martedì 4 agosto 2020

Land grabbing in Uganda, un caso di ingiustizia normalizzata

@ - Mentre il mondo intero è impegnato nel tentativo di contenere la pandemia di Covid-19, alcune multinazionali continuano imperterrite a sfrattare le comunità dalle terre in cui abitano, stravolgendo le loro vite e cancellando la loro sovranità. Il tutto per piantare monocolture, come la palma da olio e la canna da zucchero in Africa, o la soia Gm in Sudamerica. 

Paula Gonzales Thomas
p.thomas@slowfood.it
Traduzione di Marco Gritti
m.gritti@slowfood.it

Il fenomeno è noto come land grabbing e indica l’acquisizione di grandi aree di terra – tramite affitto, in concessione o anche come acquisto a titolo definitivo – da parte di società o stati, che in questo modo detengono i diritti sul terreno per lunghi periodi, mediamente per 49 anni. Sebbene il termine land grabbing sia noto, raramente si parla di come avvengano nella pratica gli sfratti e dell’impatto che questo fenomeno ha sulle comunità che perdono la propria casa.

Image credit Alberto Prina

La locuzione land grabbing in inglese, evoca la brutalità con cui si compie l’azione – il verbo to grab significa afferrare – In italiano, invece, potremmo parlare di appropriazione forzata della terra, sottraendola alle comunità che l’hanno abitata per centinaia, se non migliaia di anni. Questo accade in tutto il mondo, e dappertutto la terra fertile oggetto delle appropriazioni viene venduta o affittata a prezzi estremamente bassi.

Negli ultimi anni decine di milioni di ettari di terra sono stati ceduti per i più diversi scopi: per ospitare colture alimentari destinate all’esportazione, per la produzione di biocarburanti, per l’estrazione di risorse naturali o semplicemente per rivendere la terra come qualsiasi altra merce.

IL CASO DELLA FORESTA BUGOMA IN UGANDA
Lo scorso maggio è iniziata la deforestazione di 900 ettari della foresta di Bugoma, in Uganda: i lavori sono cominciati dopo la sentenza di un tribunale che ha stabilito che questo lembo di terra si trova al di fuori dell’adiacente area forestale protetta. Come spesso accade, l’impresa che si occupa dei lavori ha promesso un miglioramento della qualità di vita dei membri delle comunità; in verità si tratta di uno scontro che prosegue da tempo e che ha visto i contadini e le popolazioni indigene – circa cinquemila persone in totale – venire sfrattati con violenza dalla loro terra più volte negli ultimi 20 anni, mentre cercavano di difendere i propri diritti.

Campo di canna da zucchero. Photograph- Majority World:REX

La distruzione di questo pezzo di foresta compromette gravemente il complesso ecosistema della fauna selvatica, e mette a repentaglio anche la vita degli scimpanzé, una specie già in via di estinzione. Il land grabbing avrà gravi conseguenze anche sulla vegetazione e sulle fonti d’acqua, con il rischio di un effetto a catena fino al fiume Nilo

L’acquisizione di terreni in Africa è favorita dalle deboli norme sulla proprietà terriera che permettono ai governi di vendere o affittare la terra a società straniere per cifre importanti a livello di bilancio statale. L’Africa deve fare i conti con un alto rischio di appropriazione della terra, in virtù soprattutto dell’abbondanza e della varietà di risorse del continente e della ingente quantità di terra appetibile per l’agricoltura industriale monoculturale. 

L’Uganda, in particolare, negli ultimi decenni ha assistito a una crescita del fenomeno del land grabbing per via della ricchezza del proprio territorio e della disponibilità d’acqua, specialmente nei pressi del Lago Vittoria e in altre aree vicine alle riserve forestali del Lago Alberto. 

C’ERA UNA VOLTA
Per decenni il motivo principale del land grabbing in queste aree è stato l’agribusiness. Accadeva cioè che grandi appezzamenti di terreno venissero acquistati e destinati a colture redditizie come la canna da zucchero, l’olio di palma, il riso e il girasole, oppure per essere utilizzati per l’allevamento intensivo di animali. 

Il caso dell’olio di palma
Uno dei più grandi piani di sviluppo in Uganda è il Vegetable Oil Development Project: si tratta di un progetto lanciato dal Governo e finanziato a livello internazionali da partner del settore privato e da investitori asiatici. Il piano prevedeva che le foreste indigene delle isole di Bugala, nel distretto di Kalangala, e di Buvuma, nel distretto di Buvuma, venissero disboscate per poter mettere 10.000 ettari di terreno a disposizione delle piantagioni di palme da olio. A perdere la propria casa sono state 20.000 persone.

Archivio Slow Food

Oltre il danno, la beffa: quel progetto nasceva con l’obiettivo di «diminuire la dipendenza dalle importazioni», ma in verità l’olio di quelle palme negli ultimi due decenni è diventato un prodotto di esportazione. E intanto la sovranità alimentare delle comunità sfrattate è in grave pericolo. 

Canna da zucchero
Non c’è soltanto l’olio di palma tra i prodotti redditizi che spingono allo sfruttamento del terreno: una coltura spesso coinvolta in questi casi è la canna da zucchero. Emblematico il caso della foresta di Mabira (nel distretto di Mukono), dove fin dal 2007 le autorità hanno cercato di cedere una superficie pari a oltre 7.100 ettari a un’unica azienda che si occupi della produzione di zucchero. La mossa del governo ha favorito la deforestazione incontrollata e illegale in questa riserva naturale, che prosegue nonostante le resistenze della società civile e di alcuni membri del Parlamento.

Altre cause 
Oltre alla palma da olio e alla canna da zucchero, il land grabbing in Uganda è dettato anche da dinamiche. Già nel 1968, ad esempio, alcuni progetti di sfruttamento della terra per coltivare cipolle e girasoli cominciarono a interessare l’area del Lago Kyoga, mettendo a rischio la sopravvivenza di tremila famiglie abituate a vivere di pesca, allevamento del bestiame e pastorizia.

C’è poi il fenomeno del mercato di carbonio: si tratta di un meccanismo (il Clean Development Mechanism, stabilito dal Protocollo di Kyoto) che consente ai Paesi sviluppati di compensare le loro emissioni di carbonio acquistando crediti di carbonio da progetti nei Paesi in via di sviluppo. Che cosa c’entra questo con il land grabbing? C’entra eccome, perché spesso vengono create estese piantagioni di alberi esotici come pini o eucalipti in cambio di crediti di carbonio per le grandi imprese straniere. Novantanove organizzazioni civili di tutto il mondo hanno scritto una lettera aperta chiedendo che questo meccanismo venga sospeso, sostenendo che vi siano casi di violazione dei diritti umani. 

Un’altra causa ancora è quella legata alla compravendita dei terreni. In questo caso il fenomeno riguarda soprattutto gli imprenditori locali che, grazie alla vicinanza ai politici, acquistano terreni a basso prezzo dagli agricoltori per poi venderli a un prezzo molto alto.

Julie Ricard Unsplash

IMPATTO SU BIODIVERSITÀ, AMBIENTE E COMUNITÀ
Negli ultimi due decenni l’Africa è divenuta oggetto prediletto dei land grabbers, che con i loro affari minacciano seriamente l’ambiente, mettono in discussione la sovranità alimentare delle comunità locali e persino la loro stessa vita.

Cacciare le comunità rurali dalla loro terra, costringerle a entrare in un mondo dalle dinamiche complesse e dove non hanno voce in capitolo o potere, le rende vulnerabili, soprattutto quando non vengono messi a punto piani per il ricollocamento delle persone sfrattate né corrisposto un equo compenso per ciò che hanno perduto.

Le aree oggetto di land grabbing in Uganda e Kenya sono un serbatoio di biodiversità tropicale, conservano un’importante eredità culturale e rappresentano fonte di sostentamento alimentare per molte comunità. 
Chi sfratta gli abitanti di queste terre cancella questi valori e viola i diritti delle comunità, impedendo l’accesso ai pascoli, all’acqua, alle foreste e alle altre risorse naturali.
L’uso eccessivo di fertilizzanti e pesticidi nelle monocolture di canna da zucchero e olio di palma contamina le fonti d’acqua, il suolo e l’aria, compromettendo la salute e la sovranità alimentare delle comunità. 
I contadini sono costretti ad abbandonare i territori. Sono pochi gli abitanti delle zone rurali che sono in possesso di certificati di proprietà della terra in cui vivono, e per questa ragione spesso non possono chiedere un risarcimento per lo sfratto subito. 
Il fenomeno del land grabbing ha svariate conseguenze: provoca un impoverimento della biodiversità, determina la perdita di sicurezza alimentare, può provocare o aggravare eventuali conflitti culturali e incide sulla perdita delle tradizioni locali. Ne è un esempio la larva della palma rossa, localmente nota come massinya e tradizionalmente consumata dai membri di queste comunità in virtù delle eccellenti qualità nutritive, oramai pressoché scomparsa a causa dell’introduzione di piantagioni monoculturali che hanno sostituito le palme che la ospitavano.
Anche le comunità dei pescatori, di agricoltori e di coloro che si sostenevano grazie al turismo prima dell’introduzione delle piantagioni di palma da olio stanno subendo perdite importanti. I pescatori, dopo essere stati privati dell’accesso alle foreste e a causa dell’inquinamento causato dall’utilizzo di prodotti chimici agricoli, hanno difficoltà a trovare le materie prime indispensabili a costruire le proprie barche. 
Persino il patrimonio ittico si sta esaurendo: e così le comunità che vivono sulle sponde del lago fanno i conti con un notevole peggioramento della loro qualità di vita.

Julie Ricard Unsplash

Slow Food sostiene le iniziative che, come Save Bugoma Forests, si battono per i diritti e la sovranità delle comunità rurali e indigene. La nostra associazione è anche impegnata con altri stakeholder nella sensibilizzazione dell’opinione pubblica su questi temi, unendosi ad eventi come Save Bugoma Forests Kampala Run, organizzato da Run for Nature, un consorzio di attivisti impegnati contro la distruzione dei territori indigeni e degli ecosistemi naturali di cui fa parte Slow Food Uganda . 

Oltre alla campagna di sensibilizzazione internazionale, Slow Food lavora con le comunità – come i produttori dei Presìdi e le comunità degli Orti in Africa – le cui terre sono spesso oggetto dell’interesse speculativo dei nuovi colonialisti. I progetti in cui siamo impegnati rimarcano il nostro impegno verso il diritto alla sovranità alimentare e all’accesso a un cibo buono, pulito e giusto per tutti, puntando sullo sviluppo di un’agricoltura sostenibile e sulla salvaguardia delle tradizioni e delle conoscenze relative alla produzione alimentare.

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