lunedì 14 aprile 2025

Cosa ha reso Putin così feroce, la sua storia dall'inizio: i ratti di San Pietroburgo, il kuzushi e gli anni da spia nel Kgb

@ - La carriera fulminante dello zar comincia con la fine dell'Urss, grazie a una fitta rete di relazioni con personaggi influenti (la cricca di San Pietroburgo). Ma le radici della sua «cattiveria» sono da ricercare nell'infanzia.


Questo articolo è un estratto di Nella mente di Putin, la guida di Marco Imarisio uscita gratuitamente con il Corriere della Sera.

Chi è davvero Vladimir Putin, quale è stato il suo viaggio? Chissà perché, ma a ben vedere la spiegazione appare evidente, quasi tutte le sue biografie danno grande risalto a un episodio in apparenza insignificante, raccontato da lui, e da alcuni testimoni oculari, veri o presunti. La «kommunalka», l’appartamento comunitario di San Pietroburgo dove viveva da bambino, era in un edificio infestato dai topi. Lui e i suoi amici li inseguivano nel cortile con i bastoni.

Un giorno, un grosso ratto che era riuscito a intrappolare, reagì attaccandolo con rabbia, facendogli prendere quello che considera ancora oggi lo spavento più grande della sua vita. «Nessuno deve essere messo all’angolo» ripete sempre accompagnando il racconto di quel lontano episodio. «Nessuno deve essere portato fino al punto di non avere più vie d’uscita». Perché diventa ancora più cattivo, e pericoloso. Ecco la ragione dell’importanza simbolica attribuita a quell’aneddoto.

È il suo metodo. Con lui è sempre stato così. Quando tutti lo ritengono con le spalle al muro, isolato, in difficoltà, alza la posta. Attacca sempre, proprio come fa il suo nuovo amico americano, Donald Trump. Con caratteri così simili e così particolari, in Russia hanno molti dubbi che l’idillio tra Cremlino e Casa Bianca possa durare a lungo.

La famiglia Putin
Ma torniamo a San Pietroburgo. Il 7 ottobre 1952, quando ci nasce Vladimir Putin, si chiama ancora Leningrado. È la città martire del grande assedio durante la Seconda guerra mondiale. La madre Maria e il padre Vladimir vivono quei terribili novecento giorni, ci perdono anche un figlio, Viktor, che muore a cinque anni di difterite, anche a causa dell’impossibilità di curarsi.

Il papà del futuro presidente viene assegnato a un battaglione dell’NKVD, la ex Ceka, che poi diventerà Kgb. È incaricato di operare dietro le linee nemiche dei nazisti. Ferito a una gamba, si rifugia in un canale pieno di fango e si nasconde sotto l’acqua gelata sfuggendo così a una pattuglia tedesca. È un episodio che Putin figlio racconta spesso, anche nella sua autobiografia ufficiale, dal quale si fa impropriamente discendere la sua passione mai dismessa per i Servizi segreti russi.

La serie «Lo scudo e la spada»
In realtà, Putin deve la sua vocazione a un noto film degli anni Sessanta. Se vogliamo, tutto è cominciato con Shchit i Mech, che in italiano vuol dire «Lo scudo e la spada», come l’emblema dei servizi segreti: quattro puntate in onda a partire dal 1965, una storia di avventura e di spionaggio accaduta durante la guerra lungo il confine fra la Germania di Hitler e le Repubbliche sovietiche.

Uno sceneggiato che ebbe un impatto enorme sulla gioventù sovietica. Vladimir Putin ha raccontato più volte di avere deciso d’arruolarsi nei ranghi del Kgb dopo avere seguito tutti gli episodi della serie. La prima volta, lo rimandano indietro. «Ripresentati quando sarai laureato». Lui esegue.

Nonno Spiridon
Quanto al nonno paterno, Spiridon Putin ha avuto un destino decisamente meno ordinario all’interno del regime comunista. Prima cuoco di Lenin nella casa di campagna di Gorki, vicino a Mosca. Poi, al servizio di Stalin. Una vicinanza al vecchio Pcus che è sempre piaciuta poco al presidente russo. Subito dopo essere diventato presidente, Putin si trova a dover affrontare la questione.

«Che penserebbe suo nonno del nipote diventato un presidente
democraticamente eletto?» gli chiede una volta un giornalista.
Putin mostra un certo imbarazzo: «Il fatto che mio nonno abbia
lavorato come cuoco per Stalin non dice assolutamente niente
sulle sue opinioni politiche. Era un altro Paese, un’altra vita, un
altro mondo».

Il maestro di judo e il kuzushi
Il giovane Putin cresce in una città ancora devastata dalla guerra e dalla povertà. Un bambino difficile. Così scatenato che un giorno Vera Dmitrievna Gurevich, la maestra della scuola elementare, andò dal padre per parlargli di quel ragazzo molto intelligente ma con la tendenza a perdersi.

Il colloquio all’evidenza servì. Perché all’improvviso, all’età di undici anni, il piccolo Volodia cambiò. Diventò il più bravo della classe in tedesco, iniziò a fare sport. Un naso rotto lo convinse che non era fatto per la boxe. Fu nelle arti marziali che trovò la vera passione: «Il judo mi ha tolto dalla strada, non so cosa sarebbe stata la mia vita se non avessi conosciuto Anatoly Rakhlin, il mio primo maestro». Con lui ha appreso il kuzushi, movimento che tende a far perdere l’equilibrio fisico e mentale all’avversario per poi rovesciarlo, una tecnica che ha usato anche in politica.

«Ero un piccolo teppista»
Al profilo da ragazzo di strada, cresciuto nelle avversità, ci ha sempre tenuto in modo particolare. Nella sua autobiografia racconta di essere stato espulso dai giovani pionieri, l’organizzazione dei giovanissimi del Pcus, dopo avere insultato il professore di chimica. A differenza di tutti, per punizione, non potrà mai esibire al collo l’ambito fazzoletto rosso e sul petto il
distintivo della faccia di Lenin.

«Non ero un pioniere, ero un piccolo teppista». Una frase che fa parte della costruzione della sua immagine, e lo rende simpatico ai milioni di russi che amano gli uomini venuti dal basso e detestano i prodotti della nomenklatura. Il giovane Putin ama alzare le mani, e diventa un esperto di arti marziali.

Impara il judo con Putin
Molti studiosi si sono dedicati in questi venticinque anni alla ricerca e allo studio delle sue principali influenze culturali, da Kant a Marx eccetera. Le cose, almeno qui, sono un po’ più semplici. Le foto diffuse periodicamente che lo riprendono in kimono, con l’espressione corrucciata, non sono una semplice posa. «Il judo unisce in sé tecniche di combattimento uniche e una filosofia originale e profonda» dice in una intervista recente «che sviluppa le migliori qualità».

Durante un incontro con dei giornalisti giapponesi, si spinge oltre, ricordando che la parola judo significa «via della cedevolezza»: «È una vera e propria filosofia, l’unica alla quale aderisco, perché preferisce l’evoluzione alla rivoluzione, e ci insegna a utilizzare e preferire ciò che già abbiamo». Un elogio ante litteram dell’attuale autarchia russa, sotto forma di disquisizione sportiva.

Nel 2001, anche in Italia, quando tirava un’aria ben diversa da quella di oggi tra Russia ed Europa, uscì il libro. Impara il judo con Putin. In copertina, lui con il kimono bianco e un sorriso gioviale stampato sulla faccia.

Un'idea romantica dello spionaggio
Ma nella sterminata burocrazia sovietica, una volta ottenuta la laurea in giurisprudenza, Putin ci entra comunque a pieno titolo con l’arruolamento nel Kgb. «Una figura senza volto, senza colore» così lo ricordano i suoi superiori. Senz’altro, non un uomo di punta. Sono gli anni di Breznev, quelli della stagnazione. Non succede nulla, lo Stato comincia a scricchiolare sotto il peso della corruzione diffusa.

Il futuro presidente corona il suo sogno, fatto non dalle purghe staliniane, ma da una idea romantica dello spionaggio, come scrisse nella sua autobiografia. Ironia della sorte, ottiene come primo compito il controllo di un gruppo di dissidenti, missione che svolgerà con modi molto più moderati di quelli adottati quando salirà al Cremlino.

«Loro organizzavano qualche manifestazione e chiamavano a partecipare diplomatici e giornalisti stranieri. Noi non potevamo usare la forza per disperderli, non avevamo ordini in tal senso. Così, organizzavamo una contromanifestazione per deporre corone di fiori nello stesso posto e alla stessa ora, convocando i membri regionali del partito e dei sindacati, e quindi facendo transennare la zona. A volte, facevamo suonare anche la banda con i tromboni e gli ottoni. I giornalisti si annoiavano, e la protesta falliva».

Il crollo dell'Urss
Lo mandano a Dresda, nella Germania orientale. È il 1985, Gorbaciov ha appena lanciato la perestrojka, ma laggiù non è ancora arrivata. Non ce n’era traccia. Eppure, la città tedesca diventa quasi un punto di vista privilegiato per assistere a quella che Putin non esita a definire come «la più grande catastrofe geopolitica del XX secolo»: il crollo dell’Urss.

Ma quegli anni prima che venga giù tutto, sono forse decisivi per la formazione del futuro Capo di Stato. Quel Kgb è anche un osservatorio dal quale seguire il malfunzionamento del sistema sovietico, il dilagare del malaffare, la sconfitta imminente nei confronti dell’Occidente, e la crescita di una sfiducia generalizzata della società russa verso il suo stesso mondo. Putin assiste inerme al crollo di tutto quello a cui aveva creduto. Quando cade il muro di Berlino, vive l’umiliazione dell’assalto della folla alla sede di Dresda del suo Kgb.

Spia per sempre
Si dimette subito dopo. Motiverà il suo gesto come una rassegnata presa d’atto, non certo come un pentimento o una presa di distanza morale. «Mi era divenuto ben chiaro che per questo sistema non c’era più futuro».
È venuto giù tutto. Putin e la moglie Ludmila, ex operaia tornitrice in una fabbrica di Kaliningrad, hostess della Aeroflot, sposata nel 1983, tornano a San Pietroburgo in treno, per poter portare con sé anche una lavatrice vecchia di vent’anni, ultimo regalo dei colleghi e dirimpettai della Stasi.

Hanno due figlie. Maria è nata a Leningrado, Ekaterina a Dresda. E hanno un problema. Come guadagnarsi da vivere? Il capofamiglia racconta agli amici di essere rassegnato a fare il tassista. Rifiuta un impiego del Kgb nella periferia di Mosca: non gli pagano la casa, e lui non può permetterselo. Torna all’università, per un dottorato in diritto internazionale. Diventa assistente del rettore, anche per via del suo ruolo di agente Kgb «in riserva». Come ripeteva spesso nelle interviste dei primi tempi, una volta Agente segreto, lo rimani per sempre. Scherzava, ma non troppo.

Le teorie cospiratorie
L’incontro che cambia la sua vita è quello con Anatolij Sobchak, suo ex docente e presidente del Consiglio comunale, destinato ben presto a diventare sindaco. Putin confessa al professore la sua appartenenza al Kgb, ma lui non ne tiene conto. «È solo un mio ex studente», ripeteva. Su questo legame sono cresciute molte teorie più o meno cospiratorie. Secondo alcune, fu il Kgb a manovrare per mettere un suo agente al fianco di uno dei politici in ascesa nella nuova Russia: aveva documenti compromettenti su Sobchak e li fece valere.

Secondo altre, fu lo stesso sindaco a cercare Putin, garantendosi così la protezione del Kgb. Lui, comunque, rimase per cinque anni nella squadra del sindaco della seconda città più grande di Russia, che gli affidò l’organizzazione interna e in buona sostanza anche la gestione degli affari, nominandolo capo dell’ufficio per le relazioni economiche con l’estero. Intanto, Putin si dimette dal Kgb il 20 agosto del 1991. Un giorno dopo il tentato colpo di Stato contro Gorbaciov da parte della vecchia guardia sovietica guidata da un manipolo di suoi colleghi del Kgb. «Capii subito da che parte dovevo stare».

La cricca di San Pietroburgo
In quegli anni si formano i legami e le amicizie che viaggeranno con Putin fino al Cremlino. Nasce la cosiddetta «cricca di San Pietroburgo», definizione forse un po’ esagerata, ma che contiene una verità. Nella capitale baltica, il futuro presidente cementa il suo legame con Nikolaj Patrushev, collega di Kgb e di affinità imperialiste, conosce il giovane avvocato di Sobchak, un certo Dmitrij Medvedev, fa amicizia con Roman Abramovich, aiutandolo a districarsi dalle accuse di aver rubato un treno carico di cisterne di petrolio destinato all’estero. Lavoravano tutti insieme per il sindaco: il futuro premier e presidente Dmitrij Medvedev, il futuro ministro delle Finanze Alexej Kudrin, il capo di Rosneft Igor Sechin, il boss dello sport russo Vitaly Mutko, il capo della Guardia Nazionale Viktor Zolotov, quello dei servizi segreti Sergei Naryshkin.

Poi c’erano i compagni di judo, i fratelli Rotenberg, Arkady e Boris, che sarebbero diventati i «suoi» oligarchi. E non ultimo c’era il proprietario di un ristorante che lui frequentava, Evgenij Prigozhin, detto il cuoco di Putin, miliardario grazie ai catering per il Cremlino e fondatore della Wagner, la milizia mercenaria che interviene nel mondo, dalla Siria alla Libia, in nome e per conto di Mosca.

Con i suoi vecchi amici, si mostrerà quasi sempre magnanimo, come per restare fedele a un patto di gioventù. Tranne che con Prigozhin, che deluso dall’Operazione militare speciale guidata dal «moscovita» ministro della Difesa Sergey Shoigu, marcia su Mosca, tradendo così la fiducia del suo vecchio amico. Che, come noto, non lo perdonerà.

Il mistero sulla ricchezza personale di Putin
In qualche modo, la verticale del potere putiniano nasce lì, all’interno del municipio. Anche per questo, sugli anni san pietroburghesi di Putin permane ancora un velo di mistero, che comprende le origini della sua ricchezza. Secondo una versione mai verificata dei fatti, la fortuna personale di Putin si forma in modo affine a quella di Abramovich. Una volta a capo del Dipartimento degli Affari internazionali, protesta contro gli scaffali vuoti nei negozi e si fa regalare da Eltsin, per intercessione di Sobchak, una fornitura enorme di legname pregiato, petrolio, diverse tonnellate di metalli rari, che rivenderà all’estero per acquistare beni di prima necessità per gli abitanti di San Pietroburgo, tenendo per sé la differenza tra le due operazioni, equivalente a due milioni di dollari.

Ma sono voci non confermate da alcuna prova. La ricchezza di Putin rimarrà sempre un mistero. Anzi, secondo il sito ufficiale del Cremlino, non esiste.

La scalata al Cremlino
Nel 1996, Putin perde nuovamente il lavoro. San Pietroburgo è una città corrotta e in mano alla criminalità organizzata. Vladimir Yakovlev, il vice di Sobchak, vince le elezioni amministrative con una campagna molto aggressiva, che non gli verrà mai perdonata dal futuro presidente. Ma i contatti stabiliti durante quei cinque anni lo portano ancora più in alto. Lo portano al Cremlino, tramite Pavel Borodin, capo della Tesoreria di Boris Eltsin.

Putin ne aveva aiutato la figlia, affetta da una grave malattia, quando era studentessa a San Pietroburgo, cercando per lei dei medici di qualità. Borodin si sdebita chiamando l’amico nel suo ufficio, che gestisce le proprietà personali di Eltsin, e affidandogli la cura dei possedimenti esteri. Per ovvie ragioni, è un lavoro che lo mette in contatto con «la Famiglia».

La prima apparizione in tv
La sua ascesa diventa fulminea. Gli bastano meno di due anni per imparare i codici di comportamento non scritti del Cremlino. Poche parole, sempre con la soluzione pronta in tasca. Nel 1998, Eltsin lo nomina capo del Fsb, erede del Kgb. Lui mostra totale lealtà al capo. E anche molto zelo. Quando il Procuratore federale Yurij Skuratov apre un’indagine per corruzione sulla famiglia Eltsin, un video andò in onda improvvisamente su tutte le televisioni russe. Skuratov era senza veli, in azione con due acrobatiche prostitute. Era il più classico dei kompromat nell’arsenale della Lubjanka.

Putin appare per la prima volta in televisione, spiegando che non si tratta di un falso. Dimissioni immediate di Skuratov, fine dell’indagine. Ma fare il primo ministro, quello è il salto più grande, davvero un salto potenzialmente mortale. Di chi è stata l’idea? In molti rivendicarono la trovata di aver messo al potere quell’oscuro funzionario che aveva come unico compito quello di garantire al presidente una onorevole ritirata al riparo delle inchieste giudiziarie sulla corruzione, e al suo clan di continuare a gestire il potere.

L'«inventore» di Putin
Ma l’unico che ha sempre potuto vantare una primogenitura era Valentin Yumashev. Dopo averne discusso soltanto con Anatolij Chubais, il plenipotenziario economico che all’inizio degli anni ’90 consegnò le più grandi aziende pubbliche ai privati, creando gli oligarchi, fu lui a convincere il futuro suocero a scegliere Putin come proprio successore.

In una rara intervista concessa alla Bbc nel 2019, altri tempi ormai, se ne vantò con discrezione, raccontando come erano andate le cose. Eltsin aveva una sua rosa di candidati, tra i quali spiccava Boris Nemtsov, il liberale che il 27 febbraio 2015 verrà assassinato mentre cammina sul ponte del Cremlino, forse il delitto politico russo più misconosciuto e importante.

Ne parlò con Yumashev, l’ex giornalista, capo del suo staff e in seguito marito di sua figlia Tatiana: erano i suoi consiglieri occulti fin dal 1996, quando diressero una campagna elettorale che sembrava destinata a fallire contro i comunisti di Zyuganov e invece si trasformò in un trionfo grazie ai finanziamenti di quelli che poi sarebbero diventati oligarchi. «Invece io gli dissi che Putin sarebbe stato perfetto, perché era chiaro che fosse pronto per incarichi importanti». Eltsin annuì. La storia della Russia stava per cambiare.

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