martedì 3 giugno 2025

Israele: sgozzato, calpestato, crocifisso e tenuto a chiedere ‘scusa’. Perché ci si scaglia contro l’unica democrazia del Medio Oriente

@ - In nessun’altra parte del mondo uno Stato democratico sotto attacco viene invitato con tanta solerzia a moderazione, clemenza, senso della misura. Solo Israele, quando viene sgozzato, calpestato, crocifisso, è tenuto a chiedere scusa per il sangue che versa.

guerra israele

Come se difendersi fosse un atto di arroganza, e la sopravvivenza fosse un peccato d’orgoglio. Il 7 ottobre ha segnato l’epilogo di un decennio di ipocrisia. Migliaia di fanatici hanno varcato un confine per macellare civili, rapire bambini, filmare stupri e decapitazioni. Non una rivolta, ma una liturgia dell’odio che nessun movimento di liberazione dovrebbe anche solo sognarsi di rivendicare. Eppure, poco dopo, le piazze europee sventolavano le stesse bandiere dei carnefici, e le università si travestivano da tribunali morali.

La proporzione
L’Occidente progressista si è risvegliato con un riflesso condizionato: se Israele è coinvolto, è sicuramente colpevole. Hamas, da parte sua, non ha mai nascosto il proprio obiettivo. È scritto in ogni statuto, proclama e missile: distruggere Israele. Non conviverci. Non negoziare. Sradicarlo. È il solo attore del conflitto che ha sempre detto la verità. Eppure, chi lo combatte viene accusato di essere sproporzionato. La “proporzione” è diventata una gabbia semantica: Israele può difendersi, ma solo finché non turba la coscienza selettiva di chi osserva. Può colpire, ma senza colpire troppo. Una guerra con l’elmetto, ma senza il diritto al dolore.

Il punto non sono solo i bambini morti
Le immagini dei bambini morti a Gaza spezzano il cuore. Ma quando diventano strumento di propaganda, allora spezzano anche la verità. Ci spezza il cuore ogni bambino morto. A Gaza come in Sudan, dove migliaia sono stati massacrati nel silenzio globale. In Yemen, uccisi o mutilati da bombe, fame, colera e indifferenza. In Congo, in Etiopia, a Myanmar, in Afghanistan: milioni di bambini muoiono senza che un corteo sfili per loro. Nessuna università occupata. Nessun appello degli artisti. Nessun volto sui cartelloni. Nessuna bandiera. Il punto non sono solo i bambini morti. Il punto è dove muoiono, e chi li avrebbe “uccisi”. Se a colpire è una milizia tribale, il lutto è discreto. Se a bombardare è Israele, il lutto si fa liturgia collettiva. Perché il problema non è Gaza. Il problema, per molti, è che Israele non muore. Che resiste. Che non si inginocchia alla morale del pianto selettivo. E mentre il mondo predica pace e versa milioni in aiuti, Hamas ha fatto la sua scelta. Ha usato quei fondi per scavare tunnel invece di costruire scuole. Per creare depositi di armi invece di ospedali. Per addestrare bambini-soldato invece di aprire università. Gaza avrebbe potuto diventare Singapore; è stata ridotta a Mogadiscio con le preghiere.

Il solito copione europeo
Nel frattempo, in Europa si recita il solito copione. Intellettuali esausti dalla complessità, partiti in cerca di voti nelle banlieue, opinionisti in posa permanente. Tutti uniti in un esercizio di equilibrismo che non distingue più tra aggredito e aggressore. È la sindrome del colonialismo rovesciato: Israele è la potenza, quindi va punito. Anche se circondato da Stati che, se potessero, ne celebrerebbero la fine in diretta su Al Jazeera. Parlare di “pace” in questo contesto suona come una boutade. Pace con chi? Con un’organizzazione che usa i civili come carne da propaganda, che occupa militarmente i propri fratelli, che trasforma gli aiuti in logistica militare? Hamas è un sistema mafioso con una narrativa religiosa. E la Palestina, ostaggio due volte: di Israele per i suoi check-point, ma soprattutto di un’élite armata che usa la disperazione come capitale politico.

La resa dei conti con la menzogna
L’unica via d’uscita non è la resa di Israele, ma la resa dei conti con la menzogna. Quella che finge che “resistenza” significhi strage, che “libertà” significhi califfato, che “giustizia” significhi cancellare uno Stato. Israele è l’unico Paese a cui si chiede ogni giorno di giustificare la propria esistenza. L’unico che deve spiegare perché vuole vivere. È una democrazia imperfetta – certo – ma dove i tribunali giudicano anche i Generali. Dove si protesta, si vota, si discute, persino sotto i razzi. Eppure, nel grande gioco della morale internazionale, Israele è il colpevole di professione. Perché resiste. Perché ha trasformato un popolo perseguitato in una nazione armata. Perché non ha chiesto il permesso. È questa l’eresia. Ed è per questo che tanti lo odiano. Israele non è perfetto. Ma non chiede l’assoluzione. Chiede solo di non essere messo al rogo per aver detto – con i fatti di non voler morire da vittima né vivere da colpevole.

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