martedì 5 maggio 2020

La sindrome del vaso di coccio. L'Ue teme la tenaglia tra Usa e Cina

@ - Il tema diventa centrale nelle riunioni fra i vertici europei: come difendersi dal punto di vista industriale, commerciale e finanziario. Come sfuggire alla nuova guerra fredda scoppiata con il Covid-19. Come affrontare l'asse Johnson/Trump post Brexit.

Ci sono grandi fondi internazionali che stanno rastrellando denaro e potrebbero mettere in pericolo gli asset strategici europei: bisogna stare attenti”. Quando il presidente della Commissione Bilanci del Parlamento europeo, il belga Johan van Overtveldt, apre uno squarcio su quanto sta accadendo nel mondo della finanza globale all’ombra del coronavirus, Ursula von der Leyen prende appunti, attenta. Van Overtveldt interviene alla riunione dei presidenti dei gruppi del Parlamento europeo stamattina, presente la presidente della Commissione Ue. Le sue parole indicano esattamente il pericolo dal quale l’Unione europea dovrà guardarsi nel mondo del dopo-virus: difendersi nel riassetto globale di poteri che uscirà dalla nuova guerra fredda tra Usa e Cina.

La questione è già ben presente nei tavoli di discussione a Bruxelles. Stamane viene affrontata anche nel colloquio tra il presidente dell’Europarlamento David Sassoli e von der Leyen. La presidente della Commissione è consapevole del fatto che per reggere la nuova sfida, l’Ue deve rafforzarsi. Del resto, fin dall’inizio del suo mandato a Palazzo Berlaymont, von der Leyen si è posta l’obiettivo di dare una forma – e possibilmente egemonia – geopolitica alla sua Commissione, superando gli interessi spesso contrastanti tra gli Stati per privilegiare l’interesse comunitario. Ma la realtà è ancora ben diversa dalle intenzioni.

Da quando Donald Trump e il suo segretario di Stato Mike Pompeo si sono scatenati contro la Cina incolpandola per presunte negligenze e responsabilità nella diffusione del virus “uscito dai laboratori di Wuhan” (è l’accusa), l’Ue ha risposto solo con il suo Alto rappresentante per la politica estera. Josep Borrell annuncia che si sta negoziando “una bozza di risoluzione in vista dell’Assemblea mondiale dell’Oms il 18 maggio” a Ginevra, in cui, tra i vari punti viene “evidenziata l’importanza di una migliore comprensione delle circostanze che hanno permesso alla pandemia di svilupparsi”. Ma, oltre a Borrell, cui è stata affidata quella che di certo è una ‘patata bollente’ nelle relazioni geopolitiche del momento, nessun altro rappresentante apicale delle istituzioni europee si è espresso pubblicamente sulla nuova guerra tra Washington e Pechino.

Per ora, l’Unione la subisce. Il virus ha depotenziato il grande summit Ue-Cina sugli investimenti previsto per marzo e slittato al 14 settembre. Si terrà a Lipsia, sotto la presidenza di turno tedesca peraltro, ma la pandemia inevitabilmente riduce le aspettative e delude i leader e i funzionari europei che ci stavano lavorando. Ora prevalgono le preoccupazioni, più che i progetti.

L’avvicinamento di molti Stati europei alla Cina era anche un modo – dettato anche da interessi economici - per ‘resistere’ al fenomeno Trump, figlio della stessa stella della Brexit: 2016. E non è sfuggito a Bruxelles che ieri il segretario britannico alla Difesa Ben Wallace sia stato l’unico in Europa a chiedere che la Cina “chiarisca”, pur rifiutandosi di commentare le accuse del presidente americano. 

Ora, oggi, secondo il Guardian, le intelligence dei cinque Stati della cosiddetta ‘Five eyes’, la rete degli 007 di Usa, Gran Bretagna, Canada, Australia e Nuova Zelanda, negano che esistano le prove che il virus sia uscito da un laboratorio cinese. Ed è la seconda smentita di giornata per la Casa bianca. La prima è arrivata dal virologo Anthony Fauci, volto scientifico della task force della Casa Bianca contro il coronavirus: non ci sono prove che il virus sia stato “artificialmente o deliberatamente manipolato”. Ma al di là delle accuse e delle smentite, resta il fatto che tra Washington e Pechino si è scatenata una guerra di ‘spartizione’ del mondo post-coronavirus. E l’Ue rischia di essere la prima vittima, terra di conquista.

A livello comunitario le idee per affermare lo spazio europeo in questa situazione seguono il filo del ragionamento di von der Leyen sul rafforzamento dell’Unione. Ma la strada non è in discesa. Nel colloquio con la presidente, Sassoli chiede chiarezza su “tempi e ambizioni” del recovery fund, il nuovo strumento allo studio della Commissione europea per rispondere alla crisi economica, legato al bilancio pluriennale europeo e finanziato da bond emessi dalla stessa Commissione.

La proposta di Palazzo Berlaymont potrebbe arrivare non prima del 20 maggio (inizialmente era attesa per questa settimana). Il fondo, si apprende da fonti europee, dovrebbe partire da una leva di 430 miliardi di euro che, con investimenti privati e obbligazioni, potrebbe mobilitare fino a mille miliardi e mezzo. L’idea della presidente è di consentire che una parta consistente di queste risorse finisca agli Stati membri sotto forma di finanziamenti a fondo perduto. Questo, spiega von der Leyen ai suoi interlocutori, dovrebbe servire a equilibrare le disparità sugli aiuti di Stato: il sud più indebitato può spendere meno della Germania per rafforzare le proprie industrie colpite dalla crisi.

E poi l’idea è di rafforzare gli asset strategici inglobando i ‘gioielli’ nazionali in poli europei per essere più forti a livello globale. Ma su questo siamo solo ai titoli, per il momento. Di certo a Bruxelles c’è ormai la consapevolezza di dover combattere almeno due guerre: quella contro la pandemia e quella per affermare una certa indipendenza europea rispetto ai due principali contendenti a livello globale, Stati Uniti e Cina.

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