Le parole semplici di Papa Francesco - Corriere.it: "La vorace macchina mediatica non si fa scappare nulla di papa Francesco, che ci gioca come farebbe un gigantesco gattone bianco con i topolini del giornalismo. A dar retta ai media dovremmo essere grosso modo a 847 «rivoluzioni» in venti mesi: dove rivoluzione viene usato per tutto ciò che il Papa fa e il Papa dice. Questo istinto universale dei titolisti deriva in parte della quota ordinaria di papolatria che accompagna l’inizio dei pontificati e che Francesco stesso — quando ha sgridato i ragazzi che scandivano il suo nome in una delle prime grandi udienza — può solo deprecare e sopportare con la sua ironica bonomia.
In parte questa eccitazione per tutto ciò che di nuovo il Papa fa o che si dice sia nuovo è frutto dell’amnesia collettiva contagiosa diffusa dall’ipertrofia dei social (come quell’inchino al patriarca a Istanbul che ha è diventata una fotonotizia mondiale, ma che era ben poca cosa confronto a Paolo VI che bacia il piede del metropolita Melitone in un gesto di cui però mancano gli scatti).
In parte, però, questo moltiplicarsi delle «rivoluzioni» bergogliane che rimescolano gesti simpatici e scelte di governo, posizioni teologiche e nomine, atti di magistero e battute riportate — serve inconsciamente a occultare quello che non è necessario che sia una rivoluzione per essere importante: e cioè il modo di essere cristiano di quel cristiano che è Bergoglio, il modo di essere vescovo del Francesco vescovo. Un modo — uno stile, direbbe Christophe Théobald — che assume il vangelo con semplicità, con radicalità, con fiducia.
La semplicità è quella che soprattutto soffrono (e amano) i teologi: che si sentono spiazzati da un rapporto col racconto della fede che sembra far a meno dell’elaborazione intellettuale e teologica. Il che non è tecnicamente vero.
Papa Francesco infatti, non so perché, detesta il citazionismo: quel continuo ricorrere del superego ad «auctoritates» che quanto più lontane e bislacche sono, tanto più attirano l’ammirazione degli incompetenti che confondo la cultura con il virtuosismo erudito. Che non lo pratichi è una virtù: ma in lui c’è qualcosa di più. Un volontario misconoscimento delle fonti storiche, esegetiche, teologiche del suo discorso: che è ovviamente nutrito da letture molto diverse, che però non indica mai, alle quali non fa mai appello, per lasciare che sia la parola evangelica come tale a far presa sugli uditori nella sua radicalità.
Radicalità che invece inquieta (e affascina) i fedeli: perché quella di Bergoglio non è una parola che usa il radicalismo come un frustino per deprecare ideologicamente i vizi della modernità o altri soggetti identificati con gli «-ismi» di ratzingeriana memoria (relativismo, laicismo, ecc.).
Ma è un ascolto del Vangelo nella sua esigenza ultima: quella che gli fa usare parole dure e chiare sulla povertà, sulla mitezza; oppure sulla calunnia con la durezza del superiore provinciale della Compagnia di Gesù di una «casa» che sa benissimo che senza una coralità di virtù vedrà corrompersi la vita comune e lo scopo stesso della militanza fraterna.
Cosa che non piace al tradizionalismo o «conservatorismo» cattolico, abituato a parlar male di un «mondo» da cui si sentiva distante, ma che non lascia tranquilla neppure quella zona riformatrice o «progressista» che credeva che la vita cristiana fosse scuoter la testa sui mali del centro e del potere, come se la corruzione di questi non fosse matrice di epidemie gravi.
Epidemie che richiedono un uso sapiente del Vangelo: sul quale è l’episcopato che giustamente si sente chiamato in causa e si trova davanti a una difficoltà (che è però la ragione stessa della loro vocazione) all’uso del Vangelo che fa Bergoglio. Un uso oggettivamente audace: perché Francesco ricorre alla parola biblica con radicalità, senza apparenti mediazioni, e quindi muovendosi su un confine che normalmente intimidisce i vescovi.
Il fondamentalismo biblico e il letteralismo sono una grande patologia delle chiese libere e pentecostali, che sono oggi l’ala marciante del cristianesimo, in termini di conversioni: è evidente fondamentalismo e radicalismo biblico appartengono a due modi distinti e divergenti di vivere la vita cristiana, fra letteralismo e adesione spirituale al testo delle scritture, sono diversi come il bianco e il nero. Diversi, distinti, divergenti: ma oggettivamente confinanti.
La «fede dei semplici» — l’argomento classico che tutti i repressori hanno usato contro il rinnovamento della Chiesa — è in grado di distinguerli? Per Francesco sì: ha fiducia nel «sensus fidei» che gli permette di predicare l’evangelo come lo predica lui e di sapere che esso possa essere compreso, soprattutto da chi ne ha più bisogno — e cioè le persone segnate e ferite, da sé, dalla vita, da tutte e due."
In parte questa eccitazione per tutto ciò che di nuovo il Papa fa o che si dice sia nuovo è frutto dell’amnesia collettiva contagiosa diffusa dall’ipertrofia dei social (come quell’inchino al patriarca a Istanbul che ha è diventata una fotonotizia mondiale, ma che era ben poca cosa confronto a Paolo VI che bacia il piede del metropolita Melitone in un gesto di cui però mancano gli scatti).
In parte, però, questo moltiplicarsi delle «rivoluzioni» bergogliane che rimescolano gesti simpatici e scelte di governo, posizioni teologiche e nomine, atti di magistero e battute riportate — serve inconsciamente a occultare quello che non è necessario che sia una rivoluzione per essere importante: e cioè il modo di essere cristiano di quel cristiano che è Bergoglio, il modo di essere vescovo del Francesco vescovo. Un modo — uno stile, direbbe Christophe Théobald — che assume il vangelo con semplicità, con radicalità, con fiducia.
La semplicità è quella che soprattutto soffrono (e amano) i teologi: che si sentono spiazzati da un rapporto col racconto della fede che sembra far a meno dell’elaborazione intellettuale e teologica. Il che non è tecnicamente vero.
Papa Francesco infatti, non so perché, detesta il citazionismo: quel continuo ricorrere del superego ad «auctoritates» che quanto più lontane e bislacche sono, tanto più attirano l’ammirazione degli incompetenti che confondo la cultura con il virtuosismo erudito. Che non lo pratichi è una virtù: ma in lui c’è qualcosa di più. Un volontario misconoscimento delle fonti storiche, esegetiche, teologiche del suo discorso: che è ovviamente nutrito da letture molto diverse, che però non indica mai, alle quali non fa mai appello, per lasciare che sia la parola evangelica come tale a far presa sugli uditori nella sua radicalità.
Radicalità che invece inquieta (e affascina) i fedeli: perché quella di Bergoglio non è una parola che usa il radicalismo come un frustino per deprecare ideologicamente i vizi della modernità o altri soggetti identificati con gli «-ismi» di ratzingeriana memoria (relativismo, laicismo, ecc.).
Ma è un ascolto del Vangelo nella sua esigenza ultima: quella che gli fa usare parole dure e chiare sulla povertà, sulla mitezza; oppure sulla calunnia con la durezza del superiore provinciale della Compagnia di Gesù di una «casa» che sa benissimo che senza una coralità di virtù vedrà corrompersi la vita comune e lo scopo stesso della militanza fraterna.
Cosa che non piace al tradizionalismo o «conservatorismo» cattolico, abituato a parlar male di un «mondo» da cui si sentiva distante, ma che non lascia tranquilla neppure quella zona riformatrice o «progressista» che credeva che la vita cristiana fosse scuoter la testa sui mali del centro e del potere, come se la corruzione di questi non fosse matrice di epidemie gravi.
Epidemie che richiedono un uso sapiente del Vangelo: sul quale è l’episcopato che giustamente si sente chiamato in causa e si trova davanti a una difficoltà (che è però la ragione stessa della loro vocazione) all’uso del Vangelo che fa Bergoglio. Un uso oggettivamente audace: perché Francesco ricorre alla parola biblica con radicalità, senza apparenti mediazioni, e quindi muovendosi su un confine che normalmente intimidisce i vescovi.
Il fondamentalismo biblico e il letteralismo sono una grande patologia delle chiese libere e pentecostali, che sono oggi l’ala marciante del cristianesimo, in termini di conversioni: è evidente fondamentalismo e radicalismo biblico appartengono a due modi distinti e divergenti di vivere la vita cristiana, fra letteralismo e adesione spirituale al testo delle scritture, sono diversi come il bianco e il nero. Diversi, distinti, divergenti: ma oggettivamente confinanti.
La «fede dei semplici» — l’argomento classico che tutti i repressori hanno usato contro il rinnovamento della Chiesa — è in grado di distinguerli? Per Francesco sì: ha fiducia nel «sensus fidei» che gli permette di predicare l’evangelo come lo predica lui e di sapere che esso possa essere compreso, soprattutto da chi ne ha più bisogno — e cioè le persone segnate e ferite, da sé, dalla vita, da tutte e due."
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