@ - Dopo sette anni, qual è la spinta propulsiva di questo pontificato? Alcuni commentatori e analisti si sono chiesti se questa spinta sussista ancora, altri hanno cercato di riflettere sulla sua sostanza. La domanda si potrebbe tradurre così: che tipo di governo è quello di Francesco, e come interpretarlo alla luce di questi anni? Intendiamo dunque affrontare qui tale domanda, esaminando il significato proprio di questo modo di governare, che viene espresso da una personalità concreta con la sua propria storia di vita e di formazione[1].
Facciamo un passo indietro ai tempi del Concilio di Trento, nel quale, sin dal suo inizio, furono presenti alcuni gesuiti come periti teologi: i pp. Diego Laìnez e Alfonso Salmerón, incaricati come teologi e designati da Ignazio su richiesta di papa Paolo III. Si unì a loro anche p. Claude Jay, intervenuto come procuratore del vescovo di Augusta. Il fondatore della Compagnia di Gesù, sant’Ignazio di Loyola, aveva dato istruzioni ai suoi confratelli su come comportarsi[2]. La cosa interessante è che egli non è entrato per nulla nelle questioni dottrinali e teologiche, ma si è preoccupato della testimonianza di vita che i gesuiti avrebbero dovuto dare. Questo già dà una prima idea di come Ignazio intendesse la riforma della Chiesa, e in un contesto così singolare e importante come un Concilio. Per lui si trattava innanzitutto di riformare le persone dal di dentro.
Questa è la garanzia di una conversione di «struttura» per Ignazio. Gli Esercizi spirituali sono per la «riforma» delle persone e della Chiesa. È questa riforma che fa comprendere l’agenda di Francesco. Ignazio, ad esempio, raccomanda, secondo il suo stile di vita, di visitare gli ammalati negli ospedali, «confessando e consolando i poveri, portando anche qualche cosa potendolo, e facendoli pregare»[3]. E così Francesco, fedele a questo insegnamento, ha inaugurato i viaggi del suo pontificato con quello a Lampedusa e ha tanto valorizzato i «venerdì della misericordia».
Francesco è gesuita, e la sua idea di riforma della Chiesa corrisponde alla visione ignaziana. Chiaramente gli stili di governo – a vari livelli – dei gesuiti sono stati anche molto diversi nella storia dell’Ordine e della Chiesa. Francesco ne incarna uno suo proprio, divenendo per la prima volta nella storia un gesuita che viene eletto Pontefice romano.
Per questo, al di là di ogni altra riflessione su questo tema, una cosa è chiara e discende dal carisma spirituale che ha plasmato Jorge Mario Bergoglio: chi volesse tematizzare, nel pontificato di Francesco, un’opposizione tra conversione spirituale, pastorale e strutturale dimostrerebbe di non averne compreso il nucleo. La riforma è un processo davvero spirituale, che cambia – ora lentamente ora velocemente – anche le forme, quelle che chiamiamo «strutture». Ma le cambia per connaturalità, come la cartina di tornasole cambia colore naturalmente, perché muta il livello di acidità o di alcalinità nel liquido in cui è immersa. Quindi il puntare alla conversione non è un pio riferimento spirituale inefficace, ma un atto di governo radicale.
Se i modelli di governo spirituale nella Compagnia di Gesù sono più d’uno, il grande modello ispiratore di Bergoglio è il gesuita san Pietro Favre (1506-46), che Michel de Certeau definisce semplicemente il «prete riformato», per il quale l’esperienza interiore, l’espressione dogmatica e la riforma strutturale sono intimamente legate tra loro. Così come la preghiera per sant’Ignazio: essa coinvolge il cuore e la mente, ma pure il corpo, che è chiamato ad assumere una posizione adatta. «Quella che sottolinea l’ascetismo, il silenzio e la penitenza – disse il Papa nell’intervista che gli feci per La Civiltà Cattolica nell’agosto 2013 – è una corrente deformata che si è pure diffusa nella Compagnia, specialmente in ambito spagnolo. Io sono vicino invece alla corrente mistica, quella di Louis Lallemant e di Jean-Joseph Surin. E Favre era un mistico»[4]. È a questo genere di riforma che papa Francesco si ispira[5].
Il riformatore come «svuotato»
Se leggiamo ciò che il Pontefice ha detto dei gesuiti, comprendiamo meglio il cuore della sua riforma e del suo atteggiamento radicale. Nella sua omelia nella chiesa del Gesù, il 3 gennaio 2014, egli affermò: «Il cuore di Cristo è il cuore di un Dio che, per amore, si è “svuotato”. Ognuno di noi, gesuiti, che segue Gesù dovrebbe essere disposto a svuotare se stesso. Siamo chiamati a questo abbassamento: essere degli “svuotati”. Essere uomini che non devono vivere centrati su se stessi, perché il centro della Compagnia è Cristo e la sua Chiesa». Per Francesco, la riforma si radica in questo svuotamento di sé, che egli riconosce in uno dei brani neotestamentari che più ama e più cita: Filippesi 2,6-11. Lì c’è la vera riforma. Se non fosse così, se essa fosse solamente un’idea, un progetto ideale, frutto dei propri desideri, anche buoni, diventerebbe l’ennesima ideologia del cambiamento.
La riforma sarebbe un’ideologia dal vago carattere zelota. Ed essa sì – come tutte le ideologie – avrebbe da temere dalla mancanza di supporters. Sarebbe alla mercé della disillusione dei circoli di coloro che hanno in mente un’agenda da realizzare. La riforma che ha in mente Francesco funziona se «svuotata» da queste logiche mondane. Essa è l’opposto dell’ideologia del cambiamento. La spinta propulsiva del pontificato non è la capacità di fare cose o di istituzionalizzare sempre e comunque il cambiamento, ma di discernere tempi e momenti di uno svuotamento perché la missione faccia trasparire meglio Cristo. È il discernimento stesso la «struttura sistematica» della riforma, che si concretizza in un ordine istituzionale.
«La Chiesa è istituzione», afferma Francesco in un’intervista a Austen Ivereigh[6], per evitare che si immagini – o si sogni addirittura – una Chiesa astratta, di anime belle, gnostica. Ma a rendere la Chiesa «istituzione» è lo Spirito Santo[7], che «provoca disordine con i carismi, ma in quel disordine crea armonia». La Chiesa è «popolo pellegrino ed evangelizzatore, che trascende sempre ogni pur necessaria espressione istituzionale» (Evangelii gaudium [EG], n. 111). Spirito e istituzione per Francesco non si negano mai l’un l’altro. La Chiesa è istituzionalizzata dallo Spirito Santo, e questo evita l’«introversione ecclesiale» (EG 27), grazie a una «tensione tra il disordine e l’armonia provocati dallo Spirito Santo». Questo significa che c’è un processo di istituzionalizzazione e deistituzionalizzazione fluido: resta quello che serve, e non quello che non serve più. Il futuro della Chiesa non è né statico né rigido.
Pertanto ci vuole pazienza, come leggiamo nel Vangelo, per lasciar crescere insieme grano e zizzania, perché – come dice il padrone del campo – «non succeda che, raccogliendo la zizzania, con essa sradichiate anche il grano. Lasciate che l’una e l’altro crescano insieme fino alla mietitura e al momento della mietitura dirò ai mietitori: Raccogliete prima la zizzania e legatela in fasci per bruciarla; il grano invece riponetelo nel mio granaio» (Mt 13,29-30).
Il discernimento non ideologico
La spiritualità di Ignazio di Loyola è una spiritualità storica, legata alla dinamica della storia. Essa, anzi, fa lievitare la storia e organizza, struttura una istituzione. Il ministero spirituale di Ignazio si istituzionalizza nel servizio della Chiesa, dando forma alla Compagnia di Gesù e alla sua capacità di dialogo con la cultura e con la storia.
In realtà, questo è lo sfondo su cui si dipinge un ritratto più complesso, che è di capitale importanza per comprendere il modo di procedere di Bergoglio nel suo pontificato. Egli nota che nella vita di Ignazio si riscontra la coerenza interna del suo progetto. Ma che cos’è il «progetto» di Ignazio, così come lo legge Bergoglio? Una visione teorica pronta per essere applicata alla realtà per costringerla nei suoi limiti? Un’astrazione da calare nel concreto? In realtà, nulla di tutto questo.
Il progetto ignaziano di Francesco «non è una pianificazione di funzioni, non è un assortimento di possibilità. Il suo progetto consiste nel rendere esplicito e concreto ciò che egli aveva vissuto nella sua esperienza interiore»[8]. Si comprende così che la domanda su quale sia il «programma» di papa Francesco non ha senso. Il Papa non ha idee preconfezionate da applicare al reale, né un piano ideologico di riforme prêt-à-porter, ma avanza sulla base di un’esperienza spirituale e di preghiera che condivide passo passo nel dialogo, nella consultazione, nella risposta concreta alla situazione umana vulnerabile. Francesco crea le condizioni strutturali di un dialogo reale e aperto, non preconfezionato e studiato a tavolino strategicamente. Egli non ha avuto remore nel dire, nell’omelia di Pentecoste del 2020, a proposito dell’esperienza del Cenacolo: «Gli Apostoli vanno: impreparati, si mettono in gioco, escono».
Chiaramente questa visione implica che il pastore sia inserito pienamente nel popolo di Dio, appartenga al suo popolo. Come esempio concreto, pensiamo a ciò che è accaduto in Cile. Nella sua Lettera dell’8 aprile 2018, indirizzata ai vescovi del Cile a seguito del report consegnato da mons. Charles Scicluna circa gli abusi compiuti da parte del clero, Francesco ha scritto: «Per quanto mi riguarda, riconosco, e voglio che lo trasmettiate fedelmente, che sono incorso in gravi errori di valutazione e percezione della situazione, in particolare per mancanza di informazioni veritiere ed equilibrate. Fin da ora chiedo scusa a tutti quelli che ho offeso e spero di poterlo fare personalmente, nelle prossime settimane, negli incontri che avrò con rappresentanti delle persone intervistate».
Da queste parole ben si comprende che solo «immergendosi» nel popolo e nelle sue sofferenze il Papa si è reso conto dei fatti. Ma questo, come si vede, è una forma di governo, tocca in maniera strutturale il governo della Chiesa, non è solamente una questione di stile. Le idee preconfezionate non servono e le informazioni possono non essere equilibrate e veritiere: solo l’incontro e l’immersione permettono il governo saggio.
È questa una riforma di stile istituzionale forse ancora tutta da comprendere e da studiare, specialmente se messa in rapporto ai tempi che viviamo, alla presente stagione ecclesiale e al futuro del cristianesimo. Una delle sue icone più efficaci è forse quella di un Pontefice che in pieno tempo di pandemia, da solo, in una piazza San Pietro vuota, lancia un messaggio Urbi et Orbi e benedice eucaristicamente il mondo.
Questo modo di procedere si chiama «discernimento»: è il discernimento della volontà di Dio nella vita e nella storia. Sebbene esso si compia nell’ambito del cuore, dell’interiorità, la sua materia prima è sempre l’eco che la realtà riverbera nello spazio interiore. È un atteggiamento interiore che spinge a essere aperti al dialogo, all’incontro, a trovare Dio dovunque egli si faccia trovare, e non solamente in perimetri predeterminati, ben definiti e recintati.
E soprattutto non si fa discernimento sulle idee, anche tra le idee di riforma, ma sul reale, sulle storie, sulla concreta storia della Chiesa, perché la realtà è sempre superiore all’idea[9]. Per questo il punto di partenza è sempre storico e consiste innanzitutto nel riconoscere che «Dio lavora e opera per me in tutte le cose create sulla faccia della terra»[10]. Le azioni e le decisioni, dunque, devono essere accompagnate da una lettura attenta, meditativa, orante dell’esperienza. E la vita dello spirito ha i propri criteri. Per esempio, quando viene avanzata una proposta di riforma, per Francesco non è solo importante la proposta in sé, ma anche lo spirito – buono o cattivo – che la porta avanti. Questo emerge non soltanto dal che cosa viene proposto, ma anche dal modo, dal linguaggio con il quale quella proposta viene espressa. Gli Esercizi spirituali di sant’Ignazio, del resto – come aveva ben capito il semiologo Roland Barthes[11] –, generano un linguaggio che è tutto da discernere.
Un appunto del Papa condiviso con «La Civiltà Cattolica»
La Congregazione generale di un Sinodo, ad esempio, per il Papa è un tempo di «esercizio spirituale», nel quale si sperimentano consolazioni e desolazioni, dove parlano lo spirito buono e lo spirito cattivo e dove sono comuni anche le tentazioni sotto apparenza di bene. Proprio a questa situazione si riferisce un appunto personale che il Santo Padre ha voluto condividere con La Civiltà Cattolica. In esso si leggono riflessioni che ci aiutano a capire. Francesco scrive che a volte il «cattivo spirito» finisce «per condizionare il discernimento, favorendo posizioni ideologiche (da una parte e dall’altra), favorendo estenuanti conflitti fra settori e, quel che è peggio, indebolendo la libertà di spirito così importante per un cammino sinodale».
Si verifica in questo caso «un’atmosfera che finisce per distorcere, ridurre e dividere l’aula sinodale in posizioni dialettiche e antagoniste che non aiutano in alcun modo la missione della Chiesa. Perché ognuno trincerato nella “sua verità” finisce per diventare prigioniero di se stesso e delle sue posizioni, proiettando in non poche situazioni le proprie confusioni e insoddisfazioni. Così, camminare insieme diventa impossibile».
Facendo riferimento al Sinodo per l’Amazzonia, riguardo all’ordinazione sacerdotale di viri probati, Francesco scrive: «C’è stata una discussione… una discussione ricca… una discussione ben fondata, ma nessun discernimento, che è qualcosa di diverso dall’arrivare a un buono e giustificato consenso o a maggioranze relative». E prosegue: «Dobbiamo capire che il Sinodo è più di un Parlamento; e in questo caso specifico non poteva sfuggire a questa dinamica. Su questo argomento è stato un Parlamento ricco, produttivo e persino necessario; ma non più di questo. Per me questo è stato decisivo nel discernimento finale, quando ho pensato a come fare l’Esortazione».
Non si tratta qui di risolvere la questione tra chi ha ragione e chi ha torto, né tantomeno di dire se il Papa è d’accordo o meno con il tema dell’ordinazione sacerdotale di viri probati. Qui si pone la questione del come si prende una decisione, della forma mentis e della necessità di un discernimento che sia veramente libero.
Allora «una delle ricchezze e l’originalità della pedagogia sinodale sta proprio nell’uscire dalla logica parlamentare per imparare ad ascoltare, in comunità, ciò che lo Spirito dice alla Chiesa; per questo propongo sempre di tacere dopo un certo numero di interventi. Camminare insieme significa dedicare tempo ad un ascolto onesto, capace di farci rivelare e smascherare (o almeno di essere sinceri) l’apparente purezza delle nostre posizioni e di aiutarci a discernere il grano che – fino alla Parusia – cresce sempre in mezzo alle erbacce. Chi non ha realizzato questa visione evangelica della realtà si espone a un’inutile amarezza. L’ascolto sincero e orante ci mostra le “agende nascoste” chiamate alla conversione. Che senso avrebbe l’assemblea sinodale se non fosse per ascoltare insieme ciò che lo Spirito dice alla Chiesa?».
L’appunto trae questa conclusione: «Mi piace pensare che, in un certo senso, il Sinodo non sia finito. Questo tempo di accoglienza di tutto il processo che abbiamo vissuto ci sfida a continuare a camminare insieme e a mettere in pratica questa esperienza».
Il Sinodo, dunque, è un luogo di discernimento nel quale emergono proposte. Il magistero pontificio che ne scaturisce con le Esortazioni apostoliche è di ascolto delle proposte, ma anche di discernimento dello spirito che le esprime, al di là di ogni pressione mediatica o di maggioranze referendarie. Esso valuta pure se il discernimento è stato realmente tale o è stato piuttosto una disputa. E quindi valuta se è messo in grado di prendere una decisione oppure no. Se non ci sono le condizioni, il Papa semplicemente non procede, senza però negare la validità delle proposte. Chiede invece di proseguire nel discernimento e lascia aperta la discussione[12].
Un processo aperto e storico
Per Francesco, la disposizione interiore nell’assumere le decisioni è chiaramente espressa negli Esercizi spirituali: «Non volere nessuna cosa che non sia mossa unicamente dal servizio di Dio Nostro Signore» (n. 155), per cui si fa una cosa o l’altra in base a un unico criterio: «se corrisponde al servizio e alla lode della sua divina bontà» (n. 157), cosa che si comprende misticamente, non funzionalisticamente.
Le decisioni di governo del Papa «sono legate a un discernimento spirituale», che «riscatta la necessaria ambiguità della vita e fa trovare i mezzi più opportuni, che non sempre si identificano con ciò che sembra grande o forte»[13]. Ascolta dunque consolazioni e desolazioni, cerca di capire dove lo conducono e prende le sue decisioni in accordo con questo processo spirituale.
Tutto questo Francesco l’ha appreso dalla lezione di san Pietro Favre, che nel suo Memoriale distingue «tutto il bene che potrò compiere» e «la mediazione dello Spirito buono e santo» con il quale lo può fare o meno. Quindi, anche nel processo di riforma della Chiesa c’è un bene che potrebbe essere compiuto senza la mediazione dello Spirito. O ci sono «cose vere» che possono essere dette non con lo «spirito di verità» (Memoriale, n. 51). Questa sapienza spirituale di Favre era ben presente nella lezione di p. Miguel Ángel Fiorito, che fu padre spirituale del Papa[14].
Come abbiamo già detto, per Francesco san Pietro Favre è il «prete riformato». Compito del riformatore è iniziare o accompagnare i processi storici. Questo è uno dei princìpi fondamentali della visione bergogliana: il tempo è superiore allo spazio. Riformare significa avviare processi aperti e non «tagliare teste» o «conquistare spazi» di potere. È proprio con questo spirito di discernimento che Ignazio e i primi compagni hanno affrontato la sfida della Riforma protestante.
Il Papa ha ben chiaro il contesto, la situazione di partenza; è informato, ascolta pareri; è saldamente aderente al presente. Tuttavia, la strada che intende percorrere è per lui davvero aperta, non c’è una road map soltanto teorica: il cammino si apre camminando. Dunque, il suo «progetto» è, in realtà, un’esperienza spirituale vissuta, che prende forma per gradi e che si traduce in termini concreti, in azione. Non un piano che fa riferimento a idee e concetti che egli aspira a realizzare, ma un vissuto che fa riferimento a «tempi, luoghi e persone», secondo un’espressione tipica di Ignazio; dunque, non ad astrazioni ideologiche, a uno sguardo teorico sulle cose. Per cui quella visione interiore non si impone sulla storia cercando di organizzarla secondo le proprie coordinate, ma dialoga con la realtà, si inserisce nella storia – a volte paludata o fangosa – degli uomini e della Chiesa, si svolge nel tempo.
Francesco è il Papa degli «esercizi», come il superiore che – nella sua visione – deve essere «guida dei processi e non mero amministratore»[15]. Questa è, a suo avviso, la forma del vero «governo spirituale»[16]. Il pontificato bergogliano e la sua volontà di riforma non sono e non saranno solamente di ordine «amministrativo», ma di avviamento e di accompagnamento di processi: alcuni rapidi e folgoranti, altri estremamente lenti. E mai cadono in quella forma di pragmatismo che identifica la riforma in sé con il documento che la vara.
In riflessioni scritte quando era padre gesuita e durante il suo incarico di Provinciale dei gesuiti argentini, Bergoglio spiega questa dinamica del processo con intelligenza spirituale e pratica. Usa un’immagine molto efficace di origine evangelica: «Veniamo incoraggiati a edificare la città, ma forse bisognerà abbattere il modellino che ci eravamo disegnati nella nostra testa. Dobbiamo prendere coraggio e lasciare che lo scalpello di Dio raffiguri il nostro volto, anche se i colpi cancellano alcuni tic che credevamo gesti»[17].
La pars destruens, che consiste nell’abbattere il «modellino», è funzionale a lasciare alle mani di Dio lo scalpello. Ecco un’altra nota interessante per comprendere l’azione di Francesco: «Nei processi, aspettare significa credere che Dio è più grande di noi stessi, che è lo stesso Spirito che ci governa»[18]. Il Papa vive una costante dinamica di discernimento, che lo apre al futuro, anche a quello della riforma della Chiesa, che non è un «progetto», ma un «esercizio» dello spirito che non vede solamente bianchi e neri, come vedono coloro che vogliono sempre fare «battaglie». Bergoglio vede sfumature e gradualità, cerca di riconoscere la presenza dello Spirito e il seme già piantato della sua presenza nei percorsi ecclesiali.
Un processo attento a trovare il massimo nel minimo
Il principio che sintetizza questa visione evolutiva è il motto: Non coerceri a maximo, contineri tamen a minimo, divinum est, che si potrebbe tradurre: «Non esser costretto da ciò che è più grande, essere contenuto in ciò che è più piccolo, questo è divino»[19].
Questo pensiero accompagna Bergoglio almeno dagli anni in cui era Provinciale, come documenta un suo saggio dal titolo Conducir en lo grande y en lo pequeño, forse il più rilevante[20]. In tale saggio egli afferma che non c’è nulla che sia grande o piccolo di per sé: «Sant’Ignazio non considera ciò che è “piccolo”, o “grande”, o “debole”, o “forte” nel contesto di una visione funzionalista del mondo, ma piuttosto nella concezione spirituale della vita»[21].
Che cosa vuol dire il Papa? Che il grande progetto di riforma può realizzarsi nel gesto minimo, nel piccolo passo, persino nell’incontro con una persona, ad esempio, o nell’attenzione a una particolare situazione di bisogno. È questo anche il motivo per cui Francesco non si rivolge solamente e genericamente alle autorità, ai governanti o a categorie di persone, ma spesso direttamente anche ai soggetti vittime di situazioni negative o di sfruttamento. Punta al piccolo, alla situazione concreta, che però ha in sé il seme della riforma evangelica.
Ma questo significa anche che le «forme» del suo magistero diventano flessibili. La nota di un documento può valere più di un paragrafo; un’omelia a Santa Marta può essere più evangelicamente densa di un discorso ufficiale; un messaggio d’occasione può essere incisivo come un’esortazione apostolica[22]. La densità teologica del magistero di Francesco non rispetta funzionalisticamente le «forme» previste, ma si adatta ai tempi e ai momenti.
Un processo che affronta limiti, conflitti e problemi
Bergoglio non parla mai di un desiderio eroico e sublime. Non è «massimalista». Egli non crede a un idealismo rigido né a un «eticismo» né a un «“astrazionismo” spiritualista»[23]. Fanno parte integrante del cammino spirituale i limiti, i conflitti e i problemi. All’interno della crescita occorre, anzi, «non maltrattare i limiti»[24]. Con questa espressione Bergoglio intende mettere in guardia nuovamente dall’aggressione dell’idealismo, «che ha sempre la tentazione di proiettare sulla realtà lo schema ideale, senza tener conto dei limiti di quella realtà (quale che sia). Questo pericolo può comparire anche al livello ascetico: maltrattare i limiti per eccesso (pretendendo in maniera assolutistica) oppure per difetto (cedendo, non fissando paletti che andrebbero posti)»[25].
Non bisogna temere neppure i conflitti, che a volte scuotono e impauriscono. Francesco ha usato una bella immagine parlando ai superiori degli Ordini religiosi maschili nel novembre del 2013: «accarezzare i conflitti». Ma per Bergoglio la caratteristica stessa della Compagnia di Gesù è «rendere possibile armonizzare le contraddizioni»[26], cosa certo non favorita dalla rigidità, davanti alla quale il Papa spesso chiede di stare attenti. Le contraddizioni fanno parte di una storia feconda. Come pure i problemi, in realtà. A tal punto che non sempre è opportuno risolverli, scrive Bergoglio. Non è detto che un problema sia sempre da risolvere, immediatamente. C’è un discernimento che implica la storia e verifica i tempi e i momenti[27]. A volte un problema si risolve senza volerlo affrontare subito. Occorre dunque comprendere i processi in atto, anche rinunciando alle cose del momento. Queste sono parole importanti per capire l’atteggiamento di Francesco nei confronti della tempistica del processo riformatore.
Un processo che affronta tentazioni
La tentazione si annida spesso nelle istituzioni, specialmente in quelle alte, santamente sublimi. «Lo spirito cattivo – scrive Bergoglio – è abbastanza astuto da sapere che la sua battaglia diventa davvero difficile e ha scarse probabilità di vittoria quando deve affrontare uomini e comunità in cui il tratto dominante è la sapienza dello Spirito».
In questo caso esso agisce cercando di tentare sotto apparenza di bene. La finezza dell’argomentazione del «Nemico» si fa estrema, perché chi è tentato crede di dover agire per il bene della Chiesa. La maggiore sottigliezza consiste nel «farci credere che la Chiesa si stia snaturando e di tentare di convincerci che, quindi, noi dobbiamo salvarla, forse anche malgrado se stessa. Si tratta di una tentazione costante e presente sotto un’infinità di maschere diverse ma che in definitiva hanno tutte qualcosa in comune: la mancanza di fede nel potere di Dio che abita sempre nella sua Chiesa»[28].
Da qui anche «gli infecondi scontri con la gerarchia, i conflitti devastanti tra “ali” (per esempio, “progressista” o “reazionaria”) dentro la Chiesa… insomma, tutte quelle cose in cui “assolutizziamo” ciò che è secondario»[29]. Francesco, del resto, non è legato ad «ali» politiche. Apprezza invece l’onestà, che può essere propria dei progressisti come dei conservatori. Il suo giudizio prescinde pure dall’apertura o dalla chiusura «mentale»: è attratto dall’onestà del giudizio.
Invece l’ideologo (di «destra» o di «sinistra») vive spesso la tentazione sotto apparenza di bene, la quale ha l’effetto di staccare la Chiesa dalla realtà, dalla storia: è questo uno dei suoi risultati più disastrosi e pervasivi. Lo sperimentiamo, ad esempio, quando sorgono figure che sembrano volersi sostituire al Papa nella difesa della dottrina o della vera riforma, o quando esse seminano incertezza e confusione, lasciando persino immaginare pericoli per l’ortodossia o per il cambiamento[30]. E questo in particolare quando, nell’assumere tali atteggiamenti, l’ipocrisia induce a professare apertamente «devozione filiale» al Santo Padre e uno spirito di rispettosa «correzione fraterna».
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Oggi la tentazione nella quale rischiano di cadere alcuni commentatori e analisti è quella di immaginare un Papa che costruisce una road map di riforme istituzionali, elaborate con spirito progettuale, funzionalistico e organizzativo. Come pure la tentazione di proiettare i contenuti di tale mappa sul procedere del pontificato, e infine giudicarlo alla luce di tali criteri. Francesco ha nel discernimento la chiave dello sviluppo e del dinamismo – attualmente ben attivo – del suo ministero petrino.
Non c’è un piano astratto di riforma da applicare alla realtà. Pertanto, «gli Apostoli non preparano una strategia; quando erano chiusi lì, nel Cenacolo, non facevano la strategia, no, non preparavano un piano pastorale»[31]. Non è a questo livello che si trova il metro di valutazione del dinamismo del pontificato. C’è invece una dialettica spirituale che osserva e ascolta non soltanto i pensieri e le proposte per il cammino della Chiesa, ma anche da quale spirito (buono o cattivo) vengono, al di là della loro stessa validità in sé e per sé.
Comprendiamo, quindi, che occorre evitare il rischio di piegare la volontà di riforma alla «mondanità spirituale». Cediamo a tale mondanità tutte le volte che facciamo il bene, e tuttavia lo facciamo per raggiungere i nostri obiettivi, le nostre «idee» di Chiesa così come dovrebbe essere, non ispirati dal discernimento proprio della fede in Gesù.
La logica mondana resta l’ultima e più profonda tentazione – anche di carattere strutturale – contro cui lottare senza respiro nella Chiesa. Nella sua omelia nella Messa di Pentecoste del 2020 Francesco lo ha dichiarato apertamente: «Lo sguardo mondano vede strutture da rendere più efficienti; lo sguardo spirituale vede fratelli e sorelle mendicanti di misericordia»[32]. È proprio questo lo sguardo che sa vedere nella Chiesa un «ospedale da campo», immagine efficace della sua vera struttura. «Io vedo con chiarezza – disse il Papa a La Civiltà Cattolica nella sua prima intervista del 2013 – che la cosa di cui la Chiesa ha più bisogno oggi è la capacità di curare le ferite e di riscaldare il cuore dei fedeli, la vicinanza, la prossimità. Io vedo la Chiesa come un ospedale da campo dopo una battaglia. È inutile chiedere a un ferito grave se ha il colesterolo e gli zuccheri alti! Si devono curare le sue ferite. Poi potremo parlare di tutto il resto. Curare le ferite, curare le ferite…»[33].
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[1]. Cfr, ad esempio, A. Ivereigh, Tempo di misericordia. Vita di Jorge Mario Bergoglio, Milano, Mondadori, 2014.
[2]. Cfr Gli scritti di Ignazio di Loyola, Roma, AdP, 2007, 1017-1019.
[3]. Ivi, 1019.
[4]. A. Spadaro, «Intervista a Papa Francesco», in Civ. Catt. 2013 III 457.
[5]. L’edizione delle «Confessioni», curata da Michel de Certeau, è: P. Favre, Mémorial, Paris, Cerf, 1960. La nostra rivista ha pubblicato vari articoli a lui dedicati: S. Madrigal, «Pietro Favre, il pellegrino», in Civ. Catt. 2013 IV 371-383; B. O’Leary, «Il vocabolario spirituale di Pietro Favre. “Desiderium”, “affectus”, “devotio”, “cor”», ivi 459-472; R. García Mateo, «Pietro Favre, il luteranesimo e l’unità dei cristiani», ivi 543-556. Essi poi sono stati raccolti, insieme ad altri contributi, nel volume: A. Spadaro (ed.), Pietro Favre. Servitori della consolazione, Milano, Àncora, 2013.
[6]. Cfr A. Ivereigh, «Il Papa confinato. Intervista a Papa Francesco», in www.laciviltacattolica.it/news/il-papa-confinato-intervista-a-papa-francesco
[9] . Cfr EG 231-233.
[10]. Ignazio di Loyola, s., Esercizi spirituali, n. 236.
[11]. Cfr R. Barthes, Sade, Fourier, Loyola. La scrittura come eccesso, Torino, Einaudi, 1977.
[12]. Cfr A. Spadaro, «“Querida Amazonia”. Commento alla Esortazione apostolica di papa Francesco», in Civ. Catt. 2020 I 462-476.
[13]. Id., «Intervista a Papa Francesco», cit., 454.
[14]. Per p. Fiorito, la natura e la grazia propongono le loro «ragioni». Infine, la volontà, dopo aver combattuto per un certo tempo, si affida alla natura o alla grazia in seguito a un «motivo» che la muove. Proprio questo motivo finale e decisivo si presenta linguisticamente tramite formule, frasi che spingono all’azione: una «frase motivante», come la chiama Fiorito, che ne rivela l’origine. Cfr M. Á. Fiorito, Buscar y hallar la voluntad de Dios. Comentario prático de los Ejercicios Espirituales de san Ignacio de Loyola, Bilbao, Paulinas – Mensajero, 2013, 248-252. Cfr anche la fonte di questi ragionamenti: C. Judde, Œuvres spirituelles, Lyon, Perisses, 1883, II, 313-319.
[15]. J. M. Bergoglio, Nel cuore di ogni padre. Alle radici della mia spiritualità, Milano, Rizzoli, 2014, 88.
[16]. Ivi, 90.
[17]. Ivi, 274.
[18]. Ivi, 96.
[19]. La frase fa parte di un lungo epitaffio letterario, composto da un anonimo gesuita in onore di Ignazio di Loyola. Piaceva a tal punto a Hölderlin che la appose come motto al suo Hyperion. Francesco tuttavia la collega strettamente a ciò che scrive san Tommaso d’Aquino nella Summa Theologiae III, q. 1, art. 1, ad 4um: «Rispondiamo con le stesse parole di S. Agostino a Volusiano [Epist. 137, 2]: “La dottrina cristiana non insegna che Dio, calandosi nella carne umana, ha abbandonato o perduto il governo dell’universo, oppure lo ha come ristretto in quel minuscolo corpo: questa è l’immaginazione di uomini capaci di pensare solo alle realtà materiali. Ora, Dio è grande non per la mole, ma per la potenza: quindi la sua grandezza, raccogliendosi nelle piccole cose, non ne sente disagio (Deus autem non mole, sed virtute magnus est, unde magnitudo virtutis eius nullas in angusto sentit angustias). Come infatti il nostro fugace parlare viene ascoltato in un medesimo istante da molti e arriva a ciascuno per intero, così non è incredibile che l’eterno Verbo divino sia contemporaneamente tutto intero in ogni luogo”. E così non deriva alcun inconveniente dall’incarnazione di Dio».
[20]. Cfr J. M. Bergoglio, Nel cuore di ogni padre…, cit., 91-102.
[21]. Ivi, 94.
[22]. Si veda, ad esempio, il recente Messaggio di Francesco alle Pontificie Opere Missionarie: cfr A. Spadaro, «“Rompete tutti gli specchi di casa!”. Francesco scrive alle Pontificie Opere Missionarie», in Civ. Catt. 2020 II 471-479.
[23]. J. M. Bergoglio, Nel cuore di ogni padre…, cit., 37.
[24]. Ivi, 97.
[25]. Ivi, 95.
[26]. Ivi, 83. Il Papa fa una rapida lista di contraddizioni, che è utile leggere: «Noi gesuiti saremmo stati contemplativi e uomini d’azione; uomini di discernimento e uomini di obbedienza; uomini di opere “consolidate” e di missioni che quasi paiono incursioni; uomini che si dedicano a ciò che fanno con affetto totale e, d’altra parte, con una grande disponibilità (uomini altrettanto gesuiti quando forgiavano popoli e quando la loro casa si riduceva a un carretto: così sono stati i nostri missionari)» (ivi, 84).
[27]. Ivi.
[28]. Ivi, 22.
[29]. Ivi, 36.
[30]. Cfr ivi, 107. Le tentazioni sottili sub specie boni «generano offuscamento, perché davvero accecata è l’adesione quasi superstiziosa di molti settori della Chiesa ad alcuni strumenti scientifici di analisi della realtà; perché è cieca la pretesa di possedere lo spirito in molti movimenti carismatici, cieca la necessità di situarsi nella ristrettezza del dubbio critico, cieco l’oppio dei ricordi, tanto caratteristico dei tradizionalisti, che ci distoglie dalla creatività della memoria fedele; perché è cieco l’individualismo di chi traccia un programma di etica ideale senza avere il coraggio di abbracciare la realtà che procede con le sue possibilità» (corsivi nostri).
[31]. Francesco, Omelia nella solennità di Pentecoste, 31 maggio 2020.
[32]. Francesco poi ha affermato che gli Apostoli «avrebbero potuto suddividere la gente in gruppi secondo i vari popoli, parlare prima ai vicini e poi ai lontani, tutto ordinato… Avrebbero anche potuto aspettare un po’ ad annunciare e intanto approfondire gli insegnamenti di Gesù, per evitare rischi… No. Lo Spirito non vuole che il ricordo del Maestro sia coltivato in gruppi chiusi, in cenacoli dove si prende gusto a “fare il nido”. E questa è una brutta malattia che può venire alla Chiesa: la Chiesa non comunità, non famiglia, non madre, ma nido. Egli apre, rilancia, spinge al di là del già detto e del già fatto, Lui spinge oltre i recinti di una fede timida e guardinga. Nel mondo, senza un assetto compatto e una strategia calcolata si va a rotoli. Nella Chiesa, invece, lo Spirito garantisce l’unità a chi annuncia. E gli Apostoli vanno: impreparati, si mettono in gioco, escono. Un solo desiderio li anima: donare quello che hanno ricevuto. È bello quell’inizio della Prima Lettera di Giovanni: “Quello che noi abbiamo ricevuto e abbiamo visto, diamo a voi” (cfr 1,3)».
[33]. A. Spadaro, «Intervista a Papa Francesco», cit., 461 s.
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