fonti Nato, i soldati nordcoreani presenti nella regione russa di Kursk sono "oltre dodicimila", anche se "non possiamo confermare" che siano stati già impegnati in battaglia. Zelensky ha dichiarato all'agenzia giapponese Kyodo News che alcuni soldati di Pyongyang sono già caduti in battaglia, senza dare ulteriori dettagli.

La grande incognita sono le intenzioni sulla guerra in Ucraina del neo presidente degli Stati Uniti d'America Donald Trump, ma il segretario generale ha riferito di aver concentrato il suo colloquio con il tycoon, a Mar-a-Lago in Florida il mese scorso, su pochi punti, tra cui le spese militari degli Alleati europei (il 2% del Pil "non basta", ha insistito Rutte) e sulla necessità che l'Ucraina concluda un "buon accordo" con la Russia, perché la conclusione del conflitto in corso verrà guardata con attenzione anche in altre parti del mondo.