@ - Questo testo è stato pubblicato su Global, la newsletter di Federico Rampini: per riceverla È rinato un impero arabo, e si sta comprando l’Egitto, tra l’altro. È una delle «potenze regionali» che contendono ad altri attori – America, Cina, Russia – l’influenza su un’area strategica del mondo, che spazia dal Medio Oriente al Maghreb fino all’Africa subsahariana. Nei giorni scorsi l’Arabia Saudita ha spinto l’Opec a tagliare nuovamente la produzione di petrolio, un gesto che potrebbe avere ripercussioni anche sull’inflazione in Europa, e sulla forza militare di Putin in Ucraina. Soprattutto, è interessante osservare gli usi che Riad fa della ricchezza petrolifera: per modernizzare non solo la propria economia, ma anche quella di un gigante nordafricano malato, l’Egitto. Un aiuto a Putin?
Attenzione al nuovo impero arabo, che si espande (e ci riguarda)
© Fornito da Corriere della Sera
I tagli decisi dall’Opec – cartello dei paesi petroliferi – in parte erano scontati, sono la presa d’atto che la domanda mondiale non è molto vigorosa perché la crescita è rallentata. L’Opec ridurrà la propria offerta di petrolio di 1,1 milioni di barili a partire da maggio. Anche la Russia, che fa parte dell’Opec+, taglierà leggermente la propria produzione. Il calcolo è che questi tagli servano a far risalire i prezzi, aumentando le entrate dei produttori: questo potrebbe aiutare lo sforzo bellico di Putin (che dopo le sanzioni occidentali vende il suo petrolio, a prezzi scontati, soprattutto a Cina e India). Siamo ancora lontani dai prezzi che il greggio raggiunse nel marzo 2022 subito dopo l’invasione dell’Ucraina, a quota 125 dollari il barile. Opec e Russia sperano di sospingerlo dall’attuale quota 80 verso i 90 dollari il barile, con l’aiuto della ripresa economica cinese che alimenta i consumi in quel paese.
In rotta con Washington
Guardando all’aspetto geopolitico di questa decisione, è l’ennesimo schiaffo che il 37enne principe saudita Mohammed bin Salman (abbreviato in MbS e ritratto nella foto) sferra a Joe Biden e a tutto l’Occidente. L’America, e ancora più l’Europa, gli alleati come Giappone e Corea del Sud, hanno interesse a una moderazione nei prezzi petroliferi per contenere l’inflazione. Ma il principe MbS è un trumpiano o un sovranista che usa lo slogan «Saudi First». Non esita a entrare in rotta di collisione con gli interessi degli Stati Uniti, malgrado l’aiuto militare che riceve da Washington. Lo si è visto di recente con il disgelo diplomatico fra Riad e Teheran, un’operazione «firmata» Xi Jinping. L’Arabia ha usato i buoni uffizi della Cina (sollevando apprensione alla Casa Bianca) nel ristabilire le relazioni con il nemico Iran. L’operazione è funzionale a ridurre le incognite per la stabilità strategica nel Golfo Persico. Più che descrivere un’Arabia che si avvicina a Pechino, bisogna vedere la strategia saudita come coerente con una logica da vera potenza, autonoma e determinata ad affermare i propri interessi.
I grandi cantieri sauditi
Tra le priorità del principe MbS c’è la modernizzazione della sua economia: il modello è Dubai, il che include anche un ridimensionamento del potere clericale e una moderata liberalizzazione delle regole islamiche. Poi ci sono i mega-cantieri che devono trasformare la fisionomia dell’Arabia: il gigantesco resort turistico in costruzione sul Mar Rosso, che avrà una superficie uguale a quella dell’intero Belgio; la megalopoli hi-tech da 500 miliardi di dollari in costruzione in mezzo al deserto, 33 volte più vasta di New York. Questi sono i progetti-vetrina, dietro c’è una strategia che punta a diversificare l’economia saudita rendendola meno dipendente dal petrolio: gli investimenti vanno in tutte le direzioni, da settori tradizionali come il turismo alle energie rinnovabili. Ad alimentarli, c’è la potenza di fuoco di un fondo sovrano che amministra 650 miliardi di dollari.
L’Egitto diventa una colonia saudita
Il nuovo impero arabo ha una proiezione internazionale importante. Presta e investe in molte aree del mondo, soprattutto in Medio Oriente e in Africa. Detta le sue condizioni. Spesso agisce d’intesa con il Fondo monetario internazionale. In questo modo si sta conquistando un’influenza enorme in Egitto, paese-chiave per l’influenza che il Cairo ha esercitato storicamente nel mondo islamico e in Nordafrica. Anche il Sudan è tra i primi destinatari dei nuovi investimenti del fondo sovrano saudita: altri 24 miliardi di dollari sono stati ripartiti su poche nazioni per massimizzare l’effetto (l’annuncio di questa tranche è del 2022). Il cordone ombelicale che lega l’Egitto all’Arabia saudita non è una novità. Dal 2013 al 2020 Riad ha versato 46 miliardi di dollari al Cairo, tra prestiti della banca centrale, investimenti diretti, forniture «amichevoli» di petrolio e gas. Molti di quei fondi però in passato venivano donati o prestati a condizioni di favore. E talvolta l’Egitto, sprofondando da una crisi all’altra, non riusciva a restituirli. Ora la strategia di MbS imprime una svolta. Il nuovo impero arabo ha perso fiducia nella capacità egiziana di gestire gli aiuti. Quindi chiede in cambio che pezzi dell’economia egiziana finiscano sotto il controllo saudita. Questo converge con una richiesta del Fondo monetario, anch’esso irritato per l’inefficienza del generale al-Sisi. Il Fmi nel suo ultimo pacchetto di aiuti ha richiesto al dittatore del Cairo che riduca l’opprimente ruolo del settore pubblico – soprattutto l’esercito – nell’economia egiziana. L’idea è che l’Egitto potrebbe svilupparsi molto meglio se liberasse le energie della sua imprenditoria privata. La prospettiva più concreta e probabile, è che il generale al-Sisi finisca per cedere a queste pressioni, ma che le privatizzazioni vadano in mano a imprenditori sauditi. Al Cairo si sono levate voci che lamentano la strisciante perdita di sovranità a vantaggio dei sauditi. Ma sono state silenziate dal regime, che non ha potere contrattuale data la sua debolezza economica, e deve cedere alle richieste di MbS. Un celebre giornalista egiziano, Abdelrazek Tuwfik, ha descritto i sauditi come «ex-straccioni, ora nuovi ricchi, che non devono dettare il futuro dell’Egitto». Il suo commento è stato cancellato dalla censura di Al-Sisi.
Una visione da potenza egemonica
Il trattamento riservato all’Egitto potrebbe estendersi anche al suo vicino meridionale, il Sudan. L’impero arabo in fase di rilancio diventa un altro attore rilevante tra quelli che si contendono un ruolo nel futuro dell’Africa, tra l’altro. E Riad obbedisce alle sue priorità, che di volta in volta possono convergere o divergere da quelle di Washington, Pechino, Mosca. Da notare che in Italia si è diffusa l’opinione – spesso imprecisa se non addirittura del tutto infondata – che gli Stati Uniti abbiano «profittato» economicamente della guerra in Ucraina (ho spiegato altrove che il vantaggio economico, per l’industria energetica o militare, è trascurabile sul Pil americano). Un sicuro profittatore della guerra invece è proprio l’Arabia: ha chiuso il 2022 con un surplus imprevisto di 28 miliardi di dollari nel suo bilancio statale, grazie all’impennata dei prezzi petroliferi dopo l’invasione dell’Ucraina.
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