@ - Al via la battaglia sulla perizia: decisiva l’analisi del reperto 132. Secondo l’accusa, la causa del disastro è la mancata manutenzione: «È come un’auto alla quale non è mai stato fatto il tagliando». La difesa parla invece di una combinazione accidentale di eventi sfavorevoli.
I fili corrosi, il tirante della pila 9 che non regge, si stacca e il ponte che in tre secondi collassa. Oppure, ma con una probabilità inferiore, il cedimento della strada, tecnicamente un impalcato a cassone vecchio e affaticato da oltre mezzo secolo di vita e di carichi crescenti, traffico, cementi, ferro. «Il ponte Morandi è crollato perché non ce la faceva più a stare in piedi», ha sintetizzato l’immaginifico procuratore Francesco Cozzi snocciolando metafore: «È come se un’automobile giunta all’ultimo stadio non avesse fatto il tagliando generale».
Cozzi ci gira intorno ma il centro è quello: mancate manutenzioni e controlli. Ed è la ragione per cui ha iscritto 71 persone e due società nel registro degli indagati. Ci sono dentro amministratori, manager e tecnici di Autostrade per l’Italia (Aspi) e Spea del gruppo Benetton che dovevano gestire e manutenere il ponte, ma ci sono anche dirigenti e funzionari del ministero delle Infrastrutture che avevano il compito di controllare il gestore, e pure di Anas, la società pubblica che gestiva il ponte prima che passasse in mani private. Così, dunque, l’accusa. «Non sono gli stralli la causa primaria del crollo, non è la corrosione, i difetti del ponte derivavano dalla costruzione e non erano tali da comprometterne in alcun modo la tenuta — replica con forza Autostrade per l’Italia — si rigetta, dunque, in toto ogni accusa generalizzata di mancanza di manutenzione».
Ma se non c’è stato un cedimento strutturale, cosa può aver causato il crollo?
«È stata una combinazione accidentale di eventi sfavorevoli», ipotizza Giuseppe Mancini, il coordinatore dei consulenti di Aspi, ingegnere strutturista, docente di tecnica delle costruzioni e di teoria e progetto di ponti al Politecnico di Torino. Mancini dice di averla un’idea su quel che è successo ma di non volerla rivelare. Si era parlato di una bobina d’acciaio caduta da un camion poi precipitato, del maltempo che la mattina del 14 agosto imperversava su Genova, del vento anomalo, dei fulmini. Se così fosse, naturalmente, le responsabilità del gestore e dei controllori verrebbero fortemente ridimensionate.
Accusa e difesa, due posizioni opposte. C’è poi il giudice Angela Maria Nutini con i suoi periti che di recente hanno depositato un documento, questo naturalmente super partes, nell’ambito dell’incidente probatorio sullo stato di conservazione del ponte e le manutenzioni eseguite. L’attenzione si è focalizzata sul reperto 132, la parte terminale di uno dei quattro stralli della pila 9, quello a Sud verso Genova. Per l’accusa potrebbe essere la prova regina. «Il numero dei fili senza corrosione era praticamente trascurabile... L’ultimo significativo intervento di manutenzione risale a 25 anni fa», hanno concluso i periti. «Dal ‘94 non è mai emerso lo stato di corrosione del reperto 132 — ha risposto Aspi —. In ogni caso la presenza di trefoli corrosi tra il 50 e il 100% era ridotta è non può aver avuto alcun effetto sulla capacità di portata del ponte». Botta e risposta, tutto e il contrario di tutto.
D’altra parte gli interessi in gioco sono enormi. Un gigantismo confermato dall’indagine della procura: due magistrati esperti impiegati a tempo pieno, Massimo Terrile e Walter Cotugno, con un gruppo di uomini della Guardia di Finanza guidato dai colonnelli Ivan Bixio e Giampaolo Lo Turco; oltre cento gli avvocati, 120 i periti, 75 i testimoni sentiti come persone informate sui fatti. Il tutto mentre venivano eseguiti una trentina di sequestri e perquisizioni che hanno portato all’acquisizione di una quantità immensa di materiale, confluito in due stanze della procura, una piena di carte e l’altra piena di fili e strumenti elettronici, con un cervellone informatico che cerca di far luce nella giungla di 6,3 terabyte di materiale informatico. Ci vorrà del tempo per arrivare a un risultato. «Intanto una cosa la posso dire — chiude il procuratore Cozzi —: essendo io di natura cauto se non proprio pauroso, se avessi saputo tutto quello che ho scoperto in questi dodici mesi, probabilmente per venire al lavoro avrei fatto l’Aurelia, non il Morandi».
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