venerdì 19 ottobre 2018

Borse e bond, Dimon ha ragione: in un mese già persi 4mila miliardi

Gli ottimi conti trimestrali delle banche americane non devono trarre in inganno. A ricordarlo è stato anche lo stesso numero uno di Jp Morgan - banca che ha messo a segno profitti per 8,24 miliardi, oltre le stime degli analisti - che nei giorni scorsi ha messo in guardia per «l’aumento dell’inflazione e la Brexit», oltre che per le questioni geopolitiche che stanno «esplodendo ovunque».

Non a caso la borse e i bond sono sotto pressione. Di solito, quando i mercati iniziano a prezzare un aumento dei tassi di interesse più alto del previsto, accade che tanto le azioni quanto le obbligazioni (per quanto tatticamente in competizione come classi di investimento) perdano terreno. Questo almeno fino a quando non inizi una rotazione dei portafogli (dalle azioni verso i bond). Ma prima che questo accada è logico aspettarsi che i rendimenti dei bond sul mercato secondario salgano sui nuovi livelli dei tassi attesi. E per far ciò è necessario che i prezzi degli stessi (che si muovono in direzione opposta rispetto ai rendimenti) scendano.

Ecco perché in questa fase di elevata volatilità sui mercati finanziari (l’indice Vix, che la misura è balzato in poche sedute dai 12 punti - che indicano propensione al rischio - a quota 23, segnando uno scatto di quasi il 100%) gli investitori stanno vendendo sia bond che azioni. In termini di capitalizzazione i recenti movimenti hanno mandato in fumo 4mila miliardi di capitalizzazione a livello globale in appena un mese. A fine settembre le Borse “valevano” 80mila miliardi di dollari mentre ora questo valore è sceso a 77mila. Gli altri 1.000 miliardi volatilizzati sono appannaggio delle obbligazioni che a fine settembre capitalizzano 50mila miliardi e adesso sono scese a quota 49mila.


La miccia che sta “stravolgendo” i mercati è scoppiata la settimana scorsa, quando i rendimenti dei Treasury a 10 anni hanno superato la soglia del 3,2% con un movimento piuttosto brusco tale da portare i tassi sui massimi degli ultimi sette anni. Gli investitori stanno ancora cercando di digerire le ultime parole del presidente della Fed Jerome Powell che ha indicato di aspettarsi una crescita ancora «considerevole» e che «considerati gli attuali livelli di inflazione e disoccupazione» i tassi potrebbero salire anche oltre il livello ritenuto di neutralità (3-2,35%). È in sostanza arrivata l’ammissione che la Fed non è certa di quello che in prospettiva potrà essere considerato il livello di neutralità e che bisognerà vivere molto più alla giornata, dato macro dopo dato macro, per intercettare le mosse future della riserva federale.

La rottura della soglia del 3,2% sta evidentemente cambiando il delicato e sottile equilibrio su cui poggiavano fino alla settimana scorsa bond e azioni. A questo punto i gestori iniziano a guardare con molta curiosità i tassi statunitensi, soprattutto nel confronto con le azioni. Va tenuto conto che le azioni a Wall Street ai livelli attuali sono piuttosto care. Il rapporto prezzo/utili (uno dei multipli più considerati dagli operatori per raffrontare i listini di diverse aree) della Borsa Usa è il doppio rispetto a quello delle Borse mondiali. Inoltre da inizio anno l'indice azionario globale Msci World, depurato per la performance Usa (+9,5%), è in rosso del 4,4 per cento. Una distanza di questo livello tra il listino statunitense e il “resto del mondo” non si vedeva da 30 anni.

Azioni care corrispondono a dividend/yield (il rendimento dei dividendi distribuiti dalle società quotate in rapporto al prezzo) più bassi. Non a caso, delle 500 società che compongono l'indice S&P 500, solo un quinto ai prezzi attuali distribuirà dividendi superiori al 3,2%. I restanti 4/5 sono sotto questa soglia. In spiccioli l'80% delle società di Wall Street è oggi meno competitiva, in termini di dividendi, rispetto alle cedole distribuite dai più sicuri titoli di Stato a 10 anni. Mentre “appena” 128 società su 500 (25,6%) è in grado di battere il 2,9% pagato dai Treasury a 2 anni. Soglie propedeutiche, appunto, a una futura rotazione dei portafogli.

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