sabato 16 marzo 2024

Blackpool, la capitale britannica delle «morti per disperazione»

@ - Si dice che Blackpool sia stata la prima località balneare del mondo moderno. È qui che, a fine Settecento, sarebbe nata la moda della vacanza al mare. Di questa città del Lancashire, oggi, si parla in ben altri termini: è la capitale britannica delle cosiddette «morti per disperazione».

Blackpool, la capitale britannica delle «morti per disperazione»© Fornito da Avvenire

Il concetto dei decessi causati dall’angoscia non è letterario ma squisitamente scientifico. È un tema della ricerca sociodemografica affrontato per la prima volta in modo sistematico nel 2015 da due economisti americani, Anne Case e Angus Deaton, autori di “Morti di disperazione e il futuro del capitalismo”. In questa nicchia della discussione accademica la disperazione non viene considerata come un sentimento ma come una malattia diagnosticata alla presenza di tre fattori: suicidio, alcolismo e tossicodipendenza. Secondo uno studio dell’Università di Manchester, realizzata in collaborazione con l’Istituto nazionale per la ricerca sulla salute, i decessi riconducibili a questo male nel triennio 2019-2021 sono stati 46.200 in totale (42 al giorno). Ma è a Blackpool che c’è stata la strage. Se a Barnet, quartiere a Londra nord, ne sono stati contati 14,5 ogni 100mila, nella città costiera il tasso è arrivato a quota 83,8. Sei volte più alto. A questi numeri si avvicinano anche altre comunità dell’Inghilterra settentrionale come Hartlepool, Blackburn e Middlesbrough.

La parola povertà non è menzionata neppure una volta nella ricerca che parla invece di persone «lasciate indietro» attribuendo l’origine della malattia alla disuguaglianza nell’accesso ai servizi sanitari e, più in generale, alle opportunità di vita e lavoro offerte in altre realtà. «Il Regno Unito è un Paese ricco, ma anche un piuttosto ingiusto. Le nostre risorse non sono equamente distribuite», ha commentato Christine Camacho, una degli autori della ricerca. Anche gli americani Case e Deaton avevano escluso la miseria dalle cause della disperazione statunitense che, scrivevano nel 2015, era piuttosto il risultato «dell’erosione delle strutture sociali tradizionali come sindacati, Chiesa e matrimonio».

Il Nord dell’Inghilterra è, notoriamente, la zona più depressa del Regno Unito che, a ricordarlo è un passaggio dei ricercatori di Manchester, paga ancora lo scotto della deindustrializzazione. Nel 1993, questo è solo un esempio, quasi il 30 per cento delle famiglie di Blackpool non disponeva ancora del riscaldamento centralizzato. La tristezza della città che, per anni, ha fatto da cornice alle vacanze dei borghesi inglesi è stata persino cantata e cinematografata. Raccontata dai londinesi, oggi, è una piccola Beirut i cui si vedono bambini camminare a piedi nudi per le strade maleodoranti aggirandosi tra i tossicodipendenti. I governi che si sono succeduti hanno invano cercato di farla tornare a sorridere.

È fallito pure il progetto che, vent’anni fa, prevedeva la costruzione di un super casinò modello Las Vegas all’ombra della torre di ferro del 1894. Il ministero della Salute ha commentato l’esito della ricerca ricordando gli sforzi fatti per prevenire i suicidi e prevenire gli abusi di droga e alcol. L’obiettivo, dicono, è colmare il divario tra Nord e Sud. Tra ricchi e, chiamiamoli con il proprio nome, poveri.

Blackpool, la capitale britannica delle «morti per disperazione»© Fornito da Avvenire

venerdì 15 marzo 2024

Il Codice di Camaldoli: una bussola per il futuro che respinge le nostalgie

@Lo sviluppo delle idee fu concepito e realizzato lasciando cadere le foglie secche dell’intransigentismo identitario, in una chiave laica, condivisibile (e poi effettivamente condivisa) da tutto il Paese.


Il Codice di Camaldoli, elaborato negli stessi giorni della caduta di Mussolini va apprezzato per il contributo dato soprattutto ai principali articoli della successiva Costituzione economica, ed in particolare per aver segnato un punto di rottura rispetto a posizioni statico-corporative, di protezionismo autarchico, codificando diritti e doveri di un moderno Stato sociale: la dignità del lavoro, i limiti alla proprietà privata, il giusto salario, i sussidi di disoccupazione, i diritti pensionistici, la tutela della salute del lavoratore, l’importanza dei sindacati, il diritto alla casa, l’estensione dell’istruzione alle classi più deboli e più in generale il concetto ampio di bene comune, prima identificato soprattutto col ruolo della Chiesa per la salvezza delle anime.

Il passaggio più rilevante lo ha sottolineato Paolo Emilio Taviani: il Codice segna una rottura netta col corporativismo perché gli Autori si erano resi conto che esso nel periodo contemporaneo era del tutto inseparabile da regimi autoritari ormai rigettati.
Non possono però essere taciuti due limiti, ossia un’omissione e un ritardo culturale.

L’omissione consiste nella totale mancanza di riferimenti ai partiti e al loro pluralismo nonché agli assetti istituzionali. Ovviamente essa non era affatto casuale. C’era ancora, come sappiamo bene dalle puntuali ricostruzioni di Scoppola, un dilemma tra la posizione sostenuta dagli ambienti più conservatori a partire dal cardinale Tardini, che intendevano favorire un pluralismo politico convinti che questo avrebbe pesato a favore della destra, e i sostenitori di un’unità politica necessitata dal probabile scontro internazionale Usa-Urss con i suoi riflessi interni, che de Gasperi e Montini intravvedevano da allora.

Il ritardo culturale consiste nell’uso tradizionalistico del diritto naturale, nella visione della Chiesa cattolica come ‘societas perfecta’ in grado di comprendere e interpretare in modo autosufficiente non solo la Rivelazione divina, ma anche una legge naturale intesa in modo statico e astorico: ritroviamo tra l’altro la pretesa di costituzionalizzare l’indissolubilità e il carattere gerarchico del rapporto marito-moglie nel matrimonio, la distinzione tra figli legittimi e illegittimi col rifiuto di equipararne i diritti, il rifiuto della coeducazione nel sistema scolastico per la sua ‘uguaglianza livellatrice’, le scuole riservate alle sole donne per la loro funzione familiare, la proibizione della propaganda contraccettiva, le sanzioni penali per qualsiasi forma di aborto anche terapeutico, il rifiuto della libertà religiosa con la sola ammissione della tolleranza religiosa sia pure aggettivata come “schietta”.

Analoga valutazione, per comprendere bene il contesto, va fatta per i lavori della Settimana sociale del 1945
Le aperture sociali del codice di Camaldoli sono riconfermate da Amintore Fanfani, con toni positivi sulle possibilità di cambiamento a cui anche i cristiani devono concorrere utilizzando nuovi “mezzi adeguati” che corrispondendo a un “diffuso stato d’animo” per conseguire “la fine della miseria della fine, dell’incultura del privilegio”.

Tuttavia, fuori da queste aperture sociali, il panorama è anche qui di chiusura sul proprio paradigma di diritto naturale, modellato per la famiglia su schemi rigorosamente patriarcali un’impostazione che non comporta una piena accettazione delle libertà specie in materia religiosa e di coscienza, ma che al massimo può ammettere “una prudente tolleranza”.

L’unico elemento distonico è indubbiamente quello dell’intervento del Presidente del Consiglio De Gasperi:Avvicinarsi a questa assise dell’Azione Cattolica è come eseguire una grande ascensione montana. Ci si trova in un’atmosfera ossigenata… Non sempre quando si scende dall’alta montagna è possibile mantenere la stessa atmosfera ossigenata e direi non sempre la tessa prospettiva può essere attuata quando si tratti di dover fissare una pratica di convivenza civile che tiene conto delle opinioni altrui e che deve cercare una terza via di mezzo fra quelle che possono essere le aspirazioni di principio e le possibilità di azione”.

Il libro di Giovanni Sale Il Vaticano e la Costituzione” ci ha spiegato bene le differenze interne. Alla fine la Santa Sede è ingabbiata nel sistema di mediazioni di De Gasperi, che, pur senza attaccarla frontalmente, elude l’impostazione confessionalistica della Santa Sede, che anticipa di fatto lo slittamento della dottrina della Chiesa del Concilio Vaticano II dalla mera tolleranza alla libertà religiosa relativizzando il ruolo dello Stato e rispettando l’immunità dalla coercizione, che afferma l’autonoma capacità decisionale dei laici cattolici in politica e che alla fine, tra le varie impostazioni possibili della Costituzione economica, declina lo Stato intervista non in termini statalistici ma in chiave di sussidiarietà, grazie alle scelte fatte di apertura europea ed atlantica.

Chiusa la Costituzione in termini formali con l’entrata in vigore il 1° gennaio 1948, restava infatti aperta la questione della collocazione internazionale del Paese con le elezioni del 18 aprile. Da essa dipendeva anche la concreta attuazione della Costituzione economica.

Nella ricostruzione di Taviani lo Stato interventista non era statalista perché esso si collegava alle economie e alle società aperte dell’area occidentale, mentre nell’impostazione dossettiana il Paese doveva abbracciare un’opzione neutralista collegata a un obiettivo ben più elevato di rifacimento dall’alto della società civile, come dichiarato poi nel discorso ai Giuristi Cattolici del 1951, difficilmente conciliabile con una democrazia liberale perché, come rilevato da Scoppola finiva per riproporre un sostanziale monopolio del bene comune da parte dello stato, “non frutto della dialettica delle realtà presenti nella società”. Queste differenze sono importanti perché in anni recenti gli articoli della Costituzione economica sono stati superficialmente accusati di statalismo, dimenticando due aspetti chiave.

Il primo è che gli autori erano anche contemporaneamente sostenitori del progetto europeo, che portava con sé la lotta a chiusure corporative: ruolo dello Stato e limiti alla sovranità verso l’alto si tenevano insieme; Il secondo è la valorizzazione della sussidiarietà: come ricordava Vittorio Bachelet in sintonia con Taviani l’articolo 41 della Costituzione ha preferito la parola ‘programmi’ a quella di ‘piani’ per indicare una programmazione per incentivi, per premi e punizioni, più che attraverso una gestione diretta statale generalizzata.

Le due concezioni diversissime di Stato forte, da destra quella di Ottaviani, neutralista e confessionalista per vicinanza al franchismo, a forme clerical-autoritarie, e da sinistra quella di Dossetti per lasciare più margini all’interventismo statale, convergevano poi sull’opzione neutralista, ma questa dopo i risultati del 18 aprile e l’adesione alla Nato dell’anno seguente veniva battuta da de Gasperi, legando lo Stato sociale nazionale allo sviluppo comune delle democrazie consolidate.

Lo sviluppo delle idee di Camaldoli fu quindi concepito e realizzato lasciando cadere le foglie secche dell’intransigentismo identitario, in una chiave laica, condivisibile (e poi effettivamente condivisa) da tutto il Paese. Per questo il Codice non si presta a operazioni nostalgiche, di chiusure minoritarie tra soli cattolici, ma è un esempio, come diremmo oggi, di vocazione maggioritaria.

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lunedì 11 marzo 2024

Kiev al Papa: "Mai bandiera bianca"

@ - La bandiera bianca invocata dal Papa, e in parte ribadita nell'Angelus della domenica, si è trasformata in un vessillo della discordia che ha generato polemiche quasi bipartisan sull'asse Mosca-Kiev.

Kiev al Papa: "Mai bandiera bianca"© Fornito da Il Giornale

A sferrare il primo colpo contro Bergoglio è stato l'ambasciatore ucraino presso la Santa Sede, Andrii Yurash, che in un post sul social X ha scritto: «Quando si parla di tre guerre mondiali, che abbiamo ora, è necessario imparare le lezioni dalla Seconda guerra: qualcuno ha parlato allora seriamente di pace parlando con Hitler di bandiera bianca per soddisfarlo?». E ancora, in diretta su RaiNews24: «Non si può negoziare con chi è riconosciuto criminale dal diritto internazionale. Putin sta scatenando la terza guerra mondiale, e forse ha ragione Macron a chiedere passi concreti verso una presenza della Nato sul territorio ucraino, come garante di una vittoria su quel male che è fonte dei problemi del mondo». Yurash in settimana incontrerà Bergoglio per un chiarimento invocato da entrambe le diplomazie.

Le reazioni si susseguono. Compresa quella della comunità di Kiev in Italia. Per il presidente Oles Horodetskyy le parole del pontefice sono «sconvolgenti, imbarazzanti e profondamente offensive nei confronti di un popolo che da oltre due anni cerca di sopravvivere alla terribile e criminale aggressione russa». E aggiunge: «Proprio in questo momento difficile, quando gli aiuti americani sono bloccati e l'Ucraina rischia di rimanere isolata, sentire dal Papa questi infelici appelli è fortemente deludente». Secondo Sviatoslav Shevchuk, Capo della Chiesa greco-cattolica di Kiev, «l'Ucraina non ha la possibilità di arrendersi», e Zelensky ritiene che solo con l'uso delle armi si potrà chiudere la partita: «La nostra voglia di sopravvivere e di vivere può far perdere la guerra a Mosca».

Il ministro degli Esteri di Kiev, Kuleba, scaccia via dalla mente qualsiasi idea di bandiere bianche, ribadendo che l'unico vessillo rimarrà quello giallo e blu. «Questa è la bandiera con la quale viviamo, moriamo e vinciamo. Non ne isseremo mai altre». Kuleba ringrazia Bergoglio «per le sue costanti preghiere per la pace», lo invita in visita pastorale a Kiev, ma non si sottrae dal lanciare un dardo: «Il più forte è colui che, nella battaglia tra il bene e il male, si schiera dalla parte del bene anziché tentare di metterli sullo stesso piano chiamandoli negoziati».

L'appello del Papa apre invece una piccola breccia nella muraglia russa. La portavoce del ministero degli Esteri Maria Zakharova, sentita dall'Ansa, ritiene che nell'appello per i negoziati Bergoglio sta parlando con l'Occidente e non con Kiev. «Per come la vedo io, il Papa chiede all'Occidente di mettere da parte le proprie ambizioni e ammettere che sono stati commessi degli errori. Noi non abbiamo mai bloccato i negoziati». In serata, dopo aver sentito il ministro degli Esteri polacco Sikorski affermare che alcuni alleati Nato hanno già inviato le loro truppe a Kiev, la Zakharova ha chiesto esplicitamente a Stoltenberg di «uscire allo scoperto e smettere di negare l'evidenza».

Nel fuoco incrociato delle dichiarazioni, il presidente lettone Rinkevics invita il Vaticano a incoraggiare Mosca a ritirare le truppe. «La pace arriverebbe immediatamente senza bisogno di negoziati. Non dobbiamo capitolare davanti al male, ma combatterlo e sconfiggerlo», mentre il ministro degli Esteri di Ankara, Hakan Fidan, difende le frasi del Papa e ribadisce l'offerta di Erdogan a ospitare un vertice di pace in cui sia presente anche la Russia.

domenica 10 marzo 2024

Il Papa: «L’Ucraina alzi bandiera bianca e negozi, a Gaza guerra di due irresponsabili»

@ - Bergoglio intervistato dalla Radio Svizzera rilancia l’idea dei negoziati per la pace

Papa Francesco, 87 anni
Spunta (forse per la prima volta) l’immagine di una “bandiera bianca” nella guerra in Ucraina, e la evoca il Papa in un’intervista in cui parla della necessità di arrivare ad un negoziato, anche se il Vaticano precisa che Bergoglio non chiede una resa di Kiev. Ma Francesco parla anche del conflitto a Gaza dopo la strage del 7 ottobre in Israele. A questo proposito gli viene chiesto: come trovare una bussola per orientarsi su quanto sta accadendo fra Israele e Palestina? «Dobbiamo andare avanti – dice Bergoglio - tutti i giorni alle sette del pomeriggio chiamo la parrocchia di Gaza. Seicento persone vivono lì e raccontano cosa vedono: è una guerra. E la guerra la fanno due, non uno. Gli irresponsabili sono questi due che fanno la guerra. Poi non c’è solo la guerra militare, c’è la “guerra-guerrigliera”, diciamo così, di Hamas per esempio, un movimento che non è un esercito. È una brutta cosa».

In Ucraina è più forte chi negozia pensando al popolo
Parole inedite. Ma si deve comunque provare sempre a mediare, chiede l’intervistatore della Radio televisione svizzera. «Guardiamo la storia, le guerre che noi abbiamo vissuto, tutte finiscono con l’accordo». In Ucraina – viene chiesto - c’è chi chiede il coraggio della resa, della bandiera bianca. Ma altri dicono che così si legittimerebbe il più forte. Cosa pensa? «È un’interpretazione. Ma credo che è più forte chi vede la situazione, chi pensa al popolo, chi ha il coraggio della bandiera bianca, di negoziare. Oggi si può negoziare con l’aiuto delle potenze internazionali. La parola negoziare è coraggiosa. Quando vedi che sei sconfitto, che le cose non vanno, occorre avere il coraggio di negoziare. Hai vergogna, ma con quante morti finirà? Negoziare in tempo, cercare qualche Paese che faccia da mediatore. Nella guerra in Ucraina, ce ne sono tanti. La Turchia, si è offerta. E altri. Non abbiate vergogna di negoziare prima che la cosa sia peggiore».

La precisazione della Santa Sede
la bandiera bianca evoca una resa dell’Ucraina, visto che il popolo a soffrire sul terreno della guerra è quello ucraino, ma come detto la Santa Sede precisa: «Il Papa usa il termine bandiera bianca, e risponde riprendendo l’immagine proposta dall’intervistatore, per indicare con essa la cessazione delle ostilità, la tregua raggiunta con il coraggio del negoziato. Altrove nell’intervista, parlando di un’altra situazione di conflitto, ma riferendosi a ogni situazione di guerra, il Papa ha affermato chiaramente che “Il negoziato non è mai una resa”, afferma il direttore della sala stampa vaticana, Matteo Bruni. Ma una mediazione del Papa a questo potrebbe aiutare? «Io sono qui, punto. Ho inviato una lettera agli ebrei di Israele, per riflettere su questa situazione. Il negoziato non è mai una resa. È il coraggio per non portare il Paese al suicidio. Gli ucraini, con la storia che hanno, poveretti, gli ucraini al tempo di Stalin quanto hanno sofferto…».

I punti chiave

giovedì 7 marzo 2024

Ucraina, inviare truppe sarebbe sbagliato. Il risultato del sondaggio di Money.it

@ - I risultati del sondaggio di Money.it: per l’86% dei rispondenti sarebbe sbagliato inviare soldati italiani per aiutare l’Ucraina nella guerra contro la Russia.
Invio truppe in Ucraina I risultati del sondaggio di Money.it

Ucraina, inviare truppe sarebbe sbagliato. Questo è il responso del sondaggio lanciato da Money.it dopo che, prima il presidente francese Emmanuel Macron e poi il capo del Pentagono Lloyd Austin, hanno ventilato l’ipotesi di una guerra diretta della Nato contro la Russia per impedire a Mosca di arrivare fino a Kiev e poi, magari, non fermarsi attaccando i Paesi baltici.

Come si può vedere dai risultati del sondaggio, che ricordiamo non ha un valore scientifico ma soltanto indicativo non essendo stato realizzato a campione, per l’86% dei rispondenti sarebbe sbagliato inviare soldati italiani per aiutare l’Ucraina nella guerra contro la Russia.

Un risultato plebiscitario che farebbe intendere la netta contrarietà dei lettori a una sorta di entrata in guerra dell’Italia contro la Russia, anche se un 14% dei rispondenti sarebbe favorevole a uno scenario del genere.

C’è da dire che Giorgia Meloni ha specificato subito che l’Italia non intende inviare proprie truppe in Ucraina, ma se un Paese membro della Nato dovesse entrare in guerra contro la Russia a quel punto il nostro esercito difficilmente potrebbe tirarsi indietro dall’intervenire.

No all’invio di truppe in Ucraina: il risultato del sondaggio
Il sondaggio di Money.it parla chiaro: i lettori sono per larga maggioranza contrari all’invio di soldati in Ucraina, visto che questo significherebbe scendere in guerra contro la Russia, la più grande potenza nucleare al mondo.

Ma perché si sta discutendo molto di questa possibilità? Nei giorni scorsi Emmanuel Macron ha dichiarato che “non c’è consenso in questa fase sull’invio di truppe sul terreno; non bisogna escludere nulla, faremo tutto il possibile affinché la Russia non vinca”.

Successivamente il presidente francese ha aggiunto che “ci stiamo certamente avvicinando a un momento nella nostra Europa in cui non dobbiamo essere codardi”, mentre poco prima il numero uno del Pentagono Lloyd Austin ha fatto sapere che “se l’Ucraina cade credo davvero che la Nato entrerà in guerra con la Russia”.

Come detto l’Italia - al pari dei vertici della Nato e di molti altri membri dell’Alleanza Atlantica - subito ha smentito questa ipotesi, ma al momento non è possibile intuire come in futuro potrà evolvere la guerra in Ucraina.

Viste le difficoltà militari di Kiev, senza un intervento diretto della Nato la Russia sembrerebbe essere destinata a vincere la guerra: vista la totale assenza di una linea diplomatica, presto le parole di Macron potrebbero tornare a essere di grande attualità.

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martedì 5 marzo 2024

La cultura cristiana cresce e si nutre nelle differenze

@Si svolge domani, 6 marzo, al Pontificio istituto teologico Giovanni Paolo II il seminario “Decostruzione delle culture, paradigma interculturale e sfide per la formazione”.

La cultura cristiana cresce e si nutre nelle differenze© Fornito da Avvenire

L’incontro tratterà, sul piano interdisciplinare (antropologia, psicologia, teologia, pedagogia), l’approccio interculturale ai fenomeni sociali e le relative sfide poste alla ricerca e all’insegnamento in situazioni di pluralismo. Con Milena Santerini, docente di pedagogia alla Cattolica e vice preside dell’Istituto (della quale anticipiamo qui una sintesi della relazione sul tema Il paradigma interculturale fra universalismo e relativismo”), intervengono il preside dell’Istituto Philippe Bordeyne, il politologo Olivier Roy, il teologo Aldo Skoda e la pedagoga Enrica Ottone.
Assistiamo sempre più alla crisi dell’idea di cultura, e alla deculturazione che investe anche le religioni. Nel mondo dove tutto diventa omogeneo, come salvare l’ancoraggio di una condivisione culturale dei gruppi e delle comunità? Il cristianesimo, in particolare, incarnato da sempre in una cultura, subisce, non da oggi, l’urto della globalizzazione. Come leggiamo nella Evangelii Nuntiandi : la rottura tra Vangelo e cultura è senza dubbio il dramma della nostra epoca, come lo fu anche di altre (II). Dobbiamo quindi adeguarci a quello che Olivier Roy definisce un globish religioso, a norme standardizzate, in mancanza di un nuovo legame sociale? Certamente è fondamentale salvare le espressioni culturali di ogni gruppo, i modi specifici con cui una comunità, un popolo, ma anche una generazione (si pensi allacultura giovanile”) vede il mondo. Ma, allo stesso tempo, proprio perché la ricchezza della pluralità è inestimabile, si pone per i credenti il problema di investire di più sulla condivisione dei modi di pensare l’altro, quella comunione che unisce in profondità gli esseri umani e che deriva dal riferimento alla comune fede nella Parola di Dio. Diversità di culture e comunione nella fede evangelica, varietà di manifestazioni e unità nello Spirito: come può essere realizzato l’ideale della doppia appartenenza della Lettera a Diogneto in un’epoca di uniformità globale?
In risposta ci si potrebbe limitare a “salvare” le tradizioni, i valori, i modi di vivere che caratterizzavano le comunità cristiane del passato, quando era saldo il rapporto tra le famiglie, la società e la Chiesa, da un lato, e la cultura che esprimevano, dall’altro. Ma dovremmo fare attenzione a non cadere nella retorica del buon tempo antico, rimpiangendo ciò che si è trasformato radicalmente a causa di mutamenti inesorabili come l’industrializzazione, l’urbanizzazione, i cambiamenti demografici, la democrazia, il web onnipresente. Sono sempre più rari i villaggi con la loro economia comunitaria, è in crisi la parrocchia, è cambiato il rapporto tra le generazioni e tra uomo e donna, le nuove tecnologie uniscono il mondo nelle loro reti. Anziché rimpiangere il passato, e limitarci a recriminare sull’individualismo moderno, possiamo chiederci come valorizzare l’autenticità di vita permessa dalla nuova libertà dei singoli rispetto alle norme del gruppo o del clan?

Alla luce di tale decostruzione delle culture ci chiediamo se non dovremmo ripensare l’approccio interculturale proposto dalle scienze umane e dalla teologia. Ma prima va realizzata un’operazione coraggiosa, e cioè criticare gli stereotipi che accompagnano l’idea di un dialogo interculturale basato solo sul rispetto delle differenze. Chiaramente le differenze di comportamenti, mentalità, usi e riti, linguaggi, credenze esistono, e vanno protette proprio per evitare un appiattimento standardizzante. Tuttavia, dobbiamo pensarle in un altro modo, nei loro dinamismi interni, senza utilizzarle per distinguere e separare mondi culturali. Ciò non significa rinunciare al valore della diversità, alla ricchezza, al rispetto della singolarità che ha caratterizzato il passaggio da una visione basata sull’etnocentrismo, la chiusura e il razzismo alla cultura dell’incontro di papa Francesco. La Chiesa, in questo senso, ha fatto un lungo cammino, da Bartolomé de Las Casas al Concilio Vaticano II, per apprezzare, come afferma la Gaudium et Spes (53) le differenze e la pluralità delle culture; ma serve altrettanto cammino per metterle maggiormente in dialogo. Si tratta del passaggio, proposto dal cardinale Ratzinger nel 1993, dalla “inculturazione” alla “inter-culturalità.

Proprio perché la pluralità esiste, ed è minacciata dall’uniformità dei consumi e dei linguaggi, dobbiamo trovare altri modi per preservarla che non sia la conservazione quando congela e cristallizza le culture. Basti pensare al travaglio della dialettica attuale tra le culture africane e quella occidentale/europea nella Chiesa del Sinodo, o alle tensioni dentro le congregazioni religiose tra le persone di generazioni e provenienze nazionali diverse, o al lavoro di suor Enrica Ottone sull’interculturalità nelle Facoltà Pontificie. Nella storia della Chiesa è stata fondamentale la critica alla mentalità colonialista o il ripudio della tendenza a mettere in gerarchia le culture, ponendo spesso quella occidentale al primo posto. Come scriveva Yves Congar nel 1986 in Diversità e comunione «Evangelizzare non è soltanto “trapiantare” un modello di Chiesa, quanto far nascere la Chiesa in una terra da un popolo».

In realtà, esiste anche il rischio, speculare, che la valorizzazione della differenza porti a essenzializzarla e reificarla, con l’esito di contrapporre le identità culturali, e di entrare nella stessa logica del cosiddetto “scontro di civiltà” (Occidente “contro” islam o contro Asia). Quella che definiamo “cultura”, come sistema simbolico di significati, non è mai pura, non è limitata dentro precisi confini geografici, cambia continuamente, è frutto di continui scambi. Le culture non sono totalità uniformi, hanno sempre dialogato tra loro e si sono sempre intrecciate fin dalle origini della storia. Non hanno confini netti perché l’altro è in noi e noi nell’altro. Per esaltare le differenze forse abbiamo trascurato le somiglianze?

Come afferma l’antropologo Jean-Loup Amselle, ogni mondo culturale è a sua volta frutto di intrecci, innesti e interdipendenza. Non si tratta solo di ammettere che ci sono tante tradizioni - da quella asiatica a quella africana, da quella ebraica a quella araba - ma che questi universi a loro volta sono multiculturali (vedi i concetti di ibridismo, creolizzazione, meticciato). Isolare la differenza porta a sottovalutare e sottostimare le relazioni che intercorrono (nel passato e nel presente) tra loro. Lo stesso possiamo dire dell’Europa, che con la massiccia presenza di immigrati è - non da oggi - multiculturale. L’Occidente è “altro” a se stesso.

Paradossalmente, oggi troviamo tale forma di culturalismo e di opposizione binaria anche nella cosiddetta cancel culture. I movimenti, soprattutto americani, della Critical race theory, sulla base delle legittime rivendicazioni per combattere il razzismo (oltre a sessismo, omofobia etc), portano con sé anche una preoccupante tendenza all’intolleranza e alla censura, ma soprattutto avallano l’idea di razze distinte, congelando i vari gruppi all’interno della loro prigione identitaria. Per combattere il razzismo si ricreano le razze. In passato, quindi, la concezione prevalente dell’identità culturale ha generato un universalismo imperativo e egemonico (spesso dell’Occidente). Ma nella globalizzazione l’universalismo totalizzante si è frantumato e resta un differenzialismo e una deculturazione che frammenta le relazioni umane. La risposta non può essere una accettazione dell’altro come “diverso” ispirato a un relativismo non solo culturale ma anche morale, che rischia di eludere la ricerca del comune. Se la visione universalista deve inevitabilmente rinunciare a imporre le sue regole, tuttavia la risposta non può essere un relativismo che congela le differenze dietro un’ambigua idea di rispetto, anziché cercare insieme quello che François Jullien definirebbe “il comune”. Giudicando le culture relativamente al contesto in cui nascono e si sviluppano, il relativismo rispetta le differenze ma nel contempo le separa nel loro cosmo autonomo, considerandole come isolate e impermeabili e rendendo difficile, se non impossibile, il dialogo.

Un esempio evidente della strumentalità dell’idea di identità culturale riguarda le donne. Molte problematiche interculturali, non a caso, riguardano temi legati alla sessualità e al matrimonio: unioni tradizionali, ruolo femminile nella famiglia… Un falso rispetto relativista delle culture “altre” nasconde spesso le dinamiche di potere sulle donne, non solo l’influenza della Chiesa ma anche il dominio delle tradizioni locali (poligamia, infibulazione, matrimoni forzati). È a proposito del ruolo femminile e sulle tematiche della sessualità che, non a caso, emerge di più l’esigenza di conservare le identità culturali, le tradizioni o “l’ethos culturale” di un continente.

L’approccio interculturale, pur non incontrando teoricamente opposizioni, non sempre trova effettiva attuazione nel contesto ecclesiale per rafforzare il legame tra le comunità con i loro particolari linguaggi e modi di pensare. Le persone, infatti, (e non le culture) quando si confrontano creano un tra. Come osserva papa Francesco, nell’incontro è l’abbraccio il protagonista. Nel “tra” troviamo una tensione che addita non la prospettiva dell’identità rocciosa, ma del comune da trovare. Per quanto riguarda la Chiesa, tutte le culture possono essere giudicate alla luce del Vangelo, riletto insieme in una prospettiva sinodale: è la comunità cristiana che accoglie i contenuti e le risorse culturali di singoli e gruppi, ne discerne il significato e li confronta, in un continuo dialogo e incontro.

Si tratta di un percorso di ricerca del “comune” e di tensione all’universale cristiano della fede, nello spirito della Fratelli tutti, che procede, come scrive don Maurizio Chiodi, dall’esperienza del particolare. Si legge nel documento Fede e inculturazione della Commissione teologica internazionale (1987) che il pluralismo culturale va interpretato «non come una giustapposizione di universi chiusi, ma come la partecipazione al concreto di realtà orientate tutte verso i valori universali dell’umanità». C’è quindi da attuare nel concreto delle comunità e della dinamica sinodale un percorso interculturale che dall’ascolto delle differenze, dalla coscienza di quanto cambino nel tempo, e dalla scoperta della loro trasversalità, porti al discernimento nella comunità, che confronta e valuta le espressioni culturali con uno sguardo evangelico.

domenica 3 marzo 2024

L'aborto entra nella Costituzione francese. La tristezza dei vescovi

@ - «Libertà garantita». Due parole seducenti che combaciano spesso, giuridicamente, con progressi civili. Ma il 4 marzo i parlamentari francesi intendono iscrivere nella Costituzione una «libertà garantita» che negli altri Paesi democratici nessuna maggioranza ha mai cercato fino in fondo di costituzionalizzare.

L'aborto entra nella Costituzione francese. La tristezza dei vescovi
© Fornito da Avvenire

Per paradosso, con un’unica frase: «La legge determina le condizioni nelle quali si esercita la libertà garantita alla donna di far ricorso a una interruzione volontaria di gravidanza».

A chiedere la costituzionalizzazione dell’aborto è stato il presidente Emmanuel Macron, accampando pure quest’argomento: l’iscrizione ostacolerà ogni tentativo futuro di «ritorno indietro». Sottinteso: a differenza di quanto è accaduto in America. Per il capo dell’Eliseo è una scelta associata all’uguaglianza fra uomini e donne, proclamata come «grande causa» della legislatura. L’aborto, dunque, solo come facoltà per le donne di «disporre del proprio corpo», come ama ripetere pure il guardasigilli Éric Dupond-Moretti: questa la logica dell’esecutivo, presto avallata da una larga maggioranza di parlamentari. Il 30 gennaio i deputati all’Assemblea Nazionale, con 493 voti favorevoli e 30 contrari. Mercoledì scorso, i senatori, con 267 pro e 50 contro: un avallo secco, che ha destato sorpresa, essendo la camera alta controllata dal centrodestra neogollista alleato dei centristi, ovvero dall’opposizione conservatrice a Macron. Il quale, su simili temi, ama presentarsi come un «progressista».

In affanno su tanti fronti e preoccupato dall’imminente scrutinio europeo, il presidente sperava in un ‘lasciapassare’ politico sull’aborto. E i numeri non gli hanno dato torto. Ma le approvazioni bipartisan appena viste sembrano dar ragione soprattutto a quanti additano in queste ore una specificità francese dai contorni inquietanti: anno dopo anno, almeno nei dibattiti politici, una visione dell’aborto vieppiù astratta e accuratamente dissociata da quegli interrogativi etici e da quelle difficoltà che costituiscono, nella realtà della vita di tutti i giorni, l’umanissima trama anche psicologica di un atto dalle conseguenze tanto irreparabili. In sintesi, l’aborto solo come «progresso» e «conquista». L’aborto, pure, evocato con un acronimo fulmineo:Ivg”, interruzione volontaria di gravidanza.

Esprimendo nelle ultime ore «tristezza», la Conferenza dei vescovi francesi (Cef) ha nuovamente messo a fuoco queste scissioni abusive: «Volgendosi verso chi pensa di ricorrere all’aborto, in particolare alle donne in situazione di malessere, la Cef ribadisce che l’aborto, che attenta alla vita fin dal suo inizio, non può essere visto sotto l’unica angolazione del diritto delle donne. La Cef deplora che il dibattito intrapreso non abbia evocato i dispositivi di aiuto a chi vorrebbe tenere il bambino».

In effetti, gli interessi del nascituro, come le questioni etiche inerenti alla figura paterna, sono stati ampiamente rimossi dal dibattito politico. I vescovi hanno così osservato: «Proprio mentre sono messe in luce le numerose violenze verso le donne e i bambini, la Costituzione del nostro Paese si sarebbe onorata iscrivendo la protezione delle donne e dei bambini».

Sullo sfondo, in controtendenza rispetto a Germania e Italia, cresce un indicatore statistico che solo alcune associazioni a difesa della vita cercano regolarmente di ricordare ai francesi: il rapporto fra gli aborti e il numero di nascite. Con 234.300 aborti su 726mila nascite nel 2022, ovvero un aborto ogni 3 nascite, questo dato è cresciuto di oltre il 10% rispetto al 2021. Cifre che sembrano attestare crudamente la banalizzazione in corso.

Più volte, negli ultimi anni, i vescovi francesi hanno già interrogato la coscienza del Paese: «Come potremmo vedere questa realtà drammatica come il solo esercizio di un diritto per le donne, o ancora come un progresso? Non è forse soprattutto il segno del fallimento di tutta la società nell’educare e accompagnare, nel sostenere a livello sociale, economico e umano quelli che ne hanno bisogno?».


Nelle ultime ore hanno preso nuovamente posizione pure alcune associazioni abituate ogni giorno a incontrare la vulnerabilità e la solitudine di tante donne poste di fronte a una gravidanza che le ha spiazzate.

Per Alliance Vita la costituzionalizzazione «è non solo ingiustificata e pericolosa, ma anche totalmente incoerente con l’emergenza sociale». Al riguardo, la nota ong per la vita chiede «un’inchiesta sulle cause e conseguenze dell’Ivg e l’organizzazione di una vera politica di prevenzione».

Sul piano giuridico, non mancano forti timori a proposito di future relativizzazioni dell’obiezione di coscienza del personale medico e ospedaliero, che trarrebbero spunto proprio dal dettato costituzionale. In proposito, ha sottolineato la Fondazione Jérôme Lejeune, «le conseguenze sulla libertà di coscienza dei medici possono essere disastrose». Inoltre, la costituzionaliz-zazione «accelera la deriva eugenista nella società» francese.

venerdì 1 marzo 2024

Procura europea, Italia prima per danni al bilancio dell'Unione

@ - Rapporto Eppo 2023, record di indagini su NextGenerationEU - Redazione ANSA - 01 marzo 202410:59


BRUXELLES - Secondo il rapporto 2023 sulle attività della Procura europea (Eppo) l'Italia risulta il Paese con il valore più alto in termini di danni finanziari al bilancio dell'Ue stimati a seguito di varie malversazioni: 7,38 miliardi di euro a fronte di 618 indagini attive. Di questi, 5,22 miliardi derivano da frodi all'Iva. È quanto emerge dall'analisi dei dati contenuti nel documento reso noto oggi da Eppo, l'organismo che opera in stretto collegamento con la Guardia di Finanza. L'Italia è prima anche per le indagini avviate sui finanziamenti legati al NextGenerationEU: ben 179 su un totale di 206 inchieste attive alla fine del 2023.

Complessivamente, alla fine del 2023 la Procura europea contava un totale di 1.927 indagini attive, con un danno complessivo stimato per il bilancio dell'Ue di 19,2 miliardi di euro, di cui il 59% (11,5 miliardi di euro, corrispondenti a 339 indagini) legato a gravi frodi transfrontaliere in materia di Iva. Italia e Germania contano più della metà delle indagini attive per frodi all'Iva, rispettivamente 121 e 112, seguite a grande distanza da Portogallo (15) e Francia (13). Questo tipo di frode, si legge in una nota dell'Eppo, coinvolge spesso organizzazioni criminali sofisticate ed è quasi impossibile da scoprire da una prospettiva puramente nazionale.

"L'entità delle frodi che ledono gli interessi finanziari dell'Ue, in particolare sul lato delle entrate del bilancio, può essere spiegata solo con il forte coinvolgimento di importanti gruppi della criminalità organizzata", avverte il procuratore capo europeo Laura Kövesi. "La nostra strategia - aggiunge - dovrebbe essere quella di paralizzare la capacità finanziaria di questi gruppi criminali". Nel mirino dei truffatori rientrano anche nuovi fonti di finanziamento dell'Ue, tra cui il NextGenerationEU con un danno stimato di oltre 1,8 miliardi di euro.

"Ciò rappresenta circa il 15% di tutti i casi di frode di spesa gestiti dalla Procura europea durante il periodo di riferimento, ma in termini di danno stimato corrisponde a quasi il 25%", ha aggiunto la numero uno dell'Eppo. Su un totale di 206 indagini attive relative ai finanziamenti NextGenerationEU alla fine del 2023, la gran parte, 179 riguarda l'Italia, seguita da Austria (33) e Romania (8). L'Eppo, a cui partecipano 22 Stati dell'Ue, è stata istituita nel giugno 2021 con il compito di indagare e perseguire i reati che potrebbero ledere gli interessi finanziari dell'Unione, in particolare la frode transfrontaliera dell'Iva e la criminalità transnazionale.

giovedì 29 febbraio 2024

La Russia può usare armi nucleari in questi casi

@ - In alcuni documenti segreti pubblicati dal Financial Times, le norme fissate da Putin su quando poter usare armi nucleari.


La Russia con un arsenale di testate nucleari importante, è una delle nazioni più pericolose da questo punto di vista. E la preoccupazione cresce sapendo in quali circostanze Putin può dare consenso all’uso di bombe atomiche. Questo è quanto è emerso da alcuni documenti segreti pubblicati dal Financial Times. Documenti che risalgono a 10 anni fa e che probabilmente non sono più attuali ma che mostrano il modo in cui Putin gestisce i conflitti e possano ricorrere all’uso di testate nucleari.
Circostanze che sono molto più semplici di quanto si possa immaginare.

Quando la Russia può usare bombe nucleari
Le carte segrete, che soprattutto erano indicazioni per l’esercitazione delle unità militari interessate, indicano le norme fissate da Putin per poter ricorrere all’arma atomica.

La prima circostanza è quando il paese viene attaccato da un’altra nazione e con i medesimi ordigni. E fin qui tutto normale: tu attacchi me con una bomba atomica, io rispondo con la stessa arma per difendermi. Poi però si indica che le armi nucleari possono essere usate anche quando l’esistenza dello Stato è messa in pericolo.

Come ad esempio la distruzione del 20 per cento dei sottomarini atomici russi, di almeno tre incrociatori o tre aeroporti militari oppure un attacco simultaneo su centri di comando terrestri o sulla costa. E ancora uno sbarco nemico in territorio russo, la sconfitta delle unità responsabili della difesa delle frontiere nazionali o una situazione critica per la sicurezza nazionale, inclusa la necessità di dissuadere altri stati da un’aggressione contro la Russia e di evitare una escalation di un conflitto.

E poi, il dossier mostra anche come Putin abbia considerato uno scenario di guerra in cui l’arma nucleare tattica verrebbe utilizzata per respingere una invasione da parte della Cina. Uno scenario ad oggi impensabile, visti gli ottimi rapporti diplomatici tra i due Stati. Ma come detto, i documenti risalgono a 10 anni fa ed evidentemente a quei tempi Putin non era così sicuro della sicurezza nazionale e della neutralità di una nazione confinante come la Cina.

La Russia dispone oggi di duemila bombe atomiche tattiche a limitata potenza e quindi capaci di essere utilizzate in scenari particolari di guerra senza scatenare un conflitto globale a colpi di missili intercontinentali.

Questo scenario era stato ipotizzato anche mesi fa quando l’Ucraina sembrava recuperare terreno nel conflitto sopratutto in quelle zone occupate da Mosca. Alla fine però Putin ha sempre desistito, consapevole che un utilizzo di bombe con testate nucleari avrebbe rischiato di creare una reazione diretta di Stati Uniti o Gran Bretagna con il conseguente scoppio di una terza guerra mondiale.

Il dossier, seppur ormai datato, mostra però un dato importante: che al contrario di quanto si pensava e cioè che la Russia avrebbe usato bombe atomiche soltanto in caso di attacco interno, in realtà la loro idea di utilizzo è molto più realistica e semplice da attuare.

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sabato 24 febbraio 2024

Il G7 e le riserve russe per finanziare l’Ucraina: pro e contro

@ - Sembra facile ma non lo è. Visti i problemi che stanno incontrando i finanziamenti occidentali all’Ucraina, la proposta avanzata dagli Stati Uniti nel G7, con l’appoggio di Gran Bretagna, Canada e Giappone, è di trasferire a Kyiv le riserve congelate della Banca centrale di Russia, circa 300 miliardi di euro depositati in larga parte in Europa. In sostanza, si userebbe il risultato delle sanzioni finanziarie adottate dopo l’invasione di Mosca per sostenere economicamente l’Ucraina in una fase particolarmente difficile della guerra, segnata dai bombardamenti più pesanti della Russia da molti mesi a questa parte.


Ricostruiamo la situazione. Per ragioni di politica interna, il Congresso americano non ha ancora approvato l’erogazione di un pacchetto aggiuntivo di 60 miliardi di dollari di aiuti a Kyiv. L’ala dura dei Repubblicani chiede in cambio misure molto più restrittive sulla gestione del confine con il Messico. Non è escluso che un compromesso verrà raggiunto alla ripresa dell’attività legislativa. Ma il sostegno americano comincia ad apparire precario.

Sul lato europeo, il Consiglio di metà dicembre non è riuscito a fare passare, per il veto di Viktor Orban, un finanziamento ulteriore di 50 miliardi di euro a Kyiv. Gli europei stanno pensando a un piano B da presentare al Consiglio del 1° febbraio: un fondo per l’Ucraina garantito dagli Stati nazionali e raccolto dall’UE direttamente sui mercati. Ciò consentirebbe prestiti all’Ucraina per circa 20 miliardi di euro.

In breve (e tristemente): proprio nella fase più critica di una guerra che dura da quasi due anni, con costi umani ed economici enormi per l’Ucraina, il vitale sostegno finanziario occidentale è diventato incerto e macchinoso, vittima di dinamiche interne su entrambe le sponde dell’Atlantico. Quanto agli aiuti militari, le imprese occidentali non riescono a fornire quanto promesso: per fare un esempio, gli europei hanno consegnato solo un terzo circa delle munizioni previste. Mentre la Russia, passata ad una economia di guerra e rifornita (proiettili di artiglieria e droni) da Corea del Nord e Iran, punta sul fattore tempo.

Putin ritiene, mentre guarda a una eventuale elezione di Trump, che la Russia reggerà più a lungo del sostegno occidentale a Kyiv. L’Ucraina è a corto di armi e di uomini, tanto che Zelensky ha dichiarato di volere arruolare altri 500.000 soldati. Mentre aumentano le difficoltà economiche. Il governo non guarda solo ai costi della ricostruzione futura (le stime si aggirano attorno ai 500 miliardi di euro). Pesano i bisogni pressanti di oggi: come pagare gli stipendi ed erogare servizi a una popolazione quanto mai provata dalle distruzioni del conflitto, che comincia a mostrare insofferenza per i tempi di una guerra lunga.

Fare pagare alla Russia potrebbe essere una soluzione? In teoria, Mosca verrebbe costretta ad anticipare una parte delle riparazioni di guerra. Se la motivazione “morale” appare solida (la Russia ha invaso uno Stato sovrano, annettendosi sulla carta quattro regioni ucraine), le implicazioni legali si prestano a controversie. E non sono ovvie le conseguenze.

Chi si oppone sostiene che una misura del genere favorirebbe la de-dollarizzazione. E’ un argomento solo in parte convincente, osserva Agathe Demarais in una nota per “Foreign Policy”: i dati della BCE e della US Federal Reserve indicano che la de-dollarizzazione è un mito, piuttosto che una tendenza reale. Più fondato un secondo argomento: il trasferimento delle riserve della Russia all’Ucraina richiederebbe la cooperazione di Euroclear, la società che ha in deposito i tre quarti delle riserve congelate della Russia. Ma se Euroclear cooperasse – osservano gli europei – le economie non G7 ne trarrebbero la conclusione che i depositi occidentali non sono più sicuri. E aumenterebbe il ricorso a depositi alternativi, come la China’s Securities Depository and Clearing. Conclusione: si accentuerebbe la frammentazione finanziaria, indebolendo ulteriormente l’impatto delle sanzioni. Dal punto di vista politico, una decisione del genere segnerebbe una rottura irrevocabile con Mosca, ipotesi che fa esitare i paesi europei del G7, inclini a non pregiudicare del tutto ipotesi di compromesso – per quanto improbabili appaiano oggi.

Per Kyiv, potere contare su 300 miliardi di euro sarebbe un passo avanti molto rilevante, si tratta del doppio del suo PIL attuale. E’ un punto decisivo da considerare. Al tempo stesso, esistono problemi legali (quanto è legittima una vera e propria confisca?) e dilemmi politici: l’uso delle riserve russe potrà finire per incentivare il declino in atto degli aiuti occidentali. Come si vede, esistono i pro, che sono potenti, ed esistono i contro. Pro e contro, in mezzo a una guerra europea, che un G7 a presidenza italiana dovrà attentamente vagliare.

*Una versione di questo articolo è apparsa su Repubblica del 31/12/2023