mercoledì 19 agosto 2020

Romiti e quell’errore che non si perdonò mai: il «No» a Wojtyla non ancora Papa

@ - Cesare Romiti ha segnato la storia del Paese più volte. Vi ha impresso un suo sigillo personale. Lo ha fatto con la durezza del manager determinato, coraggioso, spregiudicato se necessario, ma anche con il tratto gentile di un uomo aperto, curioso, che non aveva mai accettato l’idea di poter invecchiare. Se n’è andato a 97 anni. Indro Montanelli, che fu suo amico, diceva che si comincia a morire dai piedi o dalla testa. «Costretto, preferirei la prima ipotesi» commentava il celebre giornalista alzando lo sguardo al cielo. Montanelli scrisse persino, nell’ultima notte, il suo necrologio. Romiti negli ultimi giorni era come una candela che si spegneva, dilatandosi. Era come se fosse tornato bambino, chiedendo della mamma e del papà. Lui che aveva fatto della sua imponenza fisica quasi la rappresentazione teatrale della managerialità, il marchio di una risolutezza rocciosa, non si piegava all’idea che le gambe non potessero più sorreggerlo, che il corpo non rispondesse più ai suoi comandi. «Ormai, dovrebbe andare in giro appoggiandosi sempre a un bastone — diceva già qualche anno fa il figlio Maurizio — ma non lo accetterà mai, sai com’è fatto». Cesare, il «Dottore» negli anni della Fiat, aveva una presenza statuaria che imprimeva di per sé soggezione. Lui era quello. Forte, duro. Ben piantato per terra.


I funerali dell’Avvocato
Quando morì l’avvocato Agnelli — con il quale condivise la lunga stagione alla guida di un gruppo un tempo glorioso e torinese — rimase in piedi per tutta la cerimonia funebre suscitando anche la garbata protesta della signora che era seduta dietro di lui. Non una signora qualsiasi. Era la moglie di Paolo Fresco, il manager della General Electric che lo aveva sostituito come presidente del Lingotto al compimento dei 75 anni. Un limite di età che lui, Romiti, avrebbe voluto cancellare con un tratto di penna se solo ne avesse avuto il potere. Diceva, con una punta di malizia, del suo elegante (e provvidenziale per le sorti dell’azienda) successore venuto dagli Stati Uniti: «Ha fatto una carriera eccezionale fino ad arrivare ad essere il numero due della General Electric». L’immagine nel Duomo di Torino gremito e silenzioso per l’ultimo omaggio al suo sovrano repubblicano mi è rimasta impressa come fosse l’ultima scena di una storia, quella della Fiat, ma non solo, che inesorabilmente si avviava all’epilogo. Romiti, solitario e altero, se ne stava in piedi. Instancabile. Tutti lo guardavano chiedendosi il perché di quel gesto («Era una consuetudine militare che condividevo con l’Avvocato» dirà in seguito). Era il 2003.

L’addio
Romiti non si rassegnò mai al ruolo del sopravvissuto, del testimone che vive solo di ricordi, ingigantendoli magari. O di rimpianti e rancori. All’epoca dell’addio all’Avvocato, era ancora presidente della Rcs, mio editore. Rimarrà alla guida della fondazione Italia-Cina, da lui fortemente voluta con l’intuizione di quale sarebbe stato il ruolo di Pechino anche quando la globalizzazione era agli albori, fin oltre i 90 anni. Ha continuato a dividersi tra Roma e Milano fino a qualche mese fa. A leggere, chiedere, informarsi con una curiosità quasi infantile. Ad aiutare chi ne aveva bisogno. Ma dei suoi gesti di beneficenza non voleva che se ne parlasse. L’ultima volta che andai a trovarlo, nella sua casa milanese, era imprigionato su una sedia a rotelle, della quale avrebbe voluto sbarazzarsi subito con un gesto dei suoi. Di solito mi accompagnava alla porta, passetto dopo passetto. Con militare senso della disciplina, grande fatica e un certo mio imbarazzo. Mi congedò restando seduto. Rassegnato all’immobilità. E mi sembrò un addio.

La Fiat
Romiti arrivò alla Fiat negli anni della crisi economica successiva allo choc petrolifero, del crollo del mercato dell’auto. E la risollevò. Veniva dalle partecipazioni statali, ovvero dall’impresa pubblica che poi avrebbe (anche ingiustamente) avversato. La Mediobanca di Enrico Cuccia ne impose il nome agli Agnelli. Con l’Avvocato si formò un sodalizio fondato sul reciproco rispetto e una doverosa distanza (si diedero sempre del lei). Tra i tanti ricordi dei primi anni da amministratore delegato di Corso Marconi (il trasferimento al Lingotto fu successivo) ne peschiamo uno solo. Il viaggio da Torino a Milano per chiedere l’aiuto delle banche. E un collaboratore con accento torinese che mostra tutta la sua sorpresa e una punta di vergogna. «Dottore, non l’abbiamo mai fatto». Piccolo o grande mondo antico. Se Agnelli distillava il suo pensiero su tutto, dalla politica al calcio, con arguzia e classe, Romiti interpretava con la massima determinazione il suo ruolo di capo azienda. All’occorrenza rude, prepotente. Conosceva la politica, i mille intrighi della Capitale nella quale era nato e della quale si sentiva orgogliosamente figlio (gli chiesero più volte di fare il sindaco). Una leadership naturale. Il numero uno della Fiat divenne presto il punto di riferimento — e successivamente l’ariete — di una imprenditoria intimidita dal potere del sindacato e dall’invadenza della politica (e pronta a a finanziarla se necessario) che verrà portata alla luce da Mani Pulite. Un’inchiesta che non risparmiò Torino. E lo coinvolse. Un capitalismo senza capitali, con famiglie imprenditoriali troppo deboli — e troppo a lungo protette da Mediobanca — si contrapponeva allo Stato imprenditore di cui erano azionisti i partiti. Ma ne reclamava le commesse, ne pietiva persino i favori. Romiti fu il capitano di ventura di questo esercito, a volte disperso e impaurito, al quale restituì, è il caso di dirlo, un po’ di carattere e dignità, pur continuando a coltivare tutte le relazioni di sottogoverno che servivano.

Il terrorismo
Negli anni Settanta e Ottanta, il terrorismo seminava morti quotidiane. Sembrava imbattibile. I brigatisti agivano nelle fabbriche, negli uffici, persino negli ospedali. Il sindacato non era ancora in grado di isolarli. La Fiat di Romiti prese il coraggio di fare 61 licenziamenti. In un clima da guerra civile altri voltarono lo sguardo. Temevano rappresaglie, che ci furono. Nell’ottobre del 1980, al culmine della lunga vertenza Fiat che paralizzò gli stabilimenti per oltre un mese, inflisse ai sindacati la più cocente delle sconfitte. E l’Italia cambiò. La marcia dei quarantamila (ma erano di meno) che chiedevano di tornare al lavoro, scosse il Paese. L’autorità tornava in fabbrica. Romiti raccontò poi che Pierre Carniti, segretario della Cisl, indispettito, gli disse: «Va bene, l’accordo lo scriva lei». Una manifestazione che il sindacato e il Partito comunista (Enrico Berlinguer davanti ai cancelli di Mirafiori non escluse l’occupazione) mai avrebbero immaginato sarebbe sfilata silenziosa per le vie di Torino. Spontanea? «Diciamo spintanea» mi confidò anni dopo. Governò il gruppo Fiat incontrastato. Opponendosi a Umberto Agnelli, che cordialmente detestava, cacciando Vittorio Ghidella, che di auto ne capiva più di lui. Per lunghi anni Confindustria (la Fiat ne uscì nell’era Marchionne) fu dominata da Torino. E Romiti ne decise le sorti anche quando non era più al Lingotto. Per esempio quando si produsse in una campagna a favore di Antonio D’Amato e contro Carlo Callieri che a Torino collaborò con lui per lunghi anni, soprattutto sul fronte del contrasto alle infiltrazioni terroristiche.

Via Solferino
Come editore della Rizzoli-Corriere della Sera fu rispettoso dell’autonomia del giornale. Era orgoglioso di esserne il presidente. Non condivise alcune posizioni del giornale e mie personali. L’euro non gli piaceva, per esempio. Con Silvio Berlusconi giocò di fioretto non trascurando di blandirlo quando serviva. Felice però che qualcuno ne contenesse l’esuberanza caratteriale e la smania di potere. La politica gli sarebbe piaciuta. Molto. Un po’ di invidia per il Cavaliere — che lo considerò sempre solo un manager seppur grande — veniva celata con una certa fatica. Del resto Berlusconi confessò che sul comodino teneva solo la foto dell’Avvocato. Un sottile derby di fioretto tra primedonne con una grande e ostentata passione comune per l’altro sesso. Errori ne commise. Con la generosa buonuscita della Fiat tentò di creare una sua dinastia industriale, portando a lavorare con sé i figli Maurizio e Piergiorgio. Non andò bene. Dovette lasciare Torino a 75 anni. Una scelta dolorosa. L’avvocato diceva che se anche la Chiesa, nella sua storia millenaria, si era data delle regole ferree sull’età, l’industria non poteva fare eccezioni. Romiti ebbe numerosi amici tra gli uomini di Chiesa. Ne coglieva il fascino (Gianfranco Ravasi e Carlo Maria Martini) ma confessava di non capirne le dinamiche di potere. Una volta, trovandosi in Polonia, chiese di vedere il primate. Il cardinale Wyszynski però non c’era. Gli dissero: «Se vuole incontrare il suo sostituto, un certo Wojtyla»? Romiti disse di no, non voleva perdere tempo. Non se lo perdonò mai.

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