Con lo Stato islamico non basta dire «not in my name» | Tempi.it: "Articolo tratto dall’Osservatore Romano – Nayla Tabbara, musulmana, laureata in Scienze delle religioni all’Ecole pratique des hautes études di Parigi, è docente di Studi islamici all’Università Saint-Joseph di Beirut nonché direttore del Dipartimento di studi interculturali della Fondazione Adyan, in Libano. In quest’intervista al quotidiano francese «la Croix», pubblicata nell’edizione del 6 ottobre, sottolinea che la semplice condanna delle atrocità compiute dal cosiddetto Stato islamico nel Vicino oriente non basta e che occorre, da parte musulmana, una reinterpretazione dei testi coranici conforme ai valori umani fondamentali.
Alcuni musulmani affermano che il cosiddetto Stato islamico (Is) non deriva dall’islam e non si sentono quindi coinvolti. Che cosa ne pensa?
È vero che tale movimento opera una vera e propria frattura con la cultura e la tradizione musulmane. Queste persone non sanno nulla dell’immenso lavoro portato avanti per secoli dai nostri studiosi. Ma affermare, come i giovani britannici della campagna «Not in my name», che i combattenti dell’Is non agiscono a nome della stragrande maggioranza dei musulmani, non basta. Questo momento caotico e tale orrore devono essere l’occasione per una reinterpretazione dei testi coranici o della tradizione del Profeta che possono essere compresi in modo ambiguo. È il momento di promuovere un consenso su un’interpretazione conforme ai valori umani fondamentali.
La lettera aperta di centoventi studiosi musulmani di tutto il mondo, che rifiutano le tesi dell’Is, non è forse un primo passo?
Quella lettera ne mostra le lampanti deviazioni rispetto alla tradizione musulmana. Il nostro discorso non deve portare tanto verso l’esterno, l’occidente, per scagionarci, ma verso l’interno, verso i giovani musulmani di tutto il mondo, i nostri figli, per chiarire le nostre posizioni. Le autorità religiose musulmane devono accordarsi su una condanna dello Stato islamico ed elaborare interpretazioni chiare riguardo alla jihad, allo Stato, al rapporto con l’altro e, poiché non basta parlare, devono anche distinguersi con azioni di solidarietà. È impensabile che il denaro dei Paesi del Golfo non venga utilizzato per tutti quei rifugiati.
Quali potrebbero essere le basi di questo lavoro?
Nella Fondazione Adyan, creata insieme a padre Fadi Daou e ad altri libanesi cristiani e musulmani, svolgiamo un lavoro teologico sul posto dell’altro nell’islam e nel cristianesimo. Per quanto mi concerne, ho ripreso lo studio dei versetti coranici sulle “genti del Libro” ristabilendo l’ordine cronologico della loro rivelazione, poiché quest’ultima è avvenuta in un arco di ventitré anni. Emergono tre fasi. Dopo quella di mezzo, caratterizzata da tensioni, lotte, al tempo in cui il profeta Maometto vive a Medina, ho individuato un’ultima fase, a partire dal ritorno del profeta a La Mecca. Non abbastanza valorizzata, essa è contraddistinta da un appello ad accettare la diversità come una ricchezza voluta da Dio, un appello al riconoscimento reciproco e alla riconciliazione. La nota finale del Corano è un invito a fare il bene insieme."
Alcuni musulmani affermano che il cosiddetto Stato islamico (Is) non deriva dall’islam e non si sentono quindi coinvolti. Che cosa ne pensa?
È vero che tale movimento opera una vera e propria frattura con la cultura e la tradizione musulmane. Queste persone non sanno nulla dell’immenso lavoro portato avanti per secoli dai nostri studiosi. Ma affermare, come i giovani britannici della campagna «Not in my name», che i combattenti dell’Is non agiscono a nome della stragrande maggioranza dei musulmani, non basta. Questo momento caotico e tale orrore devono essere l’occasione per una reinterpretazione dei testi coranici o della tradizione del Profeta che possono essere compresi in modo ambiguo. È il momento di promuovere un consenso su un’interpretazione conforme ai valori umani fondamentali.
La lettera aperta di centoventi studiosi musulmani di tutto il mondo, che rifiutano le tesi dell’Is, non è forse un primo passo?
Quella lettera ne mostra le lampanti deviazioni rispetto alla tradizione musulmana. Il nostro discorso non deve portare tanto verso l’esterno, l’occidente, per scagionarci, ma verso l’interno, verso i giovani musulmani di tutto il mondo, i nostri figli, per chiarire le nostre posizioni. Le autorità religiose musulmane devono accordarsi su una condanna dello Stato islamico ed elaborare interpretazioni chiare riguardo alla jihad, allo Stato, al rapporto con l’altro e, poiché non basta parlare, devono anche distinguersi con azioni di solidarietà. È impensabile che il denaro dei Paesi del Golfo non venga utilizzato per tutti quei rifugiati.
Quali potrebbero essere le basi di questo lavoro?
Nella Fondazione Adyan, creata insieme a padre Fadi Daou e ad altri libanesi cristiani e musulmani, svolgiamo un lavoro teologico sul posto dell’altro nell’islam e nel cristianesimo. Per quanto mi concerne, ho ripreso lo studio dei versetti coranici sulle “genti del Libro” ristabilendo l’ordine cronologico della loro rivelazione, poiché quest’ultima è avvenuta in un arco di ventitré anni. Emergono tre fasi. Dopo quella di mezzo, caratterizzata da tensioni, lotte, al tempo in cui il profeta Maometto vive a Medina, ho individuato un’ultima fase, a partire dal ritorno del profeta a La Mecca. Non abbastanza valorizzata, essa è contraddistinta da un appello ad accettare la diversità come una ricchezza voluta da Dio, un appello al riconoscimento reciproco e alla riconciliazione. La nota finale del Corano è un invito a fare il bene insieme."
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