@ - God save the Pil. Per la prima volta dalla fine del 2012, la Gran Bretagna consuma il divorzio dalla crescita e vede aleggiare sopra la propria testa lo spettro della recessione.
Cattive notizie da Londra che assumono un carattere ancora più sinistro nel giorno in cui Donald Trump assesta un altro colpo all'economia globale e ai mercati (giù l'Europa, dove lo Stoxx 50 ha perso lo 1,2%, e debole Wall Street) ricordando che l'America «non è pronta a un'intesa commerciale con la Cina», né a concedere alle imprese Usa licenza per riprendere a far affari con la «bannata» Huawei. Venti di guerra con Pechino rafforzati dalla possibilità, ha sottolineato il tycoon, che venga annullato il previsto meeting di settembre coi rappresentanti del Dragone.
Mentre Trump tracima, l'Union Jack si prosciuga. Il secondo trimestre racconta di una contrazione dello 0,2% dell'economia inglese, dolorosa non tanto per l'entità quanto perché inattesa. L'accelerazione del deterioramento dà la misura del peso che stanno avendo le incognite legate alla Brexit su imprese e consumatori. Le prime hanno smesso di investire e ridotto le scorte, in una sorta di paralisi auto-inflitta che ha fatto calare fra aprile e giugno la produzione dell'1,4%; gli altri blindano i portafogli, rimandando a tempi migliori gli acquisti più impegnativi per i bilanci familiari. È un po' come se un intero Paese stesse declinando in chiave pessimistica il mediceo «del doman non v'è certezza» essendo appeso a un filo a forma di punto interrogativo. Quello sull'uscita del Regno dalla Comunità europea. Il premier Boris Johnson tiene il piglio di quelli privi di mezze misure: costi quel che costi, intende tagliare il cordone ombelicale con Bruxelles il prossimo 31 ottobre, incurante dei caveat sulle conseguenze di un leave senza accordo.
Il governo May aveva stimato in oltre il 9% la perdita del prodotto interno lordo nei prossimi 15 anni a causa di un'uscita non consensuale, mentre in base ai calcoli dell'università belga di Leuven i posti di lavoro che andrebbero in fumo sarebbero oltre 500mila; Bloomberg aveva inoltre previsto un ulteriore crollo della sterlina del 13% in caso di recessione.
Più che la corona, e quell'incongruo complesso di superiorità verso il continente, qui c'è da salvare un Paese dalla crisi nera. Anche perché le previsioni finora circolate non tengono ancora conto del generalizzato, e sempre più rapido, rallentamento della congiuntura internazionale. L'intera Europa, per esempio, sembra flirtare più con la recessione che con la crescita. L'8% in meno di export della Germania su base annua in giugno, è l'ennesimo campanello d'allarme. L'Italia, già a crescita zero e impantanata nella crisi di governo, rischia di essere la prima a scivolare in recessione tecnica. E gli altri Paesi dell'Ue certo non scoppiano di salute.
La Bce, infatti, come ha annunciato Mario Draghi, è pronta a intervenire. La Bank of England, invece, tentenna. Un gioco pericoloso nel bel mezzo della trade war Usa-Cina e della battaglia personale combattuta da Trump con la Federal Reserve. The Donald, probabilmente galvanizzato dai dati sui prezzi alla produzione saliti in luglio appena dell'1,7% (con un calo dello 0,1% di quelli al netto di energia e alimentari), ha dettato ieri il ruolino di marcia a Jerome Powell, dal quale pretende un taglio dei tassi di un punto percentuale entro la fine dell'anno perché «la Fed sta ammanettando la nostra economia». Sarà un agosto molto caldo.
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