@ - Al Meeting l'ambasciatore dell'Ue in Africa invita a sfruttare le opportunità che arrivano dalla creazione dell'area di libero scambio. La sicurezza? «Molte aree si stanno stabilizzando rapidamente»
Nel nostro futuro non ci sono solo De Gasperi, Adenauer e Schumann, ma anche Nasser, Nkrumah e Nyerere. E naturalmente Thabo Mbeki, ideologo dell’Unione africana. Alle porte dell’Europa sta nascendo infatti un nuovo mercato unico che può cambiare radicalmente il nostro punto di vista sullo sviluppo. E il ruolo delle imprese italiane ed europee. Ci sta lavorando la diplomazia dell’Unione: «Se fossi un imprenditore italiano inizierei a posizionarmi in Africa» dice senza esitazioni Ranieri Sabatucci, ambasciatore dell’Ue all’Unione africana. C’è un clima di grande fiducia intorno all’accordo continentale africano di libero scambio (AfCFTA), che creerà in pochi anni un’Africa senza dazi, ma permetterà anche una maggiore mobilità di persone e cose. Due anni di negoziati hanno posto le basi per un mercato unico di un miliardo di persone e oltre due miliardi di dollari di Pil. «Non pensiamo agli automatismi e ai vincoli dell’Europa» avverte il diplomatico, ma i Paesi che fanno parte dell’accordo dovranno ridurre il 90% dei dazi sui prodotti importati da altri Stati africani. Un balzo, in termini di competitività.
Quant’è sicuro il mercato africano per un’azienda europea?
Esistono differenze sostanziali tra l’Ue e l’Unione africana e quindi tra i loro mercati integrati – risponde l’ambasciatore, in visita al Meeting di Rimini – perché alla seconda mancano alcuni strumenti monetari e istituzionali che l’Europa si è data in questi decenni; tuttavia, sono più forti e determinanti di noi nelle operazioni di pace, tant’è che agiscono dove l’Onu non riesce a intervenire e dove, come in Somalia, hanno fallito persino eserciti collaudati come quello statunitense. Sul piano commerciale, ci sono aree ancora da stabilizzare, come il Sahel e la Libria, ma altre che stanno stabilizzandosi rapidamente.
Ad esempio?
Il Sudan in due mesi è cambiato radicalmente, proprio grazie all’Unione africana che sta imparando a usare gli strumenti economici e diplomatici per 'imporre' la transizione democratica a chi era abituato a risolvere i conflitti politici con i massacri.
Cosa muove i Paesi africani a cambiare così radicalmente lo scenario continentale?
Un imperativo storico e morale, il panafricanismo. Per molto tempo si è mantenuto l’impianto coloniale, la divisione in Stati disegnati sulla cartina geografica piuttosto che sulla cultura e sull’economia dei popoli, ma ora c’è una forte spinta, sulla scorta del messaggio politico dei Nasser, dei Nkrumah e dei Nyerere, a riunire le popolazioni africane. Si tratta di un’integrazione diversa dalla nostra, perché in quell’area il territorio non è un fattore identitario, ma gli africani guardano con attenzione e simpatia all’Europa che può capire questo movimento centripeto più e meglio di altri.
Qual è l’atteggiamento degli africani per i cinesi?
Meno ostile di quello che disegnamo noi. Gli africani, legittimamente, vogliono decidere da soli con chi fare gli affari e l’Europa è ben posizionata, non ha bisogno di far cattiva pubblicità agli altri.
Non è ancora alto il rischio terrorismo?
Il panafricanismo lavora da tempo contro l’estremismo, come ha dimostrato combattendo Al-Shabbaab e Boko Haram.
In quanto tempo si realizzerà questo mercato unico?
Ci vorrà qualche anno, ma non qualche decennio.
Quindi è ottimista?
Ci sono decine di paesi coinvolti e decisi a realizzare questo progetto. Non esserlo, cioè non vedere le opportunità per tutti sarebbe stupido. Non si dimentichi che parliamo di un continente immenso alle nostre porte, con 1,2 miliardi di persone e tassi di crescita impensabili in Europa.
Il mercato unico africano tratterrà sul territorio anche i migranti che oggi fuggono verso l’Europa?
L’opinione pubblica europea è molto sensibile a questo tema, ma non si rende conto che già oggi l’80% dei migranti africani resta in Africa, cioè si sposta da un paese all’altro ma non viene in Europa. Ovviamente, con un maggiore sviluppo ci sarà più lavoro e meno fuga di cervelli e di braccia, un esodo che danneggia anche i Paesi africani e che i loro governi vorrebbero interrompere.
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