martedì 7 gennaio 2020

Perché c’era così tanta gente al funerale di Suleimani

@ - C'entra il nazionalismo più che l'appoggio al regime, e non è una buona notizia per Trump.
Lunedì moltissime persone – milioni, ha detto la televisione di stato iraniana – hanno partecipato al funerale a Teheran di Qassem Suleimani, potente generale iraniano ucciso a Baghdad, in Iraq, nella notte tra giovedì e venerdì in un attacco compiuto dagli Stati Uniti. Le immagini e le testimonianze dei molti giornalisti presenti hanno fatto il giro del mondo: «La folla, mostrata in televisione riempire le principali strade della città, è stata la più grande vista in Iran dal funerale del fondatore della Repubblica Islamica, l’ayatollah Ruhollah Khomeini, nel 1989», ha scritto Reuters.

Folla al funerale di Qassem Suleimani a Teheran, Iran, 6 gennaio 
(Saeid Zareian/picture-alliance/dpa/AP Images)

L’enorme partecipazione al funerale di Suleimani a Teheran, preceduto negli ultimi due giorni da celebrazioni simili in Iraq e nella città iraniana di Ahvaz, potrebbe sembrare strana, vista la vicinanza del generale all’ala più conservatrice, aggressiva e intransigente del regime iraniano. Ci sono però delle ragioni che spiegano quello che sta succedendo, ed è utile tenerle a mente.
Come ha scritto sul New Yorker Dexter Filkins – il primo importante giornalista non iraniano a raccontare Suleimani con un ritratto lungo e completo, nel 2013 –, l’importanza del generale in Iran e in Medio Oriente era ormai nota da tempo.

Fin dalla fine degli anni Novanta, Sulemaini iniziò a stringere legami e alleanze con lo scopo di creare un Medio Oriente più favorevole all’Iran. Spinse gruppi e milizie amiche a uccidere o eliminare chiunque ostacolasse il suo progetto, promosse attentati terroristici, appoggiò regimi sanguinari come quello siriano di Bashar al Assad, e aiutò a organizzare l’uccisione di almeno un leader straniero – il primo ministro libanese Rafiq Hariri – e di centinaia di soldati americani.

Con la brutalità delle sue azioni si fece molti nemici, come hanno dimostrato le celebrazioni per la sua morte avvenute in diversi paesi del mondo arabo, in particolare tra i manifestanti antigovernativi iracheni che nelle ultime settimane erano stati massacrati dalle milizie sciite vicine alle Guardie Rivoluzionarie iraniane, il corpo militare a cui apparteneva Suleimani.

Un ragazzo al funerale di Qassem Suleimani a Teheran, Iran, 6 gennaio 
(EPA/ABEDIN TAHERKENAREH/ansa)

Domenica Hassan Hassan, analista ed esperto di Medio Oriente, ha sottolineato come negli ultimi giorni ci siano state diverse celebrazioni per la morte di Suleimani: «So che aveva nemici in alcuni paesi, ma l’appoggio all’operazione [degli Stati Uniti] è stato enorme e si è visto in tutta la regione. Più di quanto mi aspettassi».

In alcuni documenti riservati del ministero dell’Intelligence e della Sicurezza iraniano, pubblicati domenica in esclusiva dal sito The Intercept, è emerso inoltre come all’interno dello stesso regime iraniano ci fossero diversi funzionari preoccupati della brutalità mostrata da Suleimani, soprattutto durante la guerra combattuta contro l’ISIS in Iraq, nella quale le milizie sciite da lui appoggiate si resero responsabili di violenze sistematiche contro le popolazioni locali sunnite.
Come si spiega quindi l’enorme partecipazione al funerale di Suleimani nella capitale dell’Iran, paese che alle ultime elezioni aveva premiato il fronte più moderato guidato dal presidente Hassan Rouhani a scapito di quello più conservatore e aggressivo?


La prima cosa da tenere a mente è che Suleimani era molto popolare in Iran. Aveva servito il paese fin dalla guerra tra Iran e Iraq durata dal 1980 al 1988, cioè il conflitto grazie al quale si era consolidata la Rivoluzione khomeinista del 1979 e che è ricordato ancora oggi come uno dei momenti più importanti della storia recente iraniana (basta andare nelle strade di Teheran per rendersene conto, con gli slogan e i murales che ricordano i soldati uccisi nel conflitto, i “martiri”).

Negli ultimi anni, il regime iraniano aveva reso Suleimani una sorta di figura “leggendaria”, il comandante che era riuscito a mantenere al sicuro il paese, soprattutto dalla minaccia dell’ISIS, che le milizie guidate da Suleimani avevano combattuto in Iraq insieme all’esercito iracheno e alla coalizione internazionale guidata dagli Stati Uniti. Da allora la sua popolarità era cresciuta esponenzialmente.
Nonostante fosse considerato un conservatore, per le sue politiche aggressive e per la sua vicinanza alla Guida suprema, nel corso degli anni Suleimani non si era mai schierato apertamente da una parte o dall’altra della politica iraniana.

Ariane Tabatabai, esperta di Iran per la RAND Corporation, ha detto al New York Times: «[Suleimani] aveva una profonda e ampia rete di relazioni nel sistema iraniano, che gli permetteva di lavorare con tutti gli attori chiave». Aveva per esempio rapporti molto stretti con il ministro degli Esteri iraniano, Javad Zarif, considerato un moderato, e allo stesso tempo con Khamenei, a cui riferiva direttamente sul suo operato.
Azadeh Moaveni, scrittrice e analista iraniana per l’International Crisis Group, ha scritto: «[Suleimani] era diventato un patriarca per un paese alla deriva, perdonato, almeno dalle centinaia di migliaia di persone presenti al suo funerale, per i duri eccessi della forza militare che comandava. Aveva reso sicuro il territorio in un tempo di massacri dello Stato Islamico, era visto come un uomo d’onore e di merito in mezzo a politici che non erano nessuna delle due cose».

Negli ultimi anni, oltre alla popolarità di Suleimani, era cresciuto anche il nazionalismo iraniano, dovuto soprattutto all’atteggiamento sempre più ostile verso l’Iran mostrato dal presidente Donald Trump e culminato con il ritiro degli Stati Uniti dall’accordo sul nucleare, faticosamente raggiunto nel 2015 grazie all’impegno dell’allora presidente americano Barack Obama e del governo iraniano guidato dal moderato Rouhani. La decisione di Trump aveva dato nuovi argomenti alla fazione ultraconservatrice che all’accordo si era sempre opposta, e aveva rafforzato quel sentimento anti-americano che era già presente in ampi settori della società iraniana, e che arrivava da lontano.

Rasmus Elling, studioso dell’Iran all’Università di Copenhagen, ha scritto che le «storiche» immagini trasmesse da Teheran lunedì mostrano una forte unità nazionale, ma non necessariamente un appoggio «all’ideologia della supremazia religiosa o della politica ufficiale del regime». Elling, così come diversi giornalisti, per esempio Sune Engel Rasmussen del Wall Street Journal, ha scritto inoltre che non si può ridurre le folle per i funerali di Suleimani alla politica del regime di “forzare” la gente ad andare in piazza, una pratica già vista in passato: «Una folla così è molto più grande di qualsiasi cosa che lo stato possa “organizzare” o “forzare”», ha scritto Elling riferendosi alle celebrazioni di ieri ad Ahvaz.

La morte di Suleimani è stata descritta come un fatto riprovevole da praticamente tutte le fazioni politiche iraniane, e anche dai giornali meno legati all’élite conservatrice, che hanno parlato di «dolore inconcepibile». «È questo il destino di tutti gli illustri discendenti di questa terra, al di là del loro pensiero e della loro appartenenza?», ha scritto lo scrittore Mahmoud Dowlatabadi, spesso censurato dal regime. Dowlatabadi ha descritto Suleimani come l’uomo che «ha costruito una diga potente contro i massacri dell’ISIS e ha reso sicuri i nostri confini dalle brutalità del gruppo».

Molti di quelli che in questi giorni stanno criticando il governo americano per avere ucciso Suleimani citano come possibile conseguenza dell’attacco un ulteriore rafforzamento del nazionalismo in Iran, e delle élite più conservatrici e aggressive
Questo non significa che le grandi proteste antigovernative che si erano viste nel paese a novembre spariranno del tutto, ma gli ultimi sviluppi potrebbero dare tra le altre cose una scusa al regime per intensificare la repressione verso i dissidenti e i critici.

L’Iran non ha ancora risposto all’uccisione di Suleimani. Ha promesso di farlo, minacciando direttamente e più volte gli Stati Uniti, ma non si sa se e quando succederà. Intanto «il lutto per la morte del generale si può considerare il primo atto di ritorsione dell’Iran, uno straordinario funerale di stato di quattro giorni non in uno, ma in due paesi diversi», ha scritto la scrittrice iraniana Azadeh Moaveni.

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