venerdì 26 maggio 2023

Quanto sono costate le armi all’Ucraina? Gli Usa hanno svelato le cifre della guerra

@ - Gli Usa hanno dichiarato che il gruppo di contatto per l’Ucraina - Italia compresa - ha speso in questa guerra per le armi 65 miliardi di dollari, ma il conto sarà più salato.


Quanto sono costate finora le armi per la guerra in Ucraina? Se ci si riferisce per quanto riguarda gli aiuti soltanto all’assistenza alla sicurezza di Kiev e come donatori viene considerato il gruppo di contatto - ovvero i membri della Nato e gli altri Paesi che si sono aggiunti - la risposta a questa domanda è stata finalmente fornita: 65 miliardi di dollari, qualcosa come tre nostre manovre economiche.

A snocciolare i dati sui costi della guerra, in atto ormai da quindici mesi, è stato il segretario della Difesa degli Stati Uniti Lloyd Austin: In totale il gruppo di contatto per l’Ucraina ha impegnato quasi 65 miliardi di dollari in assistenza alla sicurezza. Putin sperava che la nostra determinazione svanisse. E scommetteva che la nostra unità si sarebbe incrinata. Invece, rimaniamo uniti come sempre. E il mondo intero può vederlo”.

Senza dubbio da quando la Russia ha invaso l’Ucraina l’Occidente ha cercato di aiutare Kiev in ogni modo: accogliendo i profughi, garantendo al governo di avere in cassa la liquidità necessaria per pagare gli stipendi, consegnando aiuti umanitari e fornendo ingenti forniture militari.
Solo questa voce stando a quanto dichiarato da Austin avrebbe comportato spese per 65 miliardi di dollari; tra i più generosi di certo ci sono gli Stati Uniti, tanto che ora a Washington sarebbe concreto il rischio di default visto che da mesi è stato raggiunto il tetto massimo per quanto concerne il debito pubblico.

Il conto della guerra però è assai più salato per l’Occidente - Italia compresa - soprattutto se consideriamo che allo stato delle cose il conflitto tra Russia e Ucraina potrebbe andare avanti ancora a lungo.

Guerra in Ucraina: i costi delle armi a Kiev
Stando all’Ukraine support tracker, finora solo gli Stati Uniti da quando è scoppiata la guerra avrebbero speso 43,2 miliardi di dollari per aiuti militari, 24,5 miliardi per aiuti finanziari e 1,61 miliardi per aiuti umanitari.

L’Italia invece avrebbe messo sul piatto 660 milioni di dollari di aiuti militari, 310 milioni di aiuti finanziari e 50 milioni di aiuti umanitari. Come si può vedere, anche noi abbiamo dato la precedenza alle armi rispetto all’assistenza umanitaria al popolo ucraino.
A questi poi vanno aggiunti i circa 35 miliardi elargiti in totale dall’Unione europea, ma questo però è solo l’acconto: quando la guerra sarà finalmente finita, inizierà la ricostruzione dell’Ucraina che avrà un costo stimato al momento di 400 miliardi di dollari, ma c’è anche chi parla di un conto quasi doppio.

La ricostruzione oltre che una spesa - che peserà soprattutto sul groppone di Bruxelles ovvero sui contribuenti comunitari ovvero noi - sarà però anche un ricco business per tutte quelle aziende che riusciranno ad aggiudicarsi i ricchi appalti.

Con la recente conferenza organizzata dal governo, un sostanziale flop visto che poi è stata declassata a bilaterale, l’Italia ha cercato di assicurarsi un posto al sole ma sarebbe molto più indietro rispetto a Francia e Germania, per non parlare degli Usa e del Regno Unito.

Insomma questa guerra oltre a essere letteralmente un autentico bagno di sangue dal punto di vista dei morti, lo è anche dal punto di vista economico senza considerare tutte le conseguenze indirette del conflitto - vedi inflazione e aumento delle bollette - e il marcato incremento delle spese militari.

Un fiume di denaro che sta indebitando gli Stati, soprattutto quelli Occidentali mentre la Russia sembrerebbe reggere nonostante le sanzioni, arricchendo al tempo stesso i colossi della finanza mondiale: la guerra in Ucraina ormai assomiglia sempre più a una sorta di Robin Hood al contrario.



mercoledì 24 maggio 2023

“Russia partner affidabile per l’Italia, la Nato era d’accordo”: ecco perché l’Italia comprava gas da Mosca

@ - L’Italia si è rifornita dalla Russia per buona parte del fabbisogno nazionale di gas per 35 anni, essendo Mosca considerata un partner affidabile, in accordo con l’Unione europea e la Nato.


Paolo Scaroni, presidente dell’Enel ed ex amministratore delegato dell’Eni, ha spiegato nell’intervista di Repubblica perché l’Italia comprava gas da Mosca, rispondendo alle accuse che lo dipingono come un sostenitore di Putin. Al contrario, racconta Scaroni, gli affari russi per il gas erano una normale consuetudine in Europa, senza alcun rischio economico dato che la Russia era un “partner affidabile per l’Italia, la Nato era d’accordo”.

Perché l’Italia comprava gas da Mosca
Paolo Scaroni ha percorso nell’intervista i rapporti commerciali intrattenuti con la Russia, spiegando le posizioni adottate da Eni nel corso degli anni, senza tralasciare le tematiche più spinose riguardanti l’Iran e l’Ucraina e negando di aver appoggiato Putin con l’acquisto degli asset espropriati a Khodorkovsky. L’attuale presidente dell’Enel ha negato qualsiasi forma di amicizia o simpatia rispetto a Putin, visto l’ultima volta in un incontro ufficiale con Eni del 2013, o ad Alexey Miller (amministratore delegato di Gazprom).

Al contrario, Scaroni sottolinea di aver sempre agito nell’interesse della società e del paese, con l’appoggio del governo e sulla stessa scia degli altri paesi europei. In particolare, quando Paolo Scaroni ha iniziato il suo mandato come amministratore delegato di Eni, era già pronto il rinnovo del contratto con Gazprom.

La bozza, tuttavia, risultava spiacevolmente sbilanciata a favore della Russia (tanto che anche l’Antitrust se ne occupò), così Scaroni racconta di aver rinegoziato il contratto per tutelare gli interessi dell’Italia. Il contratto finale, che riguardava quasi il 30% del consumo italiano di gas ai tempi (pari a 22 miliardi di metri cubi), fu poi approvato dal consiglio di amministrazione.

Non ci sarebbe stato motivo di opporsi a un contratto conveniente per Eni, ha ribadito Scaroni, tanto più che c’era anche l’appoggio del governo. L’Italia, infatti, si è rifornita di gas russo già a partire degli anni 60, con l’approvazione della Nato sin dai primi progetti. Eni, poi, ha trovato una crescita esponenziale grazie ai rapporti con la Russia, e ha permesso la realizzazione dei gasdotti di transito europei.

La Russia era un partner affidabile per l’Italia
Nel complesso, i contratti con Gazprom hanno legato l’Italia al gas russo per ben 35 anni e le forniture sono arrivate anche al 40% delle importazioni nazionali. Tutti i governi italiani degli anni 70/80, dunque, hanno via via approvato la partnership commerciale con la Russia, che si era dimostrata un partner affidabile e non incontrava dinieghi, nemmeno dall’Europa. Difatti, l’Italia è ben lontana da essere l’unico paese europeo ad essersi rifornito da Mosca, essendo stata seguita a ruota dagli altri governi, tra cui la Germania e la Francia.

A prima vista, si potrebbe accusare la società italiana di aver peccato nella diversificazione delle forniture. Secondo quanto ci ha riportato Paolo Scaroni, invece, pare che il consiglio di amministrazione dell’Eni avesse agito con molta prudenza. Semplicemente, proprio la Russia era considerata il fornitore più affidabile e comunque non aveva ancora subito alcun tipo di sanzione.

Di fatto, non c’era nulla che potesse impedire a Eni di far affare con la nazione, dato che i contratti risultavano particolarmente convenienti ed erano appoggiati oltre che dal governo anche dalla stessa Nato e dall’Ue. Anche la prima crisi del gas, scoppiata dopo l’invasione della Georgia, non sembra aver rappresentato un campanello d’allarme. Errore di valutazione o strategia, è certo che nessun paese sembrò preoccuparsi particolarmente della cosa.

In effetti, i paesi europei continuarono a intrattenere buoni rapporti con Mosca anche dopo l’invasione della Crimea del 2014, a detta di Scaroni in “una sorta di promozione della democrazia attraverso il commercio”. Perfino gli Stati Uniti, regolarmente informati da Eni, non ebbero nulla in contrario alla partnership con la Russia fino ai gasdotti di North e South Stream. Quest’ultimo, in particolare, era particolarmente ostico per gli Usa proprio per il legame diretto con Mosca che avrebbe bypassato l’Ucraina, anche rappresentava la scelta più sicura dal punto di vista energetico.

lunedì 22 maggio 2023

L’Italia utilizza ancora il petrolio russo (ma non lo compra direttamente dalla Russia)

@ - Nonostante l’embargo l’esportazione di petrolio russo continua ad essere stabile grazie a nazioni compiacenti che lo rivendono anche in Europa, Italia compresa.


La Russia da quando ha invaso l’Ucraina ormai più di un anno fa ha ricevuto diverse sanzioni da parte degli altri paesi con l’obiettivo di isolarla sempre di più ed indebolirla economicamente. Uno dei principali settori dove è stata attaccata è quello energetico con lo stop all’importazione soprattutto da parte dei paesi europei a gas e petrolio. Se per il gas anche l’Italia ha chiuso accordi di fornitura con altri paesi produttori ponendo fine alla dipendenza dalla Russia, lo stesso non si può dire con il petrolio.

Nonostante l’embargo il greggio russo continua ad essere esportato in maniera stabile, contrariamente a quanto si pensasse. Solo ad aprile sono stati esportati 8,3 milioni di barili al giorno tra greggio e derivati secondo l’Aie, l’Agenzia internazionale dell’energia. Si tratta del mese migliore da quando è iniziata la guerra. Come avviene tutto questo? Grazie a nazioni compiacenti che prelevano petrolio russo, lo raffinano per poi rivenderlo agli altri paesi, tra cui anche l’Italia. Ecco come fanno.

I paesi lavatrici del greggio russo
La Russia ha trovato uno stratagemma legale per continuare ad esportare petrolio senza avere problemi. Lo fa attraverso l’aiuto di diverse nazioni compiacenti, soprattutto asiatiche. La maggior parte del greggio attuale russo viaggia su canali asiatici, parliamo di circa l’80%. Questo viene trasbordato in alto mare su piattaforme straniere. In questo modo Mosca ha trovato il modo legale di superare l’embargo perché carburanti russi possono essere venduti e comprati ovunque purché siano stati raffinati al di fuori dai confini russi. E qui arriva la mano delle nazioni compiacenti che stanno facendo affari d’oro grazie a questa operazione. Una delle più attive è l’India, criticata anche dall’Alto rappresentate per la politica estera Ue, Josep Borrell.
Ma secondo l’ong Global Witness sono almeno cinque i paesi coinvolti in questa operazione a favore di Mosca: a parte l’India troviamo anche Cina, Turchia, Emirati Arabi e Singapore. Questi paesi importano grandi quantità di greggio russo, lo raffinano e poi lo rivendono all’Europa e ai paesi che hanno aderito all’embargo.

La maggior parte dei barili di petrolio partono dal porto di Vadinar, nel Gujarat, molto vicina alla raffineria Nayara Energy controllata da Rosneft, società che nei mesi scorsi ha visto il passaggio del 24,5% delle quote ad Hara Capital sarl, società lussemburghese di proprietà di Mareterra Group Holding spa, italiana.

Per proteggersi da possibili problemi molte società coinvolte in questo processo di raffinazione e vendita di greggio russo hanno aperto sedi in zone franche come Dubai, Honk Kong e Singapore. Aree considerate sicure da qualsiasi problema di natura legale.

Ad Hong Kong è stata costituita la Nord Axis. Qui operano anche Bellatrix Energy e Concept Oil Services. A Dubai invece Tejarinaft FZCO, QR Trading DMCC e Coral Energy DMCC. Si tratta delle più importanti società coinvolte in questo strano sistema. Si stima che insieme hanno commercializzato solo nel quarto trimestre del 2022 qualcosa come 1,4 milioni di barili di greggio al giorno. Chi c’è dietro queste società? Impossibile saperlo perché gli azionisti restano un mistero. Ecco anche il motivo per cui queste società hanno sedi in nazioni dove fiscalmente si gode di una grande libertà.

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mercoledì 17 maggio 2023

Missili Kinzhal (potenzialmente nucleari) contro Patriot: ecco la guerra Russia-Usa

@ - Mosca ha lanciato dei missili ipersonici Kinzhal - potenzialmente anche nucleari - che sono stati intercettati dai Patriot americani: così la guerra diventa una sfida Usa-Russia.


In Ucraina la guerra è sempre più una sfida tra Stati Uniti e Russia, anche se a morire oltre ai soldati di Mosca sono i militari e i civili ucraini. Quasi quindici mesi dopo l’inizio dell’invasione ordinata da Vladimir Putin, il conflitto in corso sta vivendo un momento che potrebbe essere definito paradossale.

Se da un lato sul campo di battaglia da mesi stiamo assistendo a una guerra di attrito di novecentesca memoria - vedi le centinaia di chilometri di trincee scavate dai russi per frenare la controffensiva ucraina - dall’altro soprattutto nelle ultime settimane stiamo assistendo a un sempre maggiore utilizzo di armi moderne e iper-tecnologiche.

Esempio lampante sono i missili ipersonici Kinzhal, uno dei fiori all’occhiello dell’arsenale russo che viaggiando a una velocità cinque volte superiore a quella della suono possono trasportare potenzialmente anche delle testate nucleari.

Nella notte tra lunedì e martedì la Russia ha lanciato diciotto missili verso Kiev, di cui stando a quanto si apprende sei ipersonici. I Kinzhal però sarebbero stati tutti abbattuti dai Patriot - il sistema di difesa antimissilistico americano donato all’Ucraina - anche se una batteria sarebbe stata danneggiata ma non distrutta.

Ecco che la guerra in Ucraina così starebbe lentamente scivolando verso una escalation tecnologica-militare, il tutto mentre nelle trincee e nelle città sotto assedio i soldati sia russi sia ucraini continuano a morire a centinaia come avveniva nel secolo scorso.

In Ucraina è sempre più guerra Usa-Russia
Si scrive guerra in Ucraina ma si legge Usa contro Russia, con la Cina nelle vesti di convitato di pietra visto che in ballo non ci sarebbe tanto il destino del Donbass o di Kiev, ma le redini dell’ordine mondiale che i Brics vorrebbero soffiare all’Occidente.

La sfida tra i missili ipersonici Kinzhal e i sistemi di difesa Patriot sono la spia di come le truppe ucraine - incredibilmente valorose e coriacee - stiano svolgendo il “lavoro sporco” che in maniera diretta non possono sbrigare quelle Nato per non dare vita a una catastrofica terza guerra mondiale.

Dopo aver incassato la fornitura di tank e di sistemi di difesa antimissilistici, nel suo recente tour nelle principali cancellerie europee - Roma compresa - Volodymyr Zelensky ha strappato diverse promesse di ulteriori aiuti militari: in cambio nel Vecchio Continente già starebbero pensando alla succulenta torta della ricostruzione, una ricca corsa dove l’Italia però sembrerebbe essere in ritardo rispetto ai volponi francesi e tedeschi.

A generosità gli Stati Uniti non sono stati di certo da meno: solo nel primo anno di guerra, gli Usa hanno staccato assegni in favore di Kiev per un totale di oltre 70 miliardi di dollari, tanto che adesso Oltreoceano sono a rischio default visto che il tetto massimo al debito pubblico è stato raggiunto da mesi.

Una Ucraina sempre più armata però potrebbe spingere la Russia a usare tutte le armi a sua disposizione pur di non perdere la guerra: non solo i missili ipersonici, ma anche le migliaia di armi tattiche nucleari già pronte all’uso.

Lo spartiacque della guerra sarà così la controffensiva ucraina: se dovesse fallire allora a quel punto Kiev potrebbe essere spinta ad accettare un negoziato su basi poco favorevoli, al contrario se le truppe russe dovessero collassare a quel punto ogni scenario, anche il più catastrofico, non potrebbe essere escluso.




domenica 14 maggio 2023

Allarme Usa: “L’Ucraina voleva colpire in Russia”, sarebbe scoppiata una guerra mondiale?

@ - L’Ucraina avrebbe pianificato di colpire i territori russi. Piano che non è stato mai attuato ma che avrebbe condotto alla Terza guerra mondiale. Ecco cosa è emerso da alcuni leak del Pentagono.


L’Ucraina aveva pianificato di attaccare i territori della Russia. È questo ciò che emerso da alcuni leak - fuoriuscita di notizie - del Pentagono pubblicati dal Washington Post, durante la visita a Roma del presidente ucraino.

Se Volodymyr Zelensky ha saputo conquistare la fiducia della Nato e dell’Occidente, dichiarando di voler impiegare le armi solo per difendersi - e mai attaccare la Russia - nei report del Washington Post emergerebbe un nuovo lato del presidente. Leggendo le carte segrete del Pentagono emerge uno Zelensky dall’istinto “aggressivo”, ben diverso da quell’immagine del calmo e “stoico” presidente che affronta la “brutale” invasione russa.

Mentre gli alti funzionari di Kiev avrebbero a lungo discusso di una controffensiva contro il Cremlino, il loro leader avrebbe proposto diversi piani per attaccare la Russia, ad esempio occupando alcuni villaggi per far leva su Mosca, ma non solo. Altri piani, ben più audaci sono stati progettati dal presidente. Piani che avrebbero potuto condurre a una spirale di violenza senza fine. Ecco quali erano i piani e quali sono stati i rischi sfiorati.

Allarme Usa: “L’Ucraina voleva colpire in Russia”: quali erano i piani di Zelensky
Le carte segrete del Pentagono giunte al Washington Post fanno riferimento ad alcuni incontri avvenuti negli ultimi mesi, durante i quali il presidente Zelensky avrebbe presentato alcuni piani di attacco alla Russia.

Il primo risale a fine gennaio, quando il presidente ucraino aveva presentato la possibilità che Kiev conducesse “attacchi in Russiamentre le truppe invadevano il territorio nemico occupando delle città russe di confine - i cui nomi non stati specificati. Questa mossa avrebbe consentito all’Ucraina di poter esercitare delle leve su Mosca, al momento di un confronto sui tavoli dei negoziati.

Stando invece a quanto proposto dal presidente durante un incontro a febbraio con il generale Valery Zaluzhny, l’Ucraina necessiterebbe di missili di lungo raggio “capaci di raggiungere i dispiegamenti di truppe russe in Russia” e di attaccare alcune località a Rostov, una regione occidentale della Russia.

Infine, a metà febbraio, durante l’incontrando il vicepremier Yuliya Svrydenko, Zelensky aveva suggerito che l’Ucraina facesse esplodere un oleodotto dell’era sovietica Druzhba, oleodotto che rifornirebbe l’Ungheria. Piani questi che mostrerebbero il lato più aggressivo del presidente ucraino, che ha sempre dichiarato all’Europa di voler difendere i territori nazionali e di non voler attaccare mai la Russia.

Ma stando a quanto emerso dal Washington Post avrebbe mentito almeno su carta. Secondo alcuni documenti del Pentagono queste proposte di Zelensky non sarebbero altro che sfoghi e minacce “iperboliche e senza senso” che non hanno mai visto la luce. I piani non sono ancora mai stati realizzati, per fortuna, dato che le conseguenze potrebbero essere devastanti.

Se l’Ucraina avesse attaccato Mosca, sarebbe scoppiata la guerra mondiale? Washington dice di sì
Per fortuna i piani proposti da Zelensky non sono mai stati attuati, anche perché in tal caso si sarebbe potuta sfiorare la Terza guerra mondiale, almeno secondo il Pentagono, con il rischio che il Cremlino rispondesse con armi nucleari.

Sicuramente a preoccupare maggiormente il Pentagono è il nodo dei missili a lungo raggio. Washington ha sempre fornito armi avanzate all’Ucraina ma ha sempre bocciato la richiesta di missili Atacms a lungo raggio, preoccupato dalla possibilità che un attacco ai territori russi possa portare a un’escalation del conflitto su scala mondiale.

In effetti il recente attacco al Cremlino ha rischiato di avvicinare nuovamente il mondo a una guerra nucleare. Lo stesso Pentagono, nelle ore successive all’attacco al Cremlino, ha riferito di ritenere “molto improbabile” che la Russia potesse utilizzare delle armi atomiche.

Minaccia nucleare concreta, specialmente dopo che nei mesi scorsi Vladimir Putin ha firmato un documento di deterrenza nucleare, spiegando che Mosca potrebbe usare armi atomiche in caso di “minacce all’esistenza della Russia” e alla “sovranità e integrità territoriale dello Stato”. E sicuramente un attacco come quello proposto da Zelensky sarebbe stato letto in quest’ottica. I piani di attacco dell’Ucraina - per fortuna non realizzati - avrebbero rischiato di portare il mondo sul baratro di una guerra nucleare e mondiale - nel caso in cui avesse impiegato i missili statunitensi.

Come dimostrano queste carte la situazione nell’Est Europa rimane tesa e anche solo un errore umano potrebbe portare a un conflitto su vasta scala. Nonostante quanto scoperto sui piani di Zelensky, questi sembrano rimanere minacce, e lo provano le decisioni dello stesso presidente che a gennaio avrebbe bocciato il piano di un attacco sotto copertura contro l’esercito russo in Siria. Zelensky sembrerebbe quindi conscio del pericolo e dei rischi che azioni simili potrebbero comportare.

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Perché le elezioni in Turchia sono più importanti di quanto pensiamo

@ - Si avvicina il giorno delle elezioni presidenziali e parlamentari in Turchia, un momento decisivo non solo per Ankara ma anche per il resto del mondo. Ecco perché le elezioni sono così importanti.


Ormai le elezioni presidenziali e parlamentari in Turchia sono alle porte e il resto mondo resta con il fiato sospeso. Domenica 14 maggio, infatti, il presidente uscente Recep Tayyip Erdoğan potrebbe perdere la sua presa ferrea sul secondo paese più popoloso d’Europa.

Dopo aver vinto cinque elezioni parlamentari, due elezioni presidenziali e tre referendum e aver affrontato un tentato colpo di stato militare, sembra che il tempo di Erdoğan e del partito Giustizia e Sviluppo (Akp) sia giunto al capolinea, almeno stando alle statistiche, che lo vedono come sfavorito rispetto allo sfidante Kemal Kılıçdaroğlu, rappresentante dell’opposizione unita.

In ogni caso a prescindere da chi vincerà le elezioni, il futuro presidente non solo dovrà occuparsi delle sorti della Turchia, sull’orlo di una crisi economica con un’inflazione galoppante, ma anche degli equilibri geopolitici.

Le elezioni della Turchia sono di massimo interesse per l’Europa, la Nato e la Russia, dall’elezione del nuovo presidente potrebbero dipendere importanti stravolgimenti negli equilibri internazionali. D’altronde la Turchia è l’undicesima economia più grande del mondo, oltre ad essere un membro fondamentale - e scomodo - della Nato che ha intessuto stretti rapporti con la Russia. Ma non solo: ecco perché le elezioni in Turchia sono più importanti di quanto pensiamo.

Turchia, sull’orlo di una crisi economica
A prescindere da chi vincerà le elezioni presidenziali e parlamentari in Turchia la lira turca sembra essere destinata a crollare, portando Ankara sull’orlo di una crisi economica di Ankara e una maggiore instabilità politica. Stando agli analisti, infatti, il crollo della lira sembra ormai essere inevitabile e al vincitore spetterà l’arduo compito di riguadagnare la fiducia degli investitori stranieri e di sviluppare un percorso sostenibile per un’economa da 900 miliardi di dollari.

Un percorso in salita, dato che il presidente Erdoğan ha intensificato le sue politiche non convenzionali dal 2018, incluso il taglio dei tassi di interesse per stimolare la crescita seppure con l’aumento dell’inflazione sopra l’85% in ottobre, mentre la lira è crollata di quasi il 60% negli ultimi due anni fino a un minimo storico rispetto al dollaro. La crisi economica in Turchia avrà sicuramente delle ripercussioni sia sul piano della politica interna che di quella estera, contribuendo a aumentarne l’instabilità politica.

Il ruolo della Turchia nella guerra in Ucraina: tra Nato, Mosca e Kiev
La guerra in Ucraina ha avuto serie ripercussioni sull’economia mondiale e sul piano geopolitico. La Turchia tutt’oggi ricopre un ruolo centrale all’interno del conflitto, ponendosi come stato mediatore tra la Russia e l’Ucraina. È ad Istanbul, infatti, che si sono firmati i primi accordi tra le nazioni in guerra, con il risultato di sbloccare 20 milioni di tonnellate di grano bloccati nel Mar Nero. La Turchia ha dovuto destreggiarsi mantenendosi in equilibrio tra la Nato, di cui è stato membro dal 1952, e la Russia, rimanendo uno delle poche Nazioni a portare avanti un dialogo con Mosca. Infatti, Ankara non ha aderito alle sanzioni del G7 e dell’Ue contro Mosca, ma allo stesso tempo ha dato il via libera all’adesione alla Nato della Finlandia.

Ancora la Turchia ha bisogno dell’Occidente - come spiega l’Economist - per dare una maggiore stabilità alla sua economia, ma dall’altra non può far a meno della Russia dal punto di vista energetico. Infatti, come ricorda Inside Over nel 2022, Ankara ha importato il 40% del gas dai giacimenti russi. Le elezioni politiche in Turchia potrebbero quindi ridisegnare gli equilibri geopolitici, e il futuro presidente ha davanti a sé la sfida di mantenere questi equilibri: svolta filorussa - o filoccidentale - potrebbe compromettendo il precario equilibrio interno e internazionale.

Come le elezioni in Turchia influenzeranno l’Ue e la questione migranti
Le elezioni in Turchia decreteranno inoltre il riavvicinamento o meno con l’Europa, dopo la svolta autoritaria del mandato di Erdoğan. In ogni caso il tentativo di riavviare i negoziati di adesione della Turchia all’Ue potrebbe risultare difficile al futuro presidente. L’avversario politico di Erdoğan, Kılıçdaroğlu, ha garantito una svolta democratica in favore dei diritti dei cittadini e ha promesso di restaurare la Convenzione di Istanbul contro la violenza sulle donne (non rinnovata quest’anno nemmeno dal Governo italiano). Sempre in Europa e con l’Europa, la Turchia dovrà affrontare le storiche tensioni con la Grecia e Cipro. Solo nel 2020 si è rischiato il conflitto armato per il controllo delle acque intorno all’isola.

Eppure, il vero motivo per cui l’Europa guarda con preoccupazione le elezioni in Turchia è la questione migranti. La Turchia si occupa, infatti, di gestire i rifugiati e migranti provenienti dalla Siria e dal resto del Medio Oriente. Ad esempio, entrambi i candidati alle presidenziali hanno dichiarato di voler rimpatriare 3,6 milioni di persone - come riporta l’Unhcr - che hanno trovato rifugio nel Paese. Le future politiche migratorie della Turchia sono cruciali per gli equilibri internazionali ed europei. Politiche migratorie imbracciate da Erdoğan come armi politiche per far valere la sua posizione in Europa. Un rimpatrio coatto potrebbe avere le sue ripercussioni sui tavoli geopolitici, considerando che l’Europa dal 2016 paga la Turchia per fermare le migrazioni.

Turchia, il ruolo di Stato “cuscinetto” con il Medio Oriente
La Turchia, però, non ha un ruolo centrale solo nei delicati rapporti tra Russia e Nato, ma anche in Medio Oriente, dove svolge la sua funzione di “stato cuscinetto”. Le elezioni in Turchia potrebbero infatti ridisegnare la posizione di Ankara in Medio Oriente, a partire dai rapporti con la Siria, che potrebbero influenzare i flussi migratori. Da qualche anno infatti la Turchia, rischiando di rimanere isolata in Medio Oriente ha deciso di riavviare i rapporti con alcuni paesi strategici come l’Egitto e l’Arabia Saudita, con la quale i rapporti si erano tesi dopo l’uccisione del giornalista Jamal Khashoggi, avvenuta nel 2018 nel consolato saudita a Istanbul.

Ma soprattutto il nuovo presidente dovrà stabilire quale atteggiamento assumerà la Turchia nei confronti di Israele. Se il candidato Kılıçdaroğlu, ad esempio, vuole adottare una linea dura tentando di isolare Israele a causa dei “massacri in Palestina”; Erdoğan, dall’altra parte, pur imponendosi come “difensore del mondo musulmano” si è aperto al dialogo con Israele, una posizione di certo più apprezzata dalla Nato - in primis gli Stati Uniti. Ancora una volta le elezioni politiche in Turchia potrebbero influenzare l’intera scacchiera geopolitica: ogni azione che prenderà il futuro presidente, infatti, potrebbe avere ripercussioni economiche e politiche. Non resta quindi che attendere il risultato delle elezioni del 14 maggio.

venerdì 12 maggio 2023

Meloni: donne non libere se devono scegliere fra figli-lavoro. Il Papa: natalità e l’accoglienza non vanno contrapposte

@Papa Francesco e la premier Giorgia Meloni sono stati i protagonisti della seconda giornata degli stati generali della Natalità in corso a Roma. Insieme sul palco, l’ingresso nella sala dell’auditorium è stato accompagnato da un lungo applauso. Stoccata della premier contro la maternità surrogata


«Grazie per questo invito. Per questa iniziativa bella e coinvolgente che sta diventando tradizione, grazie oltre le parole di rito: viviamo in un’epoca nella quale parlare di natalità, maternità, famiglia è sempre più difficile sembra un atto rivoluzionario». Lo ha detto la premier Giorgia Meloni inaugurando la seconda e conclusiva giornata degli stati generali della Natalità. «Eravamo stati avvertiti: batterci per dimostrare che le foglie d’estate sono verdi o due più due fa quattro, bisogna avere coraggio per sostenere cose fondamentali per la nostra società, ma a questa sala non il coraggio non difetta»

Meloni: figli e genitori in cima all’agenda del governo
«Fin dal primo giorno il governo ha messo figli e genitori in cima all’agenda politica, ha fatto della natalità e della famiglia la priorità assoluta della nostra azione, perché vogliamo che l’Italia torni ad avere un futuro, a sperare e credere in un futuro migliore rispetto questo presente incerto», ha rivendicato Meloni. E ha elencato gli interventi del governo a sostegno delle famiglie: dall’assegno unico alle agevolazioni per i mutui ai giovani. Meloni ha citato l’erogazione del fringe benefit che «vogliamo mantenere a tremila euro dando priorità a chi ha figli a carico».

«Sui figli approccio sussidiario e non dirigista»

«Abbiamo intitolato alla natalità un ministero, lo abbiamo collegato a famiglia e pari opportunità, non è una scelta di forma ma di sostanza» ha proseguito Meloni. «È la sintesi - ha spiegato - del programma di un governo che vuole affrontare le grandi crisi, fra cui è innegabile quella demografica. Perché i figli sono la prima pietra della costruzione di qualsiasi futuro». Quella demografica «è una sfida che portiamo avanti non con impostazione dirigista, ma con l’approccio sussidiario, di chi crede che il compito dello Stato sia creare le condizioni favorevoli, con l’ambiente normativo e soprattutto sul piano culturale, alla famiglia, all’iniziativa, allo sviluppo, al lavoro» ha incalzato Meloni, che ha rispedito al mittente l’accusa di volere uno Stato etico: «No, vogliamo uno Stato che accompagni e non diriga, vogliamo credere nelle persone, scommettere sugli italiani, sui giovani, sulla loro fame di futuro»

«Donne non libere se devono scegliere
 fra figli-lavoro»

«Se le donne non avranno la possibilità di realizzare il desiderio di maternità senza rinunciare a quello professionale non è che non avranno pari opportunità, non avranno libertà» ha detto ancora la presidente del Consiglio

«Natalità non è in vendita, utero non si affitta»

E ancora: «Vogliamo vivere una nazione nella quale essere padri non sia fuori moda, ma un valore socialmente riconosciuto tutto, in cui riscoprano la bellezza di essere genitori che è una cosa bellissima che non ti toglie niente e che ti dà tantissimo». «Per decenni - ha aggiunto - la cultura dominante ci ha detto il contrario. Vogliamo che non sia più scandaloso dire che siamo tutti nati da un uomo e una donna, che non sia un tabù dire che la natalità non è in vendita, che l’utero non si affitta e i figli non sono prodotti da banco che puoi scegliere e poi magari restituire»

Meloni al Papa:contro denatalità faremo la nostra parte

«Vincere l’inverno demografico, ha detto il Papa, è combattere qualcosa che va contro le nostre famiglie, la nostra patria, contro il nostro futuro. Santità, noi amiamo le nostre famiglie, amiamo la nostra patria, crediamo nel nostro futuro e faremo fino in fondo la nostra parte». Lo ha detto la presidente del Consiglio, che concludendo il suo intervento agli Stati generali della natalità, si è voltata verso papa Francesco, seduto sul palco, rivolgendosi direttamente lui.

Il Papa: preoccupano i dati sulla denatalità in Italia

Il Papa dal canto suo ha ribadito che il tema della natalità è «centrale per tutti, soprattutto per il futuro dell’Italia e dell’Europa». «La nascita dei figli, infatti, è l’indicatore principale per misurare la speranza di un popolo. Se ne nascono pochi vuol dire che c’è poca speranza. E questo non ha solo ricadute dal punto di vista economico e sociale, ma mina la fiducia nell’avvenire». «Ho saputo che lo scorso anno l’Italia ha toccato il minimo storico di nascite: appena 393 mila nuovi nati - ha detto il Pontefice -. È un dato che rivela una grande preoccupazione - ha sottolineato Papa Francesco - per il domani. Oggi mettere al mondo dei figli viene percepito come un’impresa a carico delle famiglie. E questo, purtroppo, condiziona la mentalità delle giovani generazioni, che crescono nell’incertezza, se non nella disillusione e nella paura. Vivono un clima sociale in cui metter su famiglia si sta trasformando in uno sforzo titanico, anziché essere un valore condiviso che tutti riconoscono e sostengono».

«Affitti alle stelle, servono correttivi al mercato»

«In questo contesto di incertezza e fragilità, le giovani generazioni sperimentano più di tutti una sensazione di precarietà, per cui il domani sembra una montagna impossibile da scalare» ha aggiunto il Papa elencando alcuni problemi: «Difficoltà a trovare un lavoro stabile, difficoltà a mantenerlo, case dal costo proibitivo, affitti alle stelle e salari insufficienti sono problemi reali. Sono problemi che interpellano la politica, perché è sotto gli occhi di tutti che il mercato libero, senza gli indispensabili correttivi, diventa selvaggio e produce situazioni e disuguaglianze sempre più gravi»

«Natalità à e l’accoglienza non vanno contrapposte»

La natalità e l’accoglienza «non vanno mai contrapposte perché sono due facce della stessa medaglia, ci rivelano quanta felicità c’è nella società» ha detto ancora il Papa nel suo intervento agli Stati Generali della Natalità. «Una comunità felice sviluppa naturalmente i desideri di generare e di integrare, di accogliere, mentre una società infelice si riduce a una somma di individui che cercano di difendere a tutti i costi quello che hanno», ha aggiunto il Papa. Francesco chiede dunque di sostenere la felicità, specialmente quella dei giovani, perché «quando siamo tristi ci difendiamo, ci chiudiamo e percepiamo tutto come una minaccia»

mercoledì 10 maggio 2023

Italia contro Cina: addio alla Nuova Via della Seta

@ - L’Italia tuona contro la Cina e si prepara ad abbandonare il piano Nuova Via della Seta, a cui aveva aderito nel 2019. La mossa sarebbe un segnale forte di ostilità verso Pechino. Cosa può accadere?


Italia contro Cina: sfida aperta a Pechino, con l’indiscrezione sul mancato rinnovo dell’imponente e miliardario piano Nuova Via della Sta (Belt and Road Initiative) da parte del Governo Meloni.
In un segnale di discontinuità che non passerà inosservato a livello internazionale, rumors non ufficiali raccontano di un cambio di passo strategico dell’esecutivo di centro-destra nei confronti delle relazioni commerciali - e ovviamente politiche - con il dragone.
La scelta di non rinnovare l’accordo della Belt and Road Initiative (BRI), che scade all’inizio del prossimo anno, è tanto espressione di una specifica e peculiare visione dei rapporti economici con l’estero dell’attuale Governo, quanto figlia del complesso scenario geopolitico del momento. Con un mondo tornato a polarizzarsi tra Occidente e i suoi nemici (Cina e Russia), gli Usa stanno da tempo pressando i Paesi europei affinché spezzino ogni legame commerciale ed economico con Pechino.
Fare affari con la Cina è valutato pericoloso a livello di sicurezza nazionale e contrario alla difesa dei valori democratici occidentali: con questa convinzione, lo scacchiere commerciale mondiale si sta modificando. E l’Italia, con la decisione di abbandonare la Nuova Via della Seta, vuole entrare a pieno titolo nel nuovo ordine mondiale guidato dall’Occidente.

Cosa significa rompere i legami con la BRI e con la Cina per il nostro Paese?

Italia abbandona la Nuova Via della Seta? Scontro aperto con la Cina
Secondo quanto riferito da diversi media internazionali, l’Italia si starebbe ritirando dalla multimiliardaria Belt and Road Initiative della Cina, considerata da molti in Occidente come un “cavallo di Troia” di Pechino per promuovere i suoi interessi strategici.

Il governo di Giorgia Meloni ha segnalato a Washington che si ritirerà dallo schema, soprannominato la Nuova Via della Seta, entro la fine dell’anno. L’Italia ha aderito all’iniziativa nel 2019, quando Giuseppe Conte era presidente del Consiglio, diventando l’unico paese del G7 a far parte dell’accordo. La partecipazione si rinnoverà automaticamente nel 2024 a meno che Roma non esca attivamente dal piano.

L’allora primo ministro, Giuseppe Conte, sperava che l’accordo avrebbe dato una spinta all’economia sottoperformante dell’Italia, ma negli ultimi quattro anni ha visto pochi benefici, con esportazioni in Cina per un totale di 16,4 miliardi di euro ($ 18,1 miliardi) l’anno scorso da 13 miliardi di euro nel 2019. Al contrario, l’export cinese nel nostro Paese è salito a 57,5 ​​miliardi da 31,7 miliardi nello stesso periodo, secondo i dati italiani.

Da evidenziare, che i principali partner commerciali dell’Italia nella zona euro, Francia e Germania, hanno esportato molto di più in Cina lo scorso anno, nonostante non facessero parte della BRI.

Un funzionario del governo ha affermato a Reuters che Roma utilizzerà proprio questa mancanza di sviluppo economico come argomento chiave per non rinnovare l’accordo.

La questione è molto delicata e probabilmente non verrà presa alcuna decisione formale prima del vertice del G7 di questo mese in Giappone. La decisione, infatti, rischia di innervosire Pechino, ma dovrebbe rassicurare gli alleati occidentali dell’Italia, dagli Stati Uniti alla Gran Bretagna fino a Bruxelles. Di certo, affermerà l’approccio atlantista del governo Meloni che ha strenuamente sostenuto l’Ucraina nella sua lotta contro la Russia.

La posta in gioco è lo schieramento dalla parte giusta in questo ritorno così aggressivo in un modo polarizzato. Non c’è dubbio che il Governo ora in carica avesse già dato indicazioni in tal senso. In un’intervista con Reuters l’anno scorso, prima di conquistare il potere nelle elezioni di settembre, la Meloni aveva infatti chiarito di disapprovare la decisione di Conte. “Non c’è alcuna volontà politica da parte mia di favorire l’espansione cinese in Italia o in Europa”, ha detto.

Finora, c’è stata grande prudenza dell’esecutivo per non offendere la Cina, e funzionari governativi hanno detto che Roma non vuole provocare una rottura diplomatica. La Cina è stata finora vista e trattata come un partner economico, ma l’Italia non può più permettersi di entrare in una situazione in cui dipende eccessivamente da Pechino in settori chiave, come è successo con la Russia e le sue forniture energetiche. Questa è la linea politica illustrata ufficiosamente da un funzionario su Reuters.

Cina pronta a ritorsioni contro l’Italia?
L’Italia, come gran parte dell’Europa, si trova in una situazione di grande pressione internazionale, con le crescenti tensioni tra Washington e Pechino che si sono aggravate alla luce del continuo rapporto amichevole di Pechino con la Russia.

I paesi europei stanno lottando per bilanciare il desiderio mantenere convenienti legami con la Cina in materia di commercio e investimenti con lo schieramento accanto agli Usa e alla lotto contro la concorrenza sleale e le minacce di Pechino.

Il ritiro dell’Italia dall’iniziativa sarebbe una grande perdita simbolica per la Cina, secondo Federico Santi, senior analyst di Eurasia Group.

Di recente hanno intensificato i loro sforzi di lobbying per cercare di convincere la Roma a rimanere nell’accordo”, ha detto a The Telegraph. “Questa decisione, se confermata, sarà in contrasto con il governo cinese”.

Pechino potrebbe reagire imponendo misure punitive contro le aziende italiane che fanno affari in Cina. “Potrebbero mettere in svantaggio le imprese italiane. È difficile dire come ciò si manifesterebbe, ma potrebbero aumentare il controllo normativo, ad esempio”, secondo l’esperto.

Stefano Stefanini, ex consigliere diplomatico di un presidente italiano ed ex rappresentante permanente dell’Italia presso la NATO, ha affermato sempre su Telegraph che se Roma non si ritira, rischierà uno scontro con gli Stati Uniti. Rimanere con la Belt and Road Initiative “sarebbe una scelta difficilmente compatibile con la posizione filo-occidentale dell’Italia”.

Tuttavia,non c’è un modo semplice per uscire dall’accordo senza sconvolgere la Cina e ci saranno inevitabili rappresaglie da parte di Pechino”, ha aggiunto.

Una guerra commerciale con Italia - ed Europa - contro la Cina potrebbe essere davvero vicina. La decisione del Governo Meloni di abbandonare o no la Nuova Via della Seta sarà cruciale.

lunedì 8 maggio 2023

La recessione in Germania c'è stata davvero. E l'allarme è per tutti

@ - Germania in recessione: la possibilità è reale e i dati economici parlano chiaro. Con la potenza tedesca in affanno è tutta l'Europa, compresa l'Italia, che vede un futuro molto incerto. Cosa succede?


Il vento di recessione soffia dalla Germania, ma può trascinare l'Europa intera in una crisi economica dai contorni ancora vaghi e con un allarmante potenziale di portare il vecchio continente a contrarsi.

L'avvertimento arriva da nuovi dati macro rilasciati lunedì 8 maggio, che lasciano intravedere segnali poco rassicuranti: la produzione industriale tedesca è crollata di più in un anno, aumentando il rischio che la più grande economia europea sia scivolata davvero in una recessione invernale.

L'ultima serie di numeri economici per l'industria tedesca è un chiaro promemoria che non si può ancora cantare vittoria: la potenza e motore dell'economia europea non sembra aver davvero evitato la recessione. Cosa succede e perché persistono scenari di tempi bui e incerti per l'Europa tutta.

La Germania è scivolata in recessione? I dati confermano
La produzione industriale tedesca è scesa del 3,4% a marzo, più del calo dell'1,5% previsto dagli economisti in un sondaggio di Bloomberg. Il crollo è stato particolarmente pronunciato nel settore automobilistico, secondo l'ufficio statistico.

Mentre i dati arrivano con un grande ritardo e le versioni più recenti suggeriscono che l'economia nel suo complesso è in espansione nella potenza europea, la performance manifatturiera inaspettatamente scarsa potrebbe ancora vedere la lettura del primo trimestre per il prodotto interno lordo diminuire.

Ciò significa che la Germania potrebbe registrare una recessione tra ottobre e marzo dopo aver vacillato tra crescita e contrazione da quando la Russia ha attaccato l'Ucraina e l'inflazione è decollata. Una stima preliminare per i primi tre mesi del 2023 indicava stagnazione, dopo una contrazione dello 0,5% nel quarto trimestre.

Nello specifico degli ultimi dati, la produzione di autoveicoli e componenti è diminuita del 6,5% rispetto al mese precedente. La produzione in macchinari e attrezzature è scesa del 3,4% e quella nel settore delle costruzioni ha visto un ribasso del 4,6% nel mese.
La produzione nei settori ad alta intensità energetica è diminuita di circa il 3% su base mensile ed è ancora in calo del 13% rispetto a marzo 2022.

Questi risultati seguono un crollo di oltre il 10% negli ordini di fabbrica di marzo, con l'economista di ING Carsten Brzeski che indica debolezze anche altrove.

Tutti i dati macro tedeschi a marzo sono crollati”, ha affermato in un rapporto ai clienti. “Le vendite al dettaglio e le esportazioni sono diminuite drasticamente e, insieme ai dati odierni sulla produzione industriale, hanno aumentato la possibilità di una revisione al ribasso della crescita del Pil del primo trimestre”.

Una revisione al ribasso del Pil significherebbe che l'economia è caduta davvero in recessione, ha ricordato l'analista ING.

Il futuro buio della Germania. E dell'Europa
Non c'è allarmismo, ma preoccupazione sì. Il 2023 si sta palesando come un anno davvero ostico e complesso, con una inflazione che ancora morde in Europa e una crescita vacillante. I numeri tedeschi sono, stando alle recenti analisi, campanelli di allarme per l'intero continente.

In essi si rispecchiano tutte le debolezze del sistema finanziario ed economico globale e, nello specifico, europeo.

Secondo Carsten Brzeski, infatti, osservando la Germania si nota che:più strutturalmente, le aspettative di produzione si sono nuovamente indebolite, il portafoglio ordini si è assottigliato e le scorte di magazzino rimangono elevate. Aggiungete a questo l'impatto della stretta monetaria più aggressiva degli ultimi decenni e il previsto rallentamento dell'economia statunitense che colpisce le esportazioni tedesche, e le prospettive sono tutt'altro che rosee. Oltre a questi fattori ciclici, la guerra in corso in Ucraina, il cambiamento demografico e l'attuale transizione energetica peseranno strutturalmente sull'economia tedesca nei prossimi anni”.

Pur nelle differenti peculiarità di sistema dei Paesi Ue, non si può non notare che nella fragilità tedesca ci sono i segni di un momento delicato per tutto il continente. La Bce resterà aggressiva e questo colpirà le varie nazioni, compresa l'Italia che trema con il suo alto debito.

domenica 7 maggio 2023

Qual è il vero obiettivo della controffensiva Ucraina e cosa può succedere

@ - Da mesi l’esercito militare ucraino afferma di star progettando un’imminente controffensiva contro la Russia, ma quando dovrebbe avvenire e quale è realmente l’obiettivo? Ecco cosa può accadere.


Da tempo ormai si discute della controffensiva ucraina contro la Russia e di quando le forze militari potrebbero decidere di attuarla.

Se i documenti del Pentagono trapelati online, per i quali è stato condannato Jack Teixeira per aver violato la legge sullo spionaggio, fissavano la data della controffensiva per 30 aprile, lo stesso presidente Zelensky ha affermato che è più probabile che avvenga in estate.

Ciò che è certo è che la controffensiva giungerebbe dopo un periodo in cui sono aumentate le tensioni in Russia, specialmente dopo l’attacco al Cremlino, che avrebbe infuocato ancor di più gli animi dei belligeranti. Si osserva, infatti, un ritorno alla retorica della minaccia nucleare.

E se in molti temono che una controffensiva possa peggiorare la situazione e concretizzare una guerra nucleare, dall’altra gli alti funzionari ucraini sono convinti che solo questa possa costringere Mosca a sedersi ai tavoli delle trattative di pace.

A questo punto non resta che domandarsi quale sia l’obiettivo della controffensiva ucraina, soprattutto dopo che le forze militari sostengono che quest’operazione sia in grado di liberare il Paese. Ecco tutto quello che c’è da sapere a riguardo.

Qual è il vero obiettivo della controffensiva Ucraina?
Se gli alti funzionari militari ucraini ripetono che l’obiettivo finale della controffensiva sia la liberazione di tutto il territorio, Crimea e Repubbliche separatiste comprese, questo risulta essere un’operazione non realizzabile, almeno non in un’unica mossa.

Stando agli esperti, è più probabile che la controffensiva ucraina consista in un attacco in direzione del Mar d’Azov, nella regione di Zaporozhye, intorno alla città di Melitopol’, con l’obiettivo reale di dividere in due i territori occupati dall’esercito russo:
  • a ovest la Crimea;
  • a est il Donbass.
Quest’azione consentirebbe all’artiglieria ucraina di bombardare la penisola di Crimea e la base navale di Sebastopoli. Una controffensiva che sicuramente risulta ovvia anche a Mosca. La difficoltà di quest’operazione sarà poi la capacità di impiegare le forze militari ucraine sui due fronti.

Gli esperti, quindi, considerano come obiettivo più realistico per Kiev quello di avanzare di 30 chilometri nell’area di Melitopol’, con la possibilità di concentrare gli attacchi nelle regioni di Luhansk, Kremenna, Svatove, Severodonetsk e Lysychansk, dove si continua a combattere. Eppure, il territorio di queste regioni, essendo accidentato e boscoso potrebbe non risultare ottimale per le armi occidentali. Senza contare che - stando al Pentagono - le forze ucraine potrebbero finire i missili per i sistemi di difesa aerea entro maggio, rendendo ancora più difficile la realizzazione di una controffensiva.

Controffensiva dell’Ucraina: cosa può accadere e quali sono i rischi
Periodicamente gli alti funzionari dell’Ucraina affermano che la controffensiva progettata contro la Russia potrebbe far concludere la guerra prima della fine del 2023.

Dello stesso parere è anche il docente di studi sulla Difesa, King’s College di Londra, Robert Cullum, il quale è convinto che il successo di una controffensiva potrebbe costringere Mosca a sedersi al tavolo delle trattative e forse ottenere qualche tipo di concessione, specialmente se è la Crimea a essere minacciata. “Putin davvero non vorrà perdere la Crimea perché è un grande simbolo del successo del suo regime”.

Eppure, se questi sono gli auspici dei politici ucraini, dall’altra non bisogna ignorare la minaccia nucleare a cui il Cremlino torna periodicamente, tanto da decidere di dispiegare armi nucleari russe sul territorio della Bielorussia. E in molti si domandano, in caso di successo della controffensiva ucraina, se Mosca possa decidere di impiegare sul campo le armi nucleari tattiche, con il conseguente rischio di un’escalation del conflitto.

In realtà, almeno per l’esperto di strategia militare, Gustav Gressel, non c’è ragione che la Russia impieghi armi nucleari, a meno non sia minacciata la Crimea, perché “il prezzo è assai alto e l’esito del successo è dubbio”.

In ogni caso, l’ombra della minaccia nucleare si estende in Europa e non va ignorata. Il cessate il fuoco sembra ancora lontano. Non resta che chiedersi perché si pensi che solo una controffensiva ucraina possa funzionare per sedersi ai tavoli delle trattative, senza prima fare i conti con la totale assenza di un canale diplomatico, assenza a cui ha contribuito anche l’Europa.