domenica 24 luglio 2022

La politica sia affidata solamente ai «virtuosi»

 @ Gabriele Pedullà recensisce il volume di James Hankins La politica della virtù. Formare la persona e formare lo Stato nel Rinascimento italiano(Viella) definito dalla critica un «capolavoro magistrale» e «forse il più importante studio mai scritto sul pensiero politico del Rinascimento» alla sua uscita due anni fa in inglese. 

Signoria. Pedro Berruguete (o Giusto di Gand), 
«Ritratto di Federico da Montefeltro con il figlio Guidobaldo», 1475 circa

In effetti il volume di Hankins segna uno spartiacque e divide la ricerca sulla teoria politica della prima età moderna in un prima e un dopo. In cosa consiste questa rottura? Nel XX secolo gli specialisti hanno raccontato il pensiero politico del Rinascimento come scontro frontale tra sostenitori delle repubbliche e dei principati. Da un lato gli amanti della libertà, dall'altro i propagandisti prezzolati del despotismo tirannico: in qualche caso addirittura in un'anticipazione della lotta tra le democrazie occidentali e Adolf Hitler. Negli ultimi venti anni, però, diversi studiosi hanno cominciato a contestare questa lettura. Troppi elementi non tornano. Anzitutto, è introvabile la contrapposizione tra repubbliche e principati cara agli storici novecenteschi: per gli umanisti la cesura corre infatti piuttosto tra le forme di governo rette, come la repubblica e il principato, e il governo illegittimo dei tiranni, i quali, invece di perseguire il bene comune, si preoccupano solo del tornaconto personale. Questo vuol dire che massima cura va posta nell'educazione di coloro che, in virtù dei loro illustri natali, sono destinati a rivestire le cariche pubbliche. Ed è precisamente a tale moralizzazione della politica che gli umanisti – in parte loro stessi tutori e docenti – indirizzarono le loro energie, nel tentativo di aiutare i futuri leader, indifferentemente repubblicani e principeschi, a liberarsi delle pulsioni egoistiche attraverso l'esempio degli antichi. Anzitutto nell'interesse dei loro sudditi.

Che il libro sia destinato a venire discusso a lungo. È soprattutto una delle tesi di Hankins a suscitare perplessità. Secondo lo studioso di Harvard, l'umanesimo politico sarebbe una forma di meritocrazia finalizzata a promuovere il governo dei migliori. Nonostante gli umanisti aprissero eccezionalmente le porte delle loro scuole a qualche ragazzo del popolo di particolare talento, la ricerca storica ci dice però che a beneficiare del loro curriculum di studi improntato alla assimilazione dei classici furono quasi unicamente i rampolli della classe dirigente del tempo. Ciò non deve sorprendere: ai cultori del mondo greco e romano, infatti, non interessava tanto selezionare i più meritevoli quanto rendere più degni dal punto di vista morale coloro che, per nascita, erano chiamati a prendere in mano un giorno le redini dello Stato. Nella pratica, attribuendo alla nuova pedagogia il potere di rendere i governanti virtuosi, gli umanisti finirono così per offrire soprattutto una potente legittimazione delle vecchie gerarchie in un momento di crisi dei grandi poteri universali del Papato e dell'Impero. Le implicazioni elitiste del libro di Hankins sono evidenti. Non sorprende, perciò, che una delle obiezioni più solide alla virtue politics rimanga quella che agli umanisti rivolse un irriducibile sostenitore del governo popolare come Machiavelli: nessuna autoproclamata aristocrazia della virtù è davvero tale, dal momento che, con pochissime eccezioni, alla prova dei fatti «tutti equalmente errano» (cioè fanno il proprio interesse) «quando tutti sanza rispetto» (ossia impunemente) «possono errare».





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