@ - Il capo del governo di Tripoli lo ha annunciato in un discorso alla tv: «Un nuovo governo porterà avanti la transizione»
Dopo cinque anni di lotte politiche e difficoltà estreme, Fayez Sarraj presenta le dimissioni. «Dichiaro il mio desiderio sincero di cedere le mie responsabilità al prossimo esecutivo non più tardi della fine di ottobre». Con queste parole pronunciate ieri sera alla televisione pubblica questo premier dall’aria spesso riluttante ad accettare il proprio ruolo ha dato l’annuncio: presto non guiderà più il governo di Accordo Nazionale a Tripoli.
Poche frasi, precise e pacate. È nel suo stile, lui ha sempre cercato di mostrare calma nel caos in cui è scivolato il Paese sin dalla fine della dittatura di Muammar Gheddafi nel 2011. «Spero che la commissione per il dialogo finisca il suo lavoro e scelga un consiglio presidenziale e un primo ministro», ha aggiunto.
Proprio il mese prossimo sono previsti colloqui a Ginevra per la formazione di un nuovo governo che sostituisca quello che era stato sponsorizzato dall’Onu. I dialoghi del resto erano già iniziati nelle ultime settimane tra Sarraj e Aguila Saleh, presidente della Camera dei Rappresentanti, di fatto il Parlamento di Tobruk che sta in competizione aperta con quello di Tripoli. Ma, proprio la settimana scorsa Abdullah al-Thinni, il capo del governo dell’Est, si è dimesso, paralizzando i negoziati.
Sono in particolare queste recenti evoluzioni a caratterizzare negativamente le dimissioni di Sarraj: non rappresentano l’ultima fase di un lavoro portato a termine con successo, ma una sorta di resa diluita da parte di un leader stanco e scoraggiato. Il suo volto alla televisione era tirato; ha parlato stando sulla difensiva, quasi a voler giustificare il suo gettare la spugna.
Il premier lascia il Paese nella confusione, mentre il generale Khalifa Haftar da Bengasi cerca di rilanciare l’opzione militare per conquistare Tripoli e le interferenze straniere si fanno sentire più ingombranti che mai.
Sarraj era stato fortemente voluto dall’Onu, con il pieno sostegno dell’Italia, durante i colloqui tenuti a Skhirat, in Marocco, nel 2015. Allora questo ingegnere (oggi 60enne) figlio di vecchi sostenitori della monarchia si era visto affidare il compito di mettere le mani nel puzzle libico per ricostruire il Paese. La sua debolezza era vista come un possibile punto di forza: non è un militare, non ha soldati propri e neppure alleanze tribali da garantire.
Ci si illuse che il suo essere estraneo alle fazioni potesse aiutarlo a smantellare le milizie. Non è stato così. Per difendersi dall’attacco militare lanciato da Haftar il 4 aprile 2019, Sarraj prima si è affidato alle milizie di Misurata e persino a quelle islamiche in Tripolitania, poi è dovuto ricorrere agli aiuti turchi. Erdogan ha così potuto giocare anche in Libia le sue mire neo-ottomane. L’Italia sino al 2018 era stata un suo fedele alleato. Ma ai tempi della conferenza di Palermo nell’autunno 2018 il sostegno italiano apparve meno netto, ondivago. Di recente la situazione è mutata. Però in Libia giocano ormai troppi attori regionali e internazionali.
Come ci aveva confidato più volte nel corso di varie interviste negli ultimi anni: Sarraj oggi preferisce andarsene, si sente un tecnico prestato alla politica. Tra gli astri emergenti a Tripoli c’è il suo ministro dell’Interno, Fathi Bishaga. Ma i giochi sono ancora tutti da fare.
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