@ - Nel recente Rapporto con cui ormai da 57 anni il Censis fa il punto sulla situazione sociale del Paese, cerca, cioè, di fotografare quello che dovrebbe essere il “sentimento” prevalente con cui gli italiani vivono il tempo presente e le sfide che esso propone, l’aggettivo con cui ha scelto di sintetizzare il risultato delle analisi sui dati strutturali e su quelli di opinione è «sonnambuli», intendendo questo termine come sinonimo di «ciechi dinanzi ai presagi».
Come svegliare gli italiani «sonnambuli»? Con l'etica civile del cattolicesimo
© Fornito da Avvenire
Il Censis sostiene che sono ormai del tutto evidenti alcuni fenomeni (crisi demografica e insostenibilità del welfare anzitutto) che fanno chiaramente presagire l’inevitabile declino del Paese, per non dire una vera e propria crisi del sistema Italia. A fronte di ciò, la società italiana, intesa sia come classi dirigenti che come “maggioranza silenziosa”, si mostra irresoluta e incapace di reagire in termini razionali. Le cause di tale incapacità a decidere e ad agire sono imputabili: al «disarmo identitario e politico» (il 56,% [il 61,4% tra i giovani] è convinto di contare poco nella società); a «un profondo senso di impotenza» (il 60,8% [il 65,3% tra i giovani]
prova una grande insicurezza a causa dei tanti, diversi, inattesi rischi); alla delusione nei confronti della globalizzazione, che per il 69,3% avrebbe portato all’Italia più danni che benefici; alla rassegnazione all’inevitabile ridimensionamento del Paese (l’80,1% è convinto che dalle passate emergenze ne è uscita una Italia in declino [l’84,1% tra i giovani]).
In questo clima di sfiducia e di impotenza, alle risposte razionali si sostituiscono credenze fideistiche che, sostenute solo da fattori emotivi, tendono a produrre «fughe millenaristiche», ad amplificare le paure, ad accettare l’improbabile e ad accontentarsi del verosimile. Il risultato a livello collettivo è, appunto, l’inerzia, l’incapacità di pensare a un progetto nazionale condiviso che sappia mettere in atto le riforme strutturali necessarie. Osservando il panorama del Paese si vedono ancora “scie” luminose, casi di successo e di riuscita, esempi di eccellenza, ma le scie non diventano “sciame”, anzi, soprattutto fra i giovani la richiesta che sembra affermarsi è a essere diversi, di avere la possibilità di portare avanti ciascuno il proprio progetto di vita «senza vincoli collettivi».
Come si vede, un’analisi decisamente pessimistica che non lascia molti spazi alla speranza e che si colora anche di elementi inquietanti se riflettiamo sul riferimento letterario-culturale che forse ha suggerito ai responsabili del Censis la metafora dei «sonnambuli». È probabile, infatti, che tale origine sia da individuare nella trilogia di romanzi di Hermann Broch, intitolata, appunto, I sonnambuli, che racconta la progressiva «degradazione dei valori» attraverso la quale la Germania è scivolata verso il crollo finale della sua cultura, coinciso con l’affermarsi del nazismo.
Possiamo fermarci a questa analisi? Evidentemente no. Essa va apprezzata perché conferma che dopo più di centocinquanta anni di unità nazionale resta o è tornato pienamente attuale il compito indicato dalla massima da sempre attribuita a Massimo d’Azeglio, in realtà formulata da Ferdinando Martini nel 1896: «Fatta l’Italia, bisogna fare gli italiani» perché senza un’identità come popolo o nazione è impossibile “pensare in grande” andando oltre quei “desideri minori” che rappresentano la cifra esistenziale della maggioranza degli italiani ormai convertiti a quella che Ronald Inglehart già negli anni 70 del Novecento ha definito la cultura postmaterialistica, caratterizzandola come cedimento della «razionalità strumentale» in favore di una non meglio precisata «razionalità del valore» che induce una nuova enfasi sulla qualità della vita in luogo di quella sulla massimizzazione della crescita economica (individuale e di gruppo). I valori su cui si basa questa cultura – tra i quali l’accettazione dell’aborto e del divorzio, dell’omosessualità, dell’eutanasia, la tolleranza, la valorizzazione della libertà di scelta, del tempo libero e della soddisfazione della vita – si contrappongono a quelli “materialisti” come il lavorare sodo, il denaro, la responsabilità dello Stato, il rispetto dell’autorità, la centralità del lavoro e della famiglia, l’orgoglio nazionale e sono connessi per lui con il declino del “governo grande” e della sua autorità.
Inglehart ha intitolato il libro del 1977 in cui ha presentato per la prima volta in forma sistematica i risultati delle sue ricerche sui valori degli europei La rivoluzione silenziosa sottolineando come la nuova cultura emergesse soprattutto tra i giovani e tra i tedeschi, cioè nel Paese più ricco d’Europa e come fosse collegata al sentimento di aver raggiunto la sicurezza sul piano materiale. I dati del Censis, invece, smentiscono questa ipotesi e ci dicono che è ormai la cultura prevalente in tutte le generazioni e che riesce a convivere con un sentimento crescente di insicurezza riguardo al futuro, che, anzi, sembra rafforzarla attraverso il meccanismo della riduzione degli orizzonti.
Però oggi porre il problema dell’identità è di per sé problematico nel momento in cui la cultura mainstream inneggia alla fluidità, non solo di genere, al meticciato, alla relazionalità, per usare il termine utilizzato su questo giornale da Mauro Magatti nel suo commento al rapporto Censis. Credo che proporre come nuova identità degli italiani il fatto di non avere nessuna identità ma di essere aperti a tutte le possibilità, gli incontri, le alternative, non possa non avere esiti paradossali: non possa, cioè, non rinforzare, invece che superare, quel modello di vita che il Censis ha definito dei «desideri minori», che si accontenta del «benessere minuto» e che cerca «la felicità delle piccole cose di ogni giorno» , come il tempo libero, gli hobby, le passioni personali (rispetto al passato, l’81% degli italiani dedica molta più attenzione alla gestione dello stress e alla cura delle relazioni, perni del benessere psicofisico personale).
L'alternativa, certamente difficile e impegnativa, è quella di tornare a fare i conti con la storia del nostro Paese riconoscendo con serenità che la sola cultura civile degli italiani, intesi come popolo o come nazione, è stata il cattolicesimo, nel senso laico dato al termine da Benedetto Croce nel suo scritto Perché non possiamo non dirci cristiani. Il tentativo sistematicamente perseguito negli ultimi decenni sia nella scuola che nei media di azzerare tale identità, sostituendola con nuove narrazioni che nel tempo si sono succedute e reciprocamente negate, non ha prodotto una nuova “religione civile”, sul modello americano magistralmente analizzato da Robert Bellah, ma piuttosto, come il Censis conferma, la perdita di qualunque identità di popolo o nazionale e l’apertura ad atteggiamenti emotivi e irrazionali.
Si tratta, quindi, di ripartire da quel patrimonio etico e culturale che il cristianesimo ha costruito in Italia, riscoprendo l’atteggiamento evangelico del padrone di casa che «estrae dal suo tesoro cose nuove e cose antiche», aperti cioè a valorizzare tutto ciò che di buono ci ha consegnato la nostra storia ma anche il buono che hanno proposto o potranno proporre le altre identità culturali ormai presenti nel nostro Paese, paradossalmente facilitati in questa operazione proprio dal fatto che non esiste più un partito cattolico o dei cattolici, ma che l’identità cattolica è presente – o può esserlo – in tutte le forze politiche.
Già ordinario di Sociologia generale professore Alma Mater dell’Università di Bologna
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