@ - L’uscita dal Trattato Inf: analogie e differenze con la crisi degli euromissili nel periodo della guerra fredda. La corsa al riarmo nucleare va fermata, pur restando fedeli all’Alleanza atlantica.
Visitatori guardano il missile balistico tattico russo OTR-21 Tochka-U (a sinistra), il lanciarazzi multiplo 122mm (secondo da sinistra), il missile balistico tattico 9K720 Iskander-M (al centro)
e il lanciarazzi multiplo 300mm BM-30 Smerch (destra) durante
una esibizione militare a Luga,
fuori San Petersburg, Russia, il 9 settembre 2017
Passa quasi sotto silenzio in Europa la fine del Trattato Inf sui missili nucleari a media gittata. Presi dalle loro ossessioni recenti e non più capaci di lavorare assieme, gli europei non si stanno rendendo conto di essere ripiombati in un vecchio clima da guerra fredda nel quale hanno solo da perdere e niente da dire. La questione degli euromissili rende di fatto l’Europa continentale il terreno di scontro tra Usa e Russia, come accadeva prima del trattato tra Usa e Urss. Un teatro di possibile conflitto anche nucleare, dopo il dispiegamento dei missili russi S-400 in Turchia e la reazione americana che ha denunciato l’accordo del 1987. Ma l’Europa è afona: non discute con Washington, non sa farlo con Mosca, non ha più leve ad Ankara e così via. Non si tratta solo di una crisi italiana: è la crisi europea della politica estera. Infatti non se ne fa più (di vera, di strutturata) da vari anni. L’egocentrismo europeo ha travolto tutto: i governi si sono rintanati (chi più, chi meno) nella politica interna (delle migrazioni, della cittadinanza, del sovranismo…), litigando fra di loro senza rendersi contro che qualcosa era ormai cambiato mettendoci tutti in pericolo.
Con la fine del Trattato sugli euromissili siamo più esposti e più deboli: siamo alla mercé degli altri come già la guerra in Ucraina faceva da tempo intravvedere. Basta tornare agli anni Ottanta per rendersi conto della differenza: quella 'crisi degli euromissili' aveva visto ben altra qualità di intervento dei governi europei. Sovietici e americani si stavano sfidando a colpi di testate atomiche. Dalla metà degli anni Settanta il leader del Pcus Breznev, consolidando la sua politica aggressiva già impostata in Africa con gli interventi nel Corno e in Angola, aveva dislocato al suo confine missili a medio raggio puntati sulle capitali europee.
Esattamente come ora con gli S-400 e altri sistemi d’arma. Così l’Europa territoriale, già conscia di essere destinata a terreno di urto convenzionale tra le due superpotenze (si pensi alle forze corazzate sovietiche), diveniva anche un possibile luogo di guerra nucleare. Non bastava certo la limitata 'force de frappe' francese a contenere tale eventualità. Gli allora leader europei reagirono: Giscard prima e Mitterrand poi, ma soprattutto Helmut Schmidt e altri premier presero l’iniziativa. Da parte italiana la Dc e il Psi di Craxi giocarono su tale dossier un ruolo politico significativo. Da una parte fu concesso agli Usa di istallare simili missili a medio raggio in Europa (Pershing e Cruise) per riequilibrare gli SS-20; dall’altra iniziò un complesso negoziato a fasi, con l’obiettivo finale del ritiro di entrambi i dispiegamenti. L’Europa faceva il suo gioco: non terra di scontro ma nemmeno resa ai sovietici.
La società europea reagì anch’essa con forza: nella memoria collettiva la 'crisi degli euromissili' coincide soprattutto con una nuova spinta del movimento per la pace con molte manifestazioni di piazza. A Roma fu l’ultimo caso di spaccatura tra il Pci e le altre forze democratiche: nacque su tale impulso il Pentapartito, il nuovo centro-sinistra che governò l’ultima fase della Prima Repubblica. Il Pci si erse, invece, contro i missili Usa e cercò senza successo di rinverdire (con poche eccezioni al suo interno) una 'narrazione pacifista alla sovietica'. Si trattava cioè di denunciare soltanto la presenza degli euromissili americani sul nostro suolo (vi ricordate Comiso?) cercando una impossibile via di 'neutralità' tra i due blocchi. Era ciò che voleva Mosca.
Ma Craxi posizionò decisamente il Psi in campo occidentale e consentì la nascita di una maggioranza di tipo nuovo (il pentapartito appunto) che non si rifaceva al vecchio schema di centrosinistra (la precedente apertura della Dc di Moro e Fanfani al Psi di Nenni) ma a un nuovo modello politico moderno. Il Psi di Craxi cercava una via socialista autonoma legandosi alla Spd tedesca e al Ps francese. Liberò così definitivamente i socialisti italiani dal loro 'complesso' nei confronti dei cugini comunisti. Psi e Pci, che pure governavano assieme le 'regioni rosse', divennero da quel momento totalmente alternativi. Con Carter fu presa la decisione di riequilibrare la sfida russa, portata poi a termine da Reagan. Un tentativo fu fatto a metà dispiegamento con la famosa 'passeggiata nei boschi' tra negoziatori sovietici e americani, ma senza successo. La crisi terminò solo con Gorbaciov e la firma del Trattato ora disconosciuto.
Ciò che è importante ritenere oggi di quella storia fu l’atteggiamento dei leader europei: essi non accettarono la cosiddetta 'finlandizzazione', cioè un atteggiamento impaurito e remissivo nei confronti di Mosca, ad esempio vietando o limitando lo schieramento dei Pershing e dei Cruise americani. Ma al contempo lavorarono alacremente sui due fronti per creare le condizioni dell’accordo possibile tra le superpotenze. Fu un atto di coraggio politico compiuto dalle sinistre socialiste e socialdemocratiche europee assieme alle forze di stampo democristiano e laico. Non è un caso che quel periodo di inizio anni Ottanta fu anche un momento di grande propulsione europeista: dal Consiglio di Milano dell’83 all’Atto Unico del 1986 è scaturito tutto ciò che abbiamo costruito assieme in seguito fino alla Ue. Fu quello parimenti un momento di grave isolamento politico del Pci e di altre forze simili, che provocò in Europa la fine dell’esperimento 'eurocomunista' (portato avanti in quegli anni in Italia, Francia e Spagna) e da noi segnò anche l’epilogo del lento avvicinamento tra Pci e Dc. Craxi denunciò il dubbio 'neutralismo' dei comunisti i quali avevano abbandonato le posizioni pregiudiziali contro il processo di integrazione europea, ma ancora restavano ambigui sull’Alleanza atlantica.
Questa storia ci insegna che per l’Europa la politica estera non è un lusso ma una questione di sopravvivenza, politica e non solo. Essere proattivi ed esserlo assieme è assolutamente necessario se non vogliamo lasciarci fare dagli altri. Invece di litigare tra loro su questioni minori o di fare gli occhi dolci al leader autoritario di turno (magari cercando qualche soldo, atteggiamento davvero miserrimo e disonorevole), gli europei dovrebbero sapere che nessuno li aspetta e che le altre potenze sono pronte a mangiarseli. In parole semplici: in nome dell’Alleanza atlantica occorre parlare tutti assieme con sincerità e autorevolezza con l’alleato americano; ma è necessario altresì chiarire le ambiguità con la Russia di Putin; è urgente infine riprendere una iniziativa politica comune in Medio Oriente e Nord Africa per non farci umiliare da Turchia, Iran, Siria, Egitto o dai signori della guerra libici. Tale appello è rivolto in egual misura a Berlino, Madrid, Parigi, Roma e agli altri (e magari anche a Londra se solo si svegliasse dall’incubo Brexit). Nessuno pensi che sia colpa soprattutto di qualcun altro: è nostra colpa collettiva. In caso contrario addio Europa e addio Stati membri: siamo pronti a ridurci uno dopo l’altro come delle colonie, magari di lusso.
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