@ - La concessionaria nel decennio ha dedicato agli interventi per la sicurezza il minimo previsto dalla convenzione con lo Stato. Mentre i ricavi e le cedole lievitavano. Secondo lo stesso ministero dell'Economia, "la disconnessione delle tariffe ai costi, oltre a rappresentare un evidente vantaggio per le concessionarie, costituisce un forte incentivo alla non effettuazione o al rallentamento degli investimenti".
“Si vendono come un favore una cosa che dovrebbe essere la normalità. Ci vengono ad annunciare che faranno un grande piano di investimenti e di manutenzione che già dovevano fare. Cosa avete fatto fino ad oggi?”. La risposta alla domanda retorica del viceministro Stefano Buffagni ad Autostrade per l’Italia sta in pochi numeri. Che colpiscono particolarmente nelle ore in cui il numero uno del gruppo, nel tentativo di evitare la revoca della concessione, rivendica come il nuovo piano strategico 2020-2023 preveda un aumento delle spese in manutenzione “del 40% rispetto al quadriennio precedente”. Il fatto è che tra 2009 e 2018, mentre vedeva i ricavi salire da 2,9 a 3,6 miliardi, Aspi ha dimezzato i propri investimenti sulla rete, passati da 1,1 miliardi a poco più di 500 milioni. Nel frattempo anche le spese per la manutenzione e la sicurezza di strade, ponti e viadotti declinavano, seppure di poco: da 464 a 363 milioni. Ad aumentare – e di molto – in quel decennio sono stati invece i dividendi versati agli azionisti della società.
A mettere in fila i numeri è stata l’area Ricerche di Mediobanca per Il Sole 24 Ore. Facendo le somme, si scopre che nei dieci anni precedenti il crollo del ponte Morandi i soci di Aspi – a partire dalla controllante Atlantia di cui la famiglia Benetton attraverso la holding Edizione è primo socio – hanno incassato più di 6 miliardi di dividendi (la stragrande maggioranza degli utili realizzati). Dai 485 milioni del 2009 le cedole sono salite a oltre 740 milioni nel 2017, quando sono anche stati distribuiti 1,1 miliardi di riserve. Per il 2018, l’anno del crollo viadotto Polcevera, è invece stato staccato un assegno di 518 milioni: comunque più di quanto speso per riparare e tenere in sicurezza le infrastrutture affidate.
Nel frattempo a manutenzione e sicurezza sono stati dedicati circa 4 miliardi: in media 400 milioni l’anno. Cifra, questa, che risulta perfettamente in linea con il minimo previsto dalla convenzione con lo Stato, che però ricorda Il Sole, richiede anche che il concessionario mantenga la funzionalità delle infrastrutture “attraverso la manutenzione e la riparazione tempestiva“. Stando ai crolli e ai problemi di sicurezza emersi nell’ultimo anno e mezzo, appare evidente che non tutto il necessario è stato fatto. Peraltro se si allarga lo sguardo al periodo 2000-2017 la spesa media annua cala ulteriormente, a circa 270 milioni.
Grafico del Sole 24 Ore
Del resto l’incentivo a sostenere costi superiori al minimo previsto era quasi inesistente per effetto del contenuto stesso delle concessioni. Il ministero dell’Economia non a caso ha rilevato che la “disconnessione delle tariffe ai costi, oltre a rappresentare un evidente vantaggio per le concessionarie, costituisce un forte incentivo alla non effettuazione o al rallentamento degli investimenti. Infatti, quando le tariffe sono indipendenti dai costi e, quindi, dagli investimenti, a minori investimenti e manutenzione corrispondono maggiori profitti per le concessionarie”. Non solo: come evidenziato dalla Corte dei Conti in un recente rapporto ad hoc, la convenzione tra lo Stato e Aspi prima della modifica introdotta con il Milleproroghe prevedeva – in deroga al codice civile e al codice dei contratti – che in caso di revoca il concessionario avesse comunque diritto a rilevanti penali. E subordinava “l’efficacia del recesso, revoca, risoluzione e, comunque, di cessazione anticipata della convenzione” alla “condizione del pagamento da parte del concedente alla concessionaria di tutte le somme previste”.
Quanto agli investimenti nello sviluppo della rete, il progressivo calo e il fatto che si siano fermati su livelli inferiori a quelli previsti dalle convenzioni del 2002 e del 2007 dipende anche dal ritardo nell’avvio di opere come la Gronda di Genova e, secondo l’Aiscat, da altri fattori esterni come “incertezze normative, abnormi tempi di approvazione dei progetti, nonché, da ultimo, lo stallo relativo all’approvazione dell’aggiornamento dei piani economico-finanziari”. Quale che sia la causa, secondo l’ultima relazione della direzione generale per la Vigilanza sulle concessionarie del ministero dei Trasporti, tra 2008 e 2016 Autostrade ha realizzato solo l’82% degli investimenti previsti.
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