@ - di Paolo Valentino
BERLINO - Forse non dovremmo sorprenderci se l’Unione europea non ha fin qui giocato un ruolo di primo piano nella risposta globale al Covid-19. Quando la minaccia ha un carattere esistenziale, governi e policy maker tendono infatti a ripiegare su ciò che conoscono meglio, che in Europa significa semplicemente lo Stato nazionale. Ma la pandemia e le sue devastanti conseguenze economiche non sono risolvibili nel tradizionale paradigma, ancora debitore del sistema di Vestfalia, la pace che nel 1648 mise fine alla Guerra dei Trent’anni. Il Coronavirus può quindi diventare l’”asteroide” caduto sul nostro pianeta, in grado di forzare gli europei a prendere con maggiore determinazione e velocità la strada della “ever closer union”, all’insegna di una solidarietà più profonda e concreta.
Una cosa è chiara: quella del Covid-19 è la prima crisi del Terzo Millennio che colpisce l’intero genere umano e, come ci ha spiegato Fareed Zakaria in una intervista al Corriere, rischia di essere la prima di una serie di crisi a cascata – default, depressione nelle economie emergenti, esplosione degli Stati petroliferi, ecatombe e carestia in Africa - che potrebbero letteralmente far esplodere tutti i quadranti strategici, precipitando il mondo in una spirale senza salvezza.
Ci sono due possibili scenari di uscita da questo tunnel, secondo gli studiosi dell’Istituto Montaigne di Parigi.
- Il primo è la definitiva consacrazione della Cina come la nuova Superpotenza mondiale, in grado di proiettare hard e soft power, crescita economica e perfino il fascino sinistro di un nuovo modello autoritario.
- L’altro è che il Covid-19 abbia un effetto rigenerante sull’Occidente, con il ritorno dell’America sulla scena internazionale (previa elezione di Joe Biden alla Casa Bianca il prossimo novembre) e un nuovo protagonismo dell’Europa, cui spetta il ruolo di rivitalizzare la cosiddetta global governance.
Lo farà? Lo faremo? Molto, se non tutto dipende dalla Germania, ancora nonostante tutto ostaggio dei fantasmi della sua storia. È a Berlino, al netto delle velleitarie ambizioni olandesi, l’ostacolo probabilmente maggiore di fronte all’Europa, per compiere la sua definitiva emancipazione dagli Stati Uniti, non nel senso di rompere il legame transatlantico, ma di agire finalmente in proprio sulla scena globale, sul piano economico e strategico. Perché senza assunzione di responsabilità finanziaria e strategica tedesca, intorno a cui raccordare i grandi Paesi come Francia, Italia, Spagna, non può esserci un’Europa forte e credibile.
La veemente conversazione nazionale in corso nella Repubblica federale sui Coronabonds è la spia che un movimento in questa direzione è già in atto. Non solo nell’establishment – istituti economici, grandi giornali, imprenditori, parte della classe politica compresi settori della Cdu – ma per la prima volta anche nell’opinione pubblica: un sondaggio ZDF rivela infatti che il 68% dei tedeschi è favorevole a un aiuto finanziario verso i paesi più colpiti dalla crisi come Italia e Spagna. Spetta ad Angela Merkel, nella discussione sul Fondo di rilancio per il dopo-coronavirus che sta per cominciare, offrire una visione politica senza la quale il futuro dell’Europa potrebbe essere a rischio.
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