lunedì 5 novembre 2018

Borsa, investitori esteri oltre il 50%: allarme Consob sui fondi alternativi

Gli investitori esteri sono diventati maggioranza in tutte le principali Borse continentali, compresa Piazza Affari dove superano il 50%. Poiché gli esteri tipicamente sono fondi, e di diversa natura, questo pone questioni nuove soprattutto nell’Europa continentale dove le regole sono “codificate” e la discrezionalità di applicazione di conseguenza è limitata. I fondi non sono tutti uguali. Ci sono i fondi comuni tradizionali, che investono il risparmio collettivo, e ci sono i fondi riservati, fondi sovrani o fondi di private equity, che investono capitali di soggetti in grado di tutelarsi da sé ben più del retail. Peccato che mentre i fondi comuni sono limitati nei loro margini di manovra, altrettanto non è per i fondi alternativi che, da un lato, sfuggono alle regole del risparmio gestito e, dall’altro, alle regole che disciplinano i soggetti dotati di personalità giuridica come le società per azioni.

Il tema è complesso, ma tutt’altro che teorico e sempre più di stringente attualità. In passato – nelle assemblee di Telecom del 2014, di UniCredit del 2015 e di Ubi nel 2016 – è successo che la lista dei fondi per il consiglio fosse risultata di maggioranza, ma i fondi erano rimasti in minoranza nel board perché avevano presentato un numero di candidati inferiore alla metà dei componenti da eleggere. Questo perché esiste una regola di vigilanza prudenziale, sulla diversificazione dei rischi, che impedisce ai fondi di controllare le società. Lo scorso maggio però Elliott Management ha proposto per Telecom una lista di dieci consiglieri che, con il voto dei fondi, ha prevalso su quella di Vivendi, primo azionista alla soglia dell’Opa (che per Telecom è del 25%) col 23,94% del capitale ordinario, una quota che aveva permesso alla media company che fa capo a Vincent Bolloré non solo di esprimere il controllo di fatto, ma anche di esercitare direzione e coordinamento sull’incumbent telefonico.

Ora, la regola solo apparentemente è stata rotta, perché Elliott è registrato alla Sec come hedge fund e come tale è classificato tra i fondi alternativi che non sottostanno ai vincoli dei fondi tradizionali in quanto fanno fruttare al meglio i capitali dei Paperoni e non raccolgono invece i risparmi di cittadini comuni, meritevoli di tutela. Tuttavia, per evitare probabilmente di essere attaccato sul concerto (tesi che i legali di Vivendi stavano già mettendo a fuoco, per contestare il ribaltone), il fondo attivista di Paul Singer ha lasciato la gestione a Vivendi – confermando l’amministratore delegato scelto dai francesi, Amos Genish, che era capofila della lista finita in minoranza – limitandosi a esercitare il controllo collettivo col consiglio (è questa la sintesi che fanno ambienti regolamentari per descrivere la governance atipica di Telecom). Il risultato pratico non è stato dei più felici. Sempre il fondo Elliott in questi giorni è stato protagonista di un altro riassetto particolare, rilevando il controllo assoluto – autorizzato da Bce e Banca d’Italia – del Credito Fondiario, tramite il veicolo Tiber Investments, con una quota del 69,48%, incrementabile sino all’81,63%.

Di grande attualità sono dunque le riflessioni sul tema contenute nel Quaderno giuridico della Consob dedicato a «Le partecipazioni dei fondi alternativi riservati in società quotate e altri fondi». Lo studio, curato dal responsabile dell’ufficio studi giuridici della Consob Simone Alvaro e da Filippo Annunziata, professore di Diritto degli intermediari e dei mercati finanziari dell’università Bocconi, denuncia le lacune normative in materia, qualche volta fonte di imbarazzo. Per esempio lo studio cita un caso del 2010 – l’Opa promossa dal fondo Donatello sul fondo chiuso immobiliare Caravaggio, gestiti dalla stessa Sgr, Sorgente – dove con una mano il gruppo stabiliva il prezzo e con l’altra lo valutava. «Particolarmente delicato era il fatto che mentre l’offerente era un comparto di un fondo chiuso riservato a investitori qualificati, le quote del fondo emittente, originariamente offerte in sottoscrizione al pubblico indistinto dei risparmiatori, erano in mano a 1.504 sottoscrittori», rileva lo studio, osservando che «una Sgr che gestisce tanto il fondo emittente che il fondo offerente evidenzia in modo piuttosto chiaro quella che pare essere la principale criticità esistente in materia di rapporti tra il risparmio gestito, patrimoni autonomi e personalità giuridica».

Altro capitolo riguarda la presenza sempre più diffusa di fondi di private equity nel capitale delle banche. Gli esempi non mancano. Lo studio cita l’acquisizione di quasi il 90% dell’Istituto centrale delle banche popolari a opera di tre fondi di private equity (2015); del controllo di DoBank (sempre nel 2015) da parte di Fortress; e l’operazione pionieristica dell’ingresso di Investindustrial, nel 2011, con quasi il 10% della Banca Popolare di Milano, accompagnata dall'introduzione di clausole statutarie volte ad attribuire particolare rilievo al fondo su nomine e governance. Nel settore bancario, in particolare, la criticità consiste nell’esigenza di conciliare l’obiettivo di ottenere «determinati obiettivi di rendimento», tipici dei fondi della categoria, con la «necessità di tener conto di ulteriori interessi – diversi da quelli dell’Oicr o dei suoi investitori – rappresentati dalla stabilità e sana e prudente gestione della banca».

Alla fine lo studio suggerisce che alcune delle lacune segnalate potrebbero essere colmate ricorrendo all’«analogia», in ultima istanza con le regole dettate per le società per azioni di diritto comune. Come del resto si fa già, pragmaticamente, nei sistemi a diritto anglosassone. Ma qui occorrerebbe inserire un’apposita previsione nei codici.

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