@ - In migliaia sotto al consolato americano con le bandiere a stelle e strisce: "Trump aiutaci". Poi tornano gli scontri con la polizia: vandalizzati gli ingressi del metrò, distrutte alcune telecamere di sorveglianza.
HONG KONG. Qualche bandiera a stelle e strisce si era già vista nelle scorse settimane, tra i manifestanti mascherati di Hong Kong. Ma questa domenica pomeriggio sono decine a sventolare sotto i cancelli del consolato americano. Migliaia di cittadini sono venuti a invocare l'aiuto degli Stati Uniti, di Donald Trump, nella loro battaglia per la libertà. Cantano anche l'inno in inglese, le parole sono su dei foglietti di carta distribuiti dagli organizzatori o su file diffusi via telefono.
Chiedono che il Congresso americano approvi una legge, l'Hong Kong Human Rights and Democracy Act, che impegnerebbe Washington a difendere l'autonomia della città. È il più esplicito tentativo visto finora da parte del movimento di ottenere l'appoggio della superpotenza americana contro la superpotenza che fa paura, la Cina. E non a caso è anche la manifestazione in cui più esplicitamente si grida alla democrazia, il grande tabù del Partito comunista. Sono immagini e parole che non fanno piacere a Pechino, materiale per la sua paranoia e la sua propaganda sulle presunte interferenze straniere (americane) nei disordini di Hong Kong.
"Non ci illudiamo, sappiamo che Trump è un cialtrone", dice un ragazzo ventenne, mascherina ma abiti non da combattimento, che passeggia mano nella mano con la fidanzata. "Ma forse in questo momento i nostri interessi coincidono con quelli dell'America, e noi dobbiamo usare qualsiasi strumento per non farci sconfiggere". Sono in molti a pensarla come lui: ai loro occhi la guerra commerciale, la tensione tra Stati Uniti e Cina, allarga i margini di manovra. Altri invece vedono un rischio. In un intervento sotto pseudonimo pubblicato questa mattina da Hong Kong Free Press uno studente metteva in guardia il movimento dall'affidare le speranze di vittoria a una potenza straniera, fosse anche quella democratica. Specie se a guidarla è uno come Trump, che non sembra interessato alle battaglie per i diritti, Ma oggi tanti dicono che le speranze di vittoria sono comunque poche, tanto vale provarci.
Di certo il dissenso di Hong Kong non pare sbollito, nonostante in settimana Carrie Lam si sia finalmente decisa a ritirare la legge sull'estradizione. La partecipazione oggi non è enorme come in altre occasioni, ma sotto il sole del primo pomeriggio sono comunque arrivate decine di migliaia di persone, di tute le età e le estrazioni. Non si accontentano: vogliono che Lam risponda alle altre quattro domande, "non una di meno".
Verso le 16 la manifestazione regolarmente autorizzata e fino a quel momento pacifica degenera, un copione già visto. Gruppi di giovani manifestanti in abito da combattimento assaltano le uscite della metro, odiatissima perché accusata di boicottare la protesta e collaborare con la polizia. Distruggono vetrate e telecamere di sorveglianza, disegnano graffiti neri, rovesciano rifiuti e materiali di scarto sulle scale mobili di Central e Hong Kong, le due fermate che servono il cuore della città. Si formano le solite barricate, l'ingresso di una metro viene incendiato. Nelle strade intorno centinaia di colf filippine provano a continuare come se nulla fosse il loro picnic domenicale, una tradizione della comunità, ma alla fine si devono arrendere. "Vogliamo libertà, ci hanno rovinato la domenica", strilla una. Ma anche per lei il colpevole è chiaro: "La polizia!".
Alla fine verso le 17, dopo aver lasciato abbondantemente sfogare la rabbia dei giovani, la polizia arriva davvero. Alla vista degli agenti i manifestanti si disperdono, comincia una rincorsa al rallentatore verso Nord, lungo gli stradoni di Hong Kong, con qualche fumogeno, cariche e diversi arresti. Il quattordicesimo weekend di protesta, il primo dopo la "concessione" di Lam, lascia una scia di detriti e gas. Proprio come i precedenti.
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