domenica 16 giugno 2019

Golfo, Donald Trump recluta i "Volenterosi" armati

@ - Il presidente Usa ha affidato la costruzione della “Coalizione 2.0” contro l'iran a tre figure chiave della sua amministrazione: il segretario alla Difesa Shanahan, il consigliere per la Sicurezza nazionale Bolton e il segretario di Stato Pompeo.

Il “missile fumante” sostengono di averlo trovato, anche producendo un video. E ora via con la una nuova “Coalizione di volenterosi”, sedici anni dopo la prima: allora, nel 2003, contro Saddam Hussein. Oggi, contro il regime degli ayatollah. Donald Trump ha deciso affidando la costruzione della “Coalizione 2.0” a tre figure chiave della sua amministrazione: il segretario alla Difesa Patrick Shanahan, il consigliere per la Sicurezza nazionale John Bolton e il segretario di Stato Mike Pompeo. “Con l’ambasciatore ed il segretario di Stato Mike Pompeo siamo focalizzati per raggiungere il consenso internazionale su questo problema internazionale... Nelle ultime 24 abbiamo cercato attivamente di ottenere informazioni, condividiamo informazioni d’intelligence... Agiamo per ottenere il consenso internazionale”. Lo scorso febbraio lo stesso Bolton ha chiesto al Pentagono opzioni militari contro l’Iran. Non è affatto un caso se, dall’inizio dell’anno, l’ex ambasciatore Usa all’Onu, abbia rafforzato il suo staff con due falchi anti-Iran come Charles Kupperman e Richard Goldberg. Quest’ultimo, come annota The National Interest, “considera il regime di Teheran simile all’Unione Sovietica, un centro di una controcultura globale anti-americana” che occorre far cadere attraverso un cambio di regime.

Il “gioco” più in voga oggi a Washington è: trova la “pisola fumante”. Un “gioco” di guerra. L’Iran ha sparato un missile contro un drone americano prima dell’attacco alle petroliere nel Golfo dell’Oman. Lo riporta la Cnn citando un funzionario americano, secondo il quale il missile ha mancato il drone ed è finito in mare. Si trattava probabilmente di un velivolo di sorveglianza e quindi i Pasdaran volevano forse eliminare un occhio indiscreto prima degli attacchi. I funzionari Usa, rimasti anonimi, hanno aggiunto che nei giorni precedenti un missile di fabbricazione iraniana aveva colpito un altro drone statunitense, sul Mar Rosso, al largo delle coste yemenite dove operano i ribelli sciiti Houthi sostenuti da Teheran. Ieri Washington aveva mostrato un video che accusava gli iraniani di aver rimosso una mina magnetica inesplosa dalla fiancata di una delle due navi colpite giovedì. Contrari a una terza guerra nel Golfo sono soprattutto Cina e Russia. Della nuova “Coalizione dei volenterosi”, farà parte, come fu nella guerra con l’Iraq, il Regno unito. Londra si è aggiunta a Washington nell’accusare l’Iran per l’attacco di giovedì scorso a due petroliere nel Golfo dell’Oman. Venerdì sera il ministero degli Esteri britannico ha diffuso una nota in cui dice che “è quasi certo che un ramo dell’esercito iraniano – il corpo delle Guardie rivoluzionarie – abbia attaccato le due petroliere il 13 giugno. Nessuno altro stato o ente non statale potrebbe essere plausibilmente responsabile”. Il ministero cita una precedente aggressione portata avanti dall’Iran contro quattro petroliere nelle acque degli Emirati Arabi Uniti il 12 maggio, e conclude augurandosi che “l’Iran si prenda la responsabilità dell’attacco”.

E ad una “Coalizione di volenterosi” a presidio dello Stretto di Hormuz e del Golfo dell’Oman è il ministro degli Esteri degli Emirati Arabi Uniti, lo sceicco Abdullah bin Zayed al-Nahyan, citato dall’agenzia ufficiale Wam: “La regione è complessa e ha molte risorse, siano esse gas o petrolio, che sono necessarie per il resto del mondo. Vogliamo che il flusso di queste risorse rimanga sicuro per garantire la stabilità dell’economia mondiale”, ha affermato il ministro emiratino in un vertice in Bulgaria. Sul fronte opposto, Cina e Russia. “Una guerra nel Golfo è l’ultima cosa che vogliamo”, ha detto il presidente cinese Xi Jinping al collega iraniano, al vertice dell’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai in Kyrgyzstan. A Vladimir Putin, Rouhani ha chiesto di “intensificare i rapporti tra i due Paesi a fronte delle minacce e delle sanzioni esterne”. Teheran sta continuando a restare fedele all’accordo sul nucleare iraniano, nonostante le sanzioni americane, ma - ha dichiarato il presidente iraniano, Hassan Rouhani - “non può continuare a restarvi fedele unilateralmente, perché tutte le potenze firmatarie devono impegnarsi per salvarlo”. “In assenza di segnali positivi” da parte degli altri firmatari, l’Iran “continuerà a lavorare” per smettere di rispettare alcuni punti dell’intesa, ha aggiunto Rouhani da Dushanbe, in Tagikistan, a un summit della Conferenza sull’interazione e realizzazione di misure di reciproca fiducia in Asia (Cica). L’accordo sul nucleare iraniano, firmato a Vienna nel 2015, fu sottoscritto oltre che dagli Stati Uniti (poi usciti lo scorso anno), Cina, Russia, Gran Bretagna, Francia e Germania. Nell’ultimatum di 60 giorni di maggio, Rouhani chiese agli altri firmatari di “mitigare gli effetti delle sanzioni americane”, sentendosi libero altrimenti di riprendere ad arricchire l’uranio e a sviluppare del reattore di Arak.

La Repubblica islamica è ora asfissiata dalle sanzioni economiche americane. “Gli iraniani esportano 400 mila barili di petrolio al giorno contro 2,5 milioni di barili un anno fa”, dice ad HuffPost una fonte diplomatica occidentale che desidera rimanere anonima - Questo è sei volte di meno, per un’economia che fa molto affidamento sul petrolio. Una persona che teme lo strangolamento proverà a lottare con tutti i mezzi. Questo è ciò che sembra fare Teheran. Non può permettersi di lasciare che gli Stati Uniti facciano così male a un costo così basso. “La pentola bolle e l’Iran non lascerà andare così – rimarca ancora la fonte -. La stabilità del regime è in gioco. Più a lungo durano le sanzioni, maggiore è il rischio che il malcontento aumenti tra la popolazione, soprattutto perché la carenza esistente di alcuni prodotti potrebbe diffondersi”. “Il regime iraniano non può permettersi uno scontro diretto con gli Stati Uniti. Non ha alleati reali sulla scena internazionale, né un esercito abbastanza forte da resistere a quello dell’iper potenza mondiale, che resta tale almeno sul piano militare. Nonostante la sua retorica da falco, la Repubblica islamica non vuole una guerra con gli americani e il regime probabilmente non sopravviverebbe. Ma sembra determinato a sfruttare un certo margine di manovra che pensa di avere per dimostrare agli Stati Uniti che la regione sarà la prima a pagare il prezzo della loro politica anti-iraniana. Affrontare gli Stati Uniti è un suicidio, ma poiché a Teheran c’è chi non è affatto convinto che Trump voglia davvero imbarcarsi in una guerra che potrebbe costargli la rielezione alla Casa Bianca (si vota nel 2020, ndr), prova a trarne vantaggio”, riflette la fonte diplomatica.

Ma la distensione, almeno in Medio Oriente, non è una priorità per Pompeo, e per i suo “bracci operativi”: Bolton e Shanahan. O meglio, la distensione, nell’ottica dell’America first”, per essere contemplata deve venire a seguito di un ridimensionamento sostanziale della presenza iraniana nella regione; ridimensionamento che, nello schema pompeiano, è un passaggio ma non la meta. Perché la “meta” resta l’abbattimento del regime degli ayatollah. Ed è proprio la meta a dividere Stati Uniti ed Europa. Gli affari c’entrano, eccome, e aver deciso di uscire unilateralmente da un accordo fortemente voluto e oggi difeso dall’Europa, è anche uno schiaffo, pesante, inferto su questo piano da The Donald ai leader del Vecchio Continente. Ma gli affari non spiegano tutto. Perché alla base dell’accordo del 2005, c’era la convinzione, da parte europea e dell’allora presidente Usa Barack Obama, che “sdoganare” non il regime in toto, ma la sua componente riformatrice che aveva e ha in Rouhani il suo terminale, poteva fare dell’Iran un soggetto stabilizzatore dei conflitti che segnano il Grande Medio Oriente.

Un interlocutore da incalzare, non un nemico da abbattere. Rouhani, dal canto suo, aveva investito su quell’accordo, per vedersi riconosciuto questo ruolo di stabilizzatore e, cosa non meno importante, fare di quell’accordo il volano per l’ingresso di nuovi capitali occidentali, decisivi per dare corso a quelle promesse di riforme sociali ed economiche che hanno convinto i giovani, la classe media urbana, a sostenerlo contro i conservatori guidati dalla Guida suprema, l’ayatollah Ali Khamenei. Scegliendo la linea durissima, Trump e i suoi falchi sanno bene chi ne risulterà avvantaggiato nello scontro interno al regime iraniano: Ali Khamenei. Ma per raggiungere la meta finale, l’America di Trump ha bisogno che il volto dell’Iran sia il più impresentabile e minaccioso, per dimostrare che quel regime è irriformabile. E la ricerca del “missile fumante” va in questa direzione. Quanto alla “Coalizione dei volenterosi” 2.0, il reclutamento va avanti soprattutto in Medio Oriente, sull’asse Riyadh-Gerusalemme: Arabia Saudita, dunque, ma anche le petromonarchie del Golfo nell’orbita del Regno, vale a dire Bahrein, Oman, Emirati Arabi Uniti. Pompeo punta a rafforzare la “squadra” guardando, in particolare, all’Egitto del presidente-generale al-Sisi e alla Giordania di re Abdallah II. Una conferma viene da Gerusalemme. “Non c’è Paese del Medio Oriente in cui Teheran non abbia allungato i suoi tentacoli, direttamente, come in Siria, Iraq e Yemen, o indirettamente, come in Libano attraverso Hezbollah o a Gaza con Hamas e la Jihad islamica - dice ad HuffPost Yuval Steinitz, uno dei ministri israeliani più vicini a Netanyahu -. Una minaccia che ora si è estesa anche al Golfo. Occorre una risposta decisa, perché a Teheran chi comanda davvero, l’ayatollah Khamenei e il capo dei Pasdaran (il generale Soleimani, ndr) comprendono un solo linguaggio: quello della forza”.

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