giovedì 13 febbraio 2020

I Patti Lateranensi a 150 anni dalla breccia di Porta Pia

@ - Articolare risposte comporta anche una soggettività nuova da parte dei “cattolici, le loro associazioni e organizzazioni”, esplicitamente citati all’articolo 3. Interrogarsi sul perché di una sostanziale afasia, o di un rincantucciarsi solo su alcuni temi, può essere utile per invece aprire ad una nuova stagione, a nuove forme di una interlocuzione pubblica, aperta, dialogica e plurale, ma strutturata e organizzata, che tanto bene potrebbe fare. Per darsi una mossa e articolare risposte a troppe domande inevase che circolano nella nostra società.


Quest’anno la ricorrenza dei Patti Lateranensi (e della revisione del Concordato firmata nel 1984) tra l’11 e il 18 febbraio assume un significato particolare.
Non perché ci siano fatti nuovi o questioni conflittuali in agenda. Il tono delle relazioni tra Italia e Santa Sede è assai positivo. Ma perché coincide con un anniversario tondo, i centocinquant’anni della breccia di Porta Pia, ovvero la fine del potere temporale dei Papi e Roma capitale d’Italia.

Città, Roma, che nel 1929 è diventata capitale di due stati, con la costituzione della Città del Vaticano, uno straordinario unicum mondiale che Gerusalemme non riesce ad imitare.

È solo un fazzoletto di terra, meramente simbolico, per garantire, con l’attribuzione di una reale sovranità, l’autonomia e l’indipendenza del Papa e della Santa Sede, come sua struttura di servizio per la Chiesa nel mondo.
L’unità d’Italia, che si compie appunto centocinquanta anni fa, è un grande fatto italiano ed europeo, un evento “provvidenziale”, ha ripetuto Papa Francesco, citando i suoi predecessori, nel messaggio in occasione dell’apertura delle celebrazioni. E ha aggiunto: “Spesso la dimenticanza della storia si accompagna alla poca speranza di un domani migliore e alla rassegnazione nel costruirlo. Assumere il ricordo del passato spinge a vivere un futuro comune”.
In questo senso il processo iniziato nel 1870 si completa nel 1929, quando si chiude la “questione romana” con il riconoscimento di un quadro plurale, realizzando, a dispetto del totalitarismo fascista che si stava consolidando, un assetto originale e a suo modo “provvidenziale”, come disse a sua volta Papa Pio XI, che tra l’altro garantì la Santa Sede nei giorni plumbei della guerra.

Ma il passaggio decisivo, che ci porta all’impegno che oggi ci sta dinanzi, avviene con la Costituzione della Repubblica e il 1984.

Anche in modo prospettico può essere utile ricordare due articoli di quell’Accordo. Nel primo e fondamentale si afferma che Repubblica e Santa Sede, Stato e Chiesa si impegnano “alla reciproca collaborazione per la promozione dell’uomo e il bene del Paese”. Impegno che però non può essere solo una affermazione di principio. Prenderlo sul serio significa chiedersi cosa significa oggi promozione della persona e bene del Paese.

Cosa significa in termini concreti di politiche pubbliche, quelle attese per ridare spinta ad una società invecchiata e depressa.

Articolare risposte comporta anche una soggettività nuova da parte dei “cattolici, le loro associazioni e organizzazioni”, esplicitamente citati all’articolo 3. Interrogarsi sul perché di una sostanziale afasia, o di un rincantucciarsi solo su alcuni temi, può essere utile per invece aprire ad una nuova stagione, a nuove forme di una interlocuzione pubblica, aperta, dialogica e plurale, ma strutturata e organizzata, che tanto bene potrebbe fare. Per darsi una mossa e articolare risposte a troppe domande inevase che circolano nella nostra società.

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