@ - Potrebbe riunirsi già questa settimana per la prima volta — o comunque non molto più tardi — la cabina di regia politica per l’attuazione del Piano nazionale di ripresa e resilienza.
Gli addetti ai lavori lo chiamano Pnrr, quasi tutti gli altri lo chiamano Recovery. Eppure nella conversazione nazionale quel progetto da 191,5 miliardi di fondi europei e 528 precondizioni è quasi sparito, quasi che il grosso fosse negoziare l’accordo a Bruxelles e farsi approvare il mezzo migliaio di pagine del progetto iniziale. Quasi che l’intendance suivra, la parte esecutiva, sia destinata a fare il suo corso quasi in automatico. Senza troppi sforzi né patemi.
Le scadenze del 2021
Che in questi giorni si stia preparando la prima riunione della cabina di regia politica — guidata dal premier Mario Draghi, con il ministro dell’Economia Daniele Franco, quelli della Transizione ecologica e dell’Innovazione tecnologica Roberto Cingolani e Vittorio Colao e forse altri — dimostra che naturalmente non è così. Non può esserlo, data la densità dell’agenda. Non solo da oggi al 2026, anche da oggi alla fine dell’anno. Per poter presentare il primo rendiconto e ricevere dunque i sostanziosi versamenti della prima parte del 2022, in poco più di tre mesi all’Italia restano da soddisfare 42 delle 51 condizioni previste per quest’anno. È un’ampia gamma di misure, in gran parte normative, che include delicati passaggi parlamentari sulla legge delega di riforma della giustizia; una controversa revisione delle politiche attive del lavoro; una importante legge quadro sulle disabilità e una riforma universitaria. Argomenti sui quali, fuori dalle stanze di governo, quasi nessuno nel Paese si sta interrogando. In più ci sarà la legge delega sul fisco che Palazzo Chigi spera di approvare in settimana (forse diluendo o rinviando la parte controversa della revisione al rialzo delle valutazioni catastali) e il varo in Consiglio dei ministri della legge annuale di concorrenza, in questo caso dopo il secondo turno delle elezioni amministrative di ottobre.
La corsa dei 100 giorni
I prossimi mesi saranno senza sosta. Giorgio Musso dell’Osservatorio sui conti pubblici italiani, autore della migliore sintesi dell’agenda dei prossimi mesi, stima che le 42 condizioni da presentare a Bruxelles entro cento giorni sono quasi il doppio del numero medio per trimestre previsto dal Recovery dal 2022 in avanti. Solo alcune delle 42 sono misure semplici o burocratiche. Da notare tra l’altro come Bruxelles abbia ricordato in questi mesi un dettaglio passato, anch’esso inosservato in Italia: affrontare una riforma su un certo tema potrebbe non bastare, se poi nel provvedimento mancano alcuni degli elementi rilevanti concordati con la Commissione Ue. Bruxelles potrebbe evitare di vidimare la rendicontazione del semestre, impedendo la successiva richiesta di fondi. Quindi il riesame avverrebbe solo dopo altri sei mesi, con il rischio di generare ritardi sostanziali. Dunque l’organizzazione del lavoro nel governo conterà e sarà decisivo prevenire conflitti di competenze fra i molti centri di coordinamento del piano.
La governance
Sulla carta il rischio di attriti esiste. Al dipartimento della Funzione pubblica c’è l’Ufficio semplificazioni, che deve occuparsi di questa materia per tutti i progetti del Pnrr e per seicento procedimenti definiti “complessi”. Al Dipartimento per gli Affari giuridici e legislativi della presidenza del Consiglio è stata formata una nuova, parallela Unità per la razionalizzazione e il miglioramento della regolazione, sempre ai fini del Pnrr. Al ministero dell’Economia, che è il capofila di tutto il progetto e titolare dei rapporti con Bruxelles, coesistono poi due diverse strutture di coordinamento. C’è un Ufficio centrale affidato a Carmine Di Nuzzo, che ha un ruolo cardine e si concentrerà in particolare sulla rendicontazione dei fondi. Però esiste anche un’unità di missione formata durante il precedente governo e mai sciolta, che dovrebbe curare gli indicatori relativi al Recovery. Infine c’è la segretaria tecnica della Cabina di regia a Palazzo Chigi, con funzioni di indirizzo, coordinamento e impulso, e naturalmente il Dipartimento politiche economiche della presidenza. Insomma i protagonisti di questa complessa governance dovranno dedicare molta cura nell’evitare sovrapposizioni.
Parlamento senza soste
Anche perché l’agenda sarà senza sosta. Per il parlamento lo sarà per ora soprattutto sul fronte della giustizia, perché le relative leggi delega di riforma non sono chiuse. Sul penale c’è stata l’approvazione della Camera, ma non ancora del Senato, mentre sul civile entrambe le aule devono dare il loro via libera — con possibili battaglie in commissione — in vista dei decreti legislativi e attuativi per definire il contenuto specifico della riforma rispettivamente entro la fine del 2022 e la metà del 2023 (in sovrapposizione con la campagna per le elezioni politiche). Resta poi da capire un punto importante della riforma delle politiche attive prevista entro l’anno, con un budget di cinque miliardi di euro: la nuova Garanzia occupabilità dei lavoratori (Gol) prevede solo nuove assunzioni nei centri per l’impiego o un ripensamento di fondo di questa galassia di uffici che negli anni scorsi non ha funzionato?
La riforma universitaria
Per l’università è attesa una revisione delle classi di laurea, delle lauree abilitanti e dei dottorati. Infine arriverà la prova del nove per i tribunali e la pubblica amministrazione. Oggi scade il bando per i primi 500 laureati che dovrebbero lavorare ai progetti del Pnrr. Fra una settimana quello per l’assunzione triennale della prima infornata di ottomila collaboratori nell’Ufficio del processo: per loro esiste il rischio (teorico) di interruzione del contratto di lavoro, se l’Italia negli anni prossimi non centrasse gli obiettivi di accorciamento dei tempi della giustizia e Bruxelles fermasse i fondi. Il livello di adesione ai bandi sarà un primo segnale per capire se il Recovery decolla.
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