sabato 2 febbraio 2019

Avvenire.it
Storia e missioni. L'avamposto “rosa” di don Bosco in America del Sud.
A inizio '900 sei religiose italiane, tra 17 e 25 anni, partirono in piroscafo e dopo 21 giorni approdarono nella profonda Argentina, là dove finiscono le Ande, per evangelizzare quei popoli.
«Là nell’estrema Argentina, dove finiscono le Ande, vissero, insegnarono, evangelizzarono, soffrirono la fame e la consunzione. E morirono». 


Incrociamo queste parole nelle prime pagine e sono quasi un’epigrafe, capace di spiegare tutto attraverso la brevitas del giornalista di razza. Nicola D’Amico, con 53° parallelo (Franco Angeli, pagine 172, euro 21) ci racconta infatti una storia sconosciuta di «Vangelo, libri e telai», attraverso la scelta di fede e di vita di sei ragazze italiane. La più giovane, all’epoca, ha diciassette anni; la più vecchia ne ha venticinque. Dopo ventuno giorni di navigazione sul piroscafo Savoie, sbarcano nell’America del Sud che in quel periodo accoglie migliaia di nostri connazionali. Loro sono dirette al di là della Pampa, in quelle «terre alla fine del mondo» ancora sconosciute e distanti migliaia di chilometri persino dalla lontanissima Buenos Aires. Ma loro sono suore salesiane. Figlie di Maria Ausiliatrice, la congregazione femminile fondata da don Bosco. «Erano le forze speciali dell’inerme ma efficientissimo esercito salesiano» ricorda l’Autore, che è stato inviato del “Corriere della Sera“ e direttore del “Tempo” e ci offre un saggio romanzato nello stile ma impeccabile nella ricostruzione storiografica. Con la prefazione, suor Lauretta Valente, che ha affiancato D’Amico nel recupero dell’affascinante storia di queste religiose che dedicano la vita alla formazione professionale, ci spiega perché i salesiani riuscirono dove i gesuiti – espulsi nel Settecento – avevano fallito: «L’impronta sociale dell’opera salesiana, diversamente dall’impianto gesuitico, non fu mai competitiva con la realtà storica. L’operare, nell’accezione di don Bosco, è contestuale al significato religioso» e formare il buon cristiano comporta il formare il buon cittadino, senza che ciò significhi annacquare il significato politico dell’opera, giacché, come sosteneva suor Angela Vallese, una delle protagoniste di questa storia, «un grosso fatto spirituale di per sè è anche un fatto politico». E lo stesso don Bosco rispondeva ai critici «Io faccio politica».

Trovare le vie del dialogo e ottenere, come avvenne a Patagones, che i capifamiglia indi richiedano il laboratorio per adolescenti e siano attratti più dei coloni da questa nuova istituzione che chiamano “scuola”, fa emergere tutta la forza del metodo preventivo di don Bosco, «che ha elaborato istruzione, catechismo e mestiere in uno», come scrive D’Amico. Ma è una forza fatta di braccia umane, di paura e di sorrisi, di preghiera, che quelle sei ragazze italiane infilano in un sacco di iuta a Sanpierdarena, insieme alle loro poche cose, e portano con sè ai confini del mondo, laddove la temperatura segna 48 gradi ad aprile e i venti dell’inverno corrono a 140 chilometri orari. Ci arrivano con l’entusiasmo dei loro anni e con un modello, quello di Maria Domenica Mazzarello, fondatrice e santa. Ci arrivano dopo secoli di massacri dei nativi e una dominazione che aveva lasciato ferite profonde. Ci arrivano con il mandato di suor Mazzarello, chiamata Maìn dalle consorelle: «Ricordatevi che andate in America per far guerra al peccato». Lo aveva sognato don Bosco. La strada l’apre un salesiano, Giovanni Cagliero, che prima di diventare teologo era stato garibaldino. La storia di queste missionarie dunque ha colori e suoni lontani, quelli di un mondo fatto ancora di sangue che si tocca e di distanze che non si superano facilmente.

Un mondo che l’Autore ricostruisce con toni vividi. Come quando racconta che per partire le sei pioniere missionarie debbono «esibire un permesso scritto dei genitori o di chi ne fa le veci» a dimostrazione di quanto pericolosa e politicamente delicata fosse una simile missione. D’Amico non si nega qualche licenza romanzesca, ancorché fondata sui documenti, come quando racconta lo sbarco in Patagonia, dove gli europei dell’epoca ritenevano che si praticasse ancora il cannibalismo e circolassero gli ultimi brontosauri. In realtà, gli esseri più pericolosi del luogo erano i gauchos. Il 13 gennaio 1880 “L’America del Sur”, edito a Buenos Aires, annota: «È la prima volta da che il mondo esiste che si vedono Suore in quelle remote terre australi». La storia della comunità sudamericana delle Figlie di Maria Ausiliatrice si dipana attraverso congiure politiche e guai finanziari, suore che scelgono un’altra strada e massacri di indigeni, lotte con la massoneria ed epidemie di colera, raccontando gli stenti e il coraggio delle suore impegnate a raggiungere gli indi nelle profondità della Pampa come sulle cime della Cordigliera, cioè ricucendo pezzo per pezzo, lettera per lettera, giornale per giornale, la storia di un’evangelizzazione indomita, eroica ma sempre faticosissima, anche se punteggiata da impensabili successi, come quando il governo del Cile cede Dawson alla congregazione. È l’isola dove, dopo un difficilissimo rapporto con i nativi, le salesiane creano la prima scuola tessile, dove insegnano l’arte dell’ago e del telaio alle ragazze indie che ancora cuciono con denti e spine di pesce. Una epopea, appunto, che restituisce al termine “missione” l’allure pionieristica di un tempo e che si salda con l’assistenza spirituale e materiale che le salesiane offriranno all’immigrazione italiana in Argentina nel primo ventennio del XX secolo.

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