@ Le difficoltà dovute alla pandemia e al crollo del prezzo del petrolio stanno spingendo a modificare alcune norme in tema di lavoro, e non solo
Nelle ultime settimane, alcuni paesi arabi del Golfo hanno accelerato un processo che era già in atto da diverso tempo, ma a velocità più blanda: la riforma di alcune leggi basate sulla tradizione islamica, con l’obiettivo di attirare un numero sempre maggiore di lavoratori stranieri qualificati. Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti, per esempio, hanno introdotto riforme importanti preoccupati dalla pandemia da coronavirus – che ha ridotto l’arrivo di stranieri – e dal crollo del prezzo del petrolio, risorsa su cui si basano in larga parte le economie dei paesi di questo pezzo di mondo.
A inizio novembre il governo saudita aveva modificato parzialmente il sistema su cui si basano i contratti di lavoro degli stranieri nel paese, chiamato “kafala”. Questo sistema lega il permesso di lavoro e di residenza dello straniero a un singolo datore di lavoro, dando allo stesso datore di lavoro un enorme controllo sul suo dipendente (per esempio è lui a decidere quando il dipendente può tornare nel suo paese). A partire da marzo, alcuni lavoratori stranieri potranno cambiare settore o azienda e lasciare il paese senza il permesso del proprio datore di lavoro.
Una riforma molto simile era già stata annunciata dal Qatar ad agosto: la monarchia qatariota aveva voluto presentarsi al mondo come un paese con un’economia più moderna, probabilmente anche in vista dei Mondiali di calcio che si terranno in Qatar nel 2022.
Sabato scorso anche gli Emirati Arabi Uniti avevano annunciato importanti modifiche di alcune leggi islamiche in vigore nel paese, ritenute particolarmente difficili da accettare dai lavoratori occidentali. Il governo emiratino aveva tolto il divieto per le coppie non sposate di vivere insieme, aveva reso meno severi i divieti sul consumo, possesso e vendita di alcolici, e aveva messo fuori legge i cosiddetti “crimini d’onore”, che stabilivano che un parente maschio poteva eludere il processo per avere aggredito una donna che aveva fatto qualcosa considerata “disonorevole” dalla famiglia.
Le nuove politiche adottate dalle monarchie del Golfo, ha scritto il Wall Street Journal, riflettono le crescenti preoccupazioni dei governi locali per gli effetti provocati dalla pandemia da coronavirus, che da inizio anno ha ridotto in maniera significativa spostamenti e attività, e dal conseguente abbassamento del prezzo del petrolio, con conseguenze sui ricavi provenienti dal mercato energetico. A marzo, quando in molti paesi del mondo si iniziavano a imporre rigidi lockdown nazionali e a limitare gli spostamenti, si era infatti registrato un crollo del prezzo del petrolio senza precedenti, a causa del crollo della domanda (due terzi della domanda globale di petrolio sono legati agli spostamenti e ai trasporti di merci, due attività estremamente limitate durante la pandemia).
L’obiettivo delle riforme è quindi quello di rendere le cose più facili agli stranieri, sia sul posto di lavoro che nello stile di vita, per cercare di attirarli nei paesi del Golfo e riattivare le economie nazionali.
Le monarchie del Golfo, inoltre, sono in competizione tra loro per attirare i lavoratori più qualificati e presentarsi come paesi moderni agli occhi dell’Occidente. Dubai, capitale di uno dei sette emirati che formano gli Emirati Arabi Uniti, ha iniziato a offrire permessi di lavoro di un anno a stranieri che possono lavorare “in remoto”, nel tentativo di attrarre persone talentuose soprattutto nel campo della tecnologia. Negli ultimi anni si è parlato molto delle riforme introdotte in Arabia Saudita dal principe ereditario Mohammed bin Salman, tra cui la riapertura parziale di teatri, cinema e la possibilità di tenere concerti dal vivo. Le norme saudite rimangono però ancora tra le più rigide e severe della regione, e un ostacolo per i lavoratori occidentali che vorrebbero andare a lavorare nel paese: per esempio, in Arabia Saudita la convivenza di coppie non sposate non è permessa e la vendita e il consumo di alcol sono illegali.
Le ultime riforme annunciate dalle monarchie del Golfo vanno però valutate con cautela, sia perché contengono dei limiti, sia perché non significano necessariamente una reale modernizzazione dei paesi da un punto di vista delle libertà individuali.
La parziale riforma del sistema di “kafala” in Arabia Saudita, per esempio, è per l’appunto parziale. La nuova legge esclude alcune categorie di lavoratori, come quelli domestici, che continueranno ad essere sottoposti alle vecchie regole, e prevede diverse limitazioni anche per chi potrà beneficiare di maggiori libertà: la norma stabilisce che il lavoratore straniero non potrà cambiare datore di lavoro prima di un anno dall’impiego, e con un preavviso le cui condizioni non sono ancora chiare. Rothna Begum, ricercatrice di Human Rights Watch, ha detto all’emittente tedesca Deutsche Welle: «Questa è a malapena una riforma, perché la questione principale è che i lavoratori rimangono incatenati ai loro datori di lavoro e possono comunque soffrire di abusi durante il periodo del contratto».
Queste misure potrebbero essere state introdotte anche in vista dei prossimi importanti eventi internazionali che si terranno nei paesi del Golfo, e che potrebbero avere spinto i governi locali a presentare la loro faccia migliore ai paesi occidentali: si tratta del G20 che avrebbe dovuto tenersi a fine mese a Riyadh, la capitale saudita, e che però a causa della pandemia avverrà online; l’Expo che è stato rimandato di un anno, e si terrà nel 2021 a Dubai, la città emiratina più grande e il principale centro commerciale del paese; e, come detto, i Mondiali di calcio che sono programmati per il 2022 in Qatar.
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