@ - Per costruire il «nuovo Medio Oriente» serve anche qualcuno che parli con l’Iran. E Trump ha scelto Meloni. In questa fase di transizione non conta solo chi è seduto al tavolo della trattativa, serve che niente e nessuno compromettano l’esito di un progetto complicato.
Italia «più imparziale» degli altri Paesi Ue: perché Trump ha scelto Meloni per mediare con l'Iran
Già le variabili sono tante nel processo di stabilizzazione della tregua a Gaza, ci mancano le incognite. Che per la Casa Bianca sono rappresentate soprattutto dalle mosse di Teheran. Perciò è necessario avere un canale di contatto. E siccome Stati Uniti e Iran al momento non vogliono (e non possono) parlarsi, Washington ha deciso di affidare a Roma un ruolo delicato: quello di tramite. Palazzo Chigi diventa così il crocevia di messaggi che i due nemici si scambiano per via indiretta. È uno dei compiti che fa capire perché Meloni in Parlamento abbia detto: «Stiamo compiendo la nostra parte». Da mesi. A parte le storiche relazioni con Teheran, nell’ultimo periodo l’Italia è stata «l’unica nazione del Vecchio continente ad aver tenuto aperta un’interlocuzione diplomatica con il regime teocratico, assumendosi non pochi rischi e attirandosi l’ostilità di Francia, Germania e Regno Unito».
A raccontarlo è un’autorevole fonte internazionale, vicina al dossier, che riferisce le tensioni maturate tra i Paesi europei all’indomani dello «snapback» con cui sono state ripristinate dopo dieci anni le sanzioni contro l’Iran per la proliferazione nucleare. Teheran considera l’Italia lo Stato dell’Occidente «più imparziale». Non a caso in aprile aveva accettato che si svolgesse a Roma il secondo round dei colloqui sul nucleare con gli americani gestito dall’Oman. Una mediazione che dopo l’esplosione del conflitto con Israele a giugno si è interrotta. Ma ci sarà un motivo se nell’occasione Tajani aveva detto che «l’Italia sostiene ancora i negoziati in prima fila». La dichiarazione del ministro degli Esteri faceva seguito a quella di Trump, secondo il quale «l’Iran potrebbe avere un’altra possibilità di accordo».
L’affidabilità del governo italiano è vissuta come una garanzia da Teheran. E siccome Trump privilegia le relazioni bilaterali, la Casa Bianca ha dato l’incarico a Palazzo Chigi sapendo peraltro che Meloni ha instaurato ottimi rapporti con gli altri Paesi dell’area mediorientale. In questo momento il presidente americano è concentrato sul suo progetto per Gaza e la Palestina. Le variabili sono numerose quanto gli interessi (contrapposti) dei Paesi interessati. «Un passaggio importante sarà la visita di metà novembre a Washington del principe ereditario dell’Arabia Saudita», spiega la fonte: «Riad vorrebbe indicare il nome della personalità che sarà chiamata a guidare il processo. Ma non lo farà finché Hamas non sarà stata completamente disarmata».
Per quanto sia stata duramente colpita, l’organizzazione terroristica continua a massacrare palestinesi inermi nella Striscia di Gaza, intralciando la distribuzione degli aiuti umanitari. E il nome di Hamas si collega direttamente all’Iran. Ecco l’incognita tra le tante variabili. E il rischio che una mossa di Teheran possa scatenare un effetto domino, incendiando nuovamente il Medio Oriente. Ecco perché Washington «ha bisogno di segnali» dal regime: l’obiettivo primario è che l’Iran faccia capire di non voler uscire definitivamente dal trattato di non proliferazione delle armi nucleari.
Perciò dopo la reintroduzione delle sanzioni è stato inviato a Teheran un messaggio: «Evitate di reagire pesantemente». C’è il forte e motivato timore che in caso contrario Israele — sentendosi minacciato — torni ad attaccare l’Iran. E a quel punto il progetto a cui lavorano gli Stati Uniti, e quanti hanno aderito al piano di Trump, salterebbe. In questa partita ha un ruolo importante l’italo-argentino Grossi, direttore generale dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica, che si sta giocando la poltrona di segretario generale delle Nazioni Unite. Ognuno ha un compito nel processo di stabilizzazione dell’area. E l’Italia ha le sue mansioni. Sarà (anche) per questo che Meloni ripete spesso di sentirsi «un infopoint».
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