@ - O aiutiamo l’Ucraina a difendere la propria libertà, integrità territoriale e sovranità, oppure saremo costretti a combattere noi. Se Putin vince, se riesce a mettere il mondo davanti al fatto compiuto, se incassa l’annessione di una parte del territorio ucraino, i suoi appetiti di espansione imperiale non si fermeranno. Presto toccherà ad altri paesi subire la sorte dell’Ucraina. Alcuni membri della Nato, a cominciare dai Paesi Baltici, sono i prossimi candidati designati per la ricostruzione dell’impero russo-sovietico in Europa dell’Est. Quindi la guerra finirà per coinvolgere direttamente la Nato stessa e l’America. In questo senso aiutare l'Ucraina è il modo meno costoso per proteggere noi stessi.
Perché Biden rischia di perdere l'Ucraina (e quel precedente di Roosevelt)
© Fornito da Corriere della Sera
Quello che avete letto finora è il ragionamento con cui Joe Biden ha cercato – finora senza riuscirci – di far passare al Congresso l’ultima rata di aiuti americani all’Ucraina. È una manovra da 110,5 miliardi di dollari di cui ben oltre la metà sono destinati a Kiev (tra armi e aiuti economici e umanitari), 14 miliardi sono per Israele. Tornerò sui dettagli della mancata approvazione.
È utile ricordare che quell’analisi e quel monito di Biden hanno delle analogie con la posizione del presidente democratico Franklin Delano Roosevelt all’epoca in cui Adolf Hitler cominciò la sua avanzata militare in Europa, partendo dall’aggressione della Cecoslovacchia nel 1938 a cui seguì l’invasione della Polonia concordata con l’Urss di Stalin. L’analogia va manovrata con molta cautela. Lungi dal nobilitare la posizione di Biden, il precedente di Roosevelt è poco rassicurante. In realtà quel presidente – abbreviato con la sigla FDR – non riuscì a convincere gli americani che Hitler fosse una minaccia per gli interessi vitali della nazione, cioè che dopo aver invaso mezza Europa avrebbe finito per attentare alla sicurezza degli Stati Uniti. Non solo la destra isolazionista (forte già allora) ma anche pezzi di elettorato democratico non credettero a quella tesi. Hitler invase la Polonia d’accordo con Stalin il primo settembre 1939. L’America entrò in guerra più di due anni dopo, e solo per effetto dell’attacco giapponese contro la sua base militare a Pearl Harbor il 7 dicembre 1941. Nel frattempo la Germania di Hitler aveva occupato o soggiogato buona parte dell’Europa, Francia inclusa. FDR, dall’alto di un prestigio immensamente superiore a quello di Biden e con una maggioranza parlamentare assai robusta, non era stato capace di convincere gli americani che l’espansionismo nazista li minacciava. Ci riuscì solo dopo un attacco a tradimento perpetrato con una strage di militari americani e in uno degli Stati Usa, le Hawaii.
L’ultima votazione al Senato di Washington, che ha visto la bocciatura degli aiuti all’Ucraina da parte dei repubblicani, fotografa una situazione per certi versi analoga. La spaccatura nella classe politica è solo una parte del problema. I repubblicani del Congresso in realtà non sono tutti isolazionisti né sono tutti pregiudizialmente contrari a continuare gli aiuti all’Ucraina. Le sfumature sono tante. Anzitutto, la leadership repubblicana al Senato ha chiesto a Biden e al suo partito un compromesso: via libera alla nuova tranche di finanziamenti per l’Ucraina, in cambio di restrizioni a quell’immigrazione clandestina che per l’elettorato di destra è una delle emergenze nazionali. Il rifiuto dei democratici di fare concessioni adeguate su questo fronte riflette una spaccatura nel partito di Biden, spesso ostaggio della sua ala sinistra che non vuole limiti sull’immigrazione (un problema che si riproporrà in campagna elettorale). Un altro segnale che i problemi non sono solo a destra è venuto dal voto contrario di Bernie Sanders, senatore socialista del Vermont, già candidato alla nomination presidenziale, una delle figure più amate dalla sinistra e dai giovani. Sanders ha votato con i repubblicani non perché ostile all’Ucraina ma perché contrario agli aiuti a Israele.
Dentro il partito repubblicano non mancano le divisioni. Via via che la campagna elettorale si scalda, si accentuano le differenze tra l’ala trumpiana dichiaratamente isolazionista, e una fetta di establishment che include la candidata Nikki Haley, allineata sulla tradizione atlantista, ostile alla Russia e alla Cina.
Concentrarsi solo sulle votazioni parlamentari e sulle prese di posizione dei politici, fa perdere di vista ciò che si muove dentro la società civile. L’idea che nella guerra ucraina l’America fronteggi una minaccia vitale alla propria sicurezza nazionale, ha sempre fatto fatica a conquistare l’elettorato di destra ma è lungi dal fare l’unanimità anche a sinistra. È più facile semmai costruire un consenso bipartisan sulla minaccia economica cinese e i suoi danni per i lavoratori Usa: non a caso sul terreno del protezionismo contro Pechino c’è una vera continuità bipartisan Trump-Biden. La tragedia di Gaza ha aperto un nuovo focolaio di diatribe e divergenze all’interno del partito democratico. Questo rende ancora più difficile per Biden far digerire alla sua ala sinistra delle concessioni sulla politica migratoria.
In campagna elettorale risuonerà sempre più spesso un’accusa trumpiana che cattura consensi ben oltre le truppe dei suoi fedelissimi: se non siamo capaci di far rispettare i nostri confini, se non sappiamo difendere le nostre frontiere nazionali da un’invasione illegale, che vantaggio ricaviamo dalla difesa dei confini ucraini? Secondo tutti i sondaggi la questione migratoria figura in testa alle preoccupazioni degli elettori americani e avrà un ruolo importante nella campagna del 2024, mentre la politica estera è meno sentita.
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