mercoledì 7 dicembre 2022

Trump, Kanye West e il nazista: la cena della vergogna a Mar A Lago

@ - La candidatura di Trump alle presidenziali è ulteriormente compromessa dalle sue frequentazioni. Ecco perché.


L’onda rossa alle elezioni di medio termine non c’è stata, scrivevo a caldo, a spoglio in corso, nel blog pubblicato immediatamente dopo la chiusura dei seggi. Oggi è possibile un’analisi più ragionata sulle prospettive del voto presidenziale del 2024. Viene confermato che, nei due rami del Congresso, il Gop ha sostanzialmente perso, mentre avrebbe dovuto, e potuto, stravincere. Il Senato è infatti rimasto sotto il controllo dei democratici (qualsiasi esito possa sortire dal ballottaggio in Georgia il 6 dicembre per assegnare il centesimo seggio) che si sono già assicurati 50 senatori. Poiché la legge conferisce al vice presidente degli Stati Uniti il ruolo di presidente del Senato, con l’annesso potere di votare su ogni misura in caso di parità 50 a 50 tra i senatori, la vicepresidente Kamala Harris romperà lo stallo a beneficio dei Dem quando sarà il caso, esattamente come è stato nel primo biennio di Biden. Quanto alla Camera, sono stati assegnati finora 433 seggi, sul totale di 435, e il Gop ha ottenuto 220 deputati, contro 213 per i Dem, quindi ha una maggioranza risicatissima.

Eppure, e questa è la sorpresa che sparge sale sulle ferite repubblicane, gli americani che hanno scelto i candidati del Gop sono stati oltre 54 milioni (54.324.214), oltre 3 milioni in più dei 51 milioni (51.169.450) che hanno votato per i democratici (nel conteggio alla data del primo dicembre). In percentuale, il vantaggio è del 3%, ossia il 50,7% al Gop e il 47,8% ai Dem. Uno scarto di questa portata, dicono le statistiche, di solito si traduce in una conquista tra i 20 e i 30 deputati, mentre stavolta non è arrivata a 10. Se una (relativa) onda rossa a livello nazionale c’è stata, in altre parole, è finita contro gli scogli sbagliati, e non ha prodotto l’effetto politico atteso dai repubblicani, come pure dai sondaggisti.

I dati di dettaglio, Stato per Stato, sono una conferma del fallimento della leadership dell’ex presidente. Nei distretti degli Stati di New York, California, Florida, i repubblicani hanno raccolto le poche vittorie, niente affatto scontate alla vigilia, che hanno consentito al Gop, per lo meno, di passare in maggioranza alla Camera e di scalzare Nancy Pelosi dalla posizione di speaker.

Ma nei primi due Stati, per tradizione solidamente democratici, non è stata di sicuro l’influenza di Trump a migliorare la performance del Gop, bensì la fallimentare gestione democratica dei problemi sul territorio (la criminalità, i senza tetto a New York: 4 seggi conquistati; l’immigrazione clandestina, l’“educazione woke”, il costo della benzina a sei dollari al gallone in California: 2 seggi conquistati) ha generato un voto di reazione e protesta pro Gop. In Florida, è stato invece il governatore Ron DeSantis, con i suoi 4 anni di buona amministrazione a svolgere un ruolo positivo e di traino.

Su DeSantis torneremo in un prossimo blog, mentre per Trump vale subito qualche considerazione di sapore strategico negativo. Una è il cambio di percezione verso di lui dell’opinione pubblica, e dei media d’ogni colore. L’ex presidente ha lanciato la sua candidatura ufficiale, una settimana dopo il voto, spinto dall’urgenza di far dimenticare le sconfitte dei suoi “fedelissimi”, immolati alla causa del negazionismo trumpiano sulla vittoria dell’avversario. Ciò aveva trasformato il voto, da referendum su inflazione e crisi economica ed energetica contro un presidente democratico con il 40% di consensi, a mobilitazione in difesa della “democrazia minacciata da Trump” e dai suoi seguaci nella folle sommossa del 6 gennaio 2021 al Campidoglio di Washington.

Il Gop, ormai sempre più spaccato tra i fedeli a Trump e i fedeli a una idea di conservatorismo repubblicano che lavora per il dopo Trump, ha pagato caro alle urne l’atteggiamento e le mosse dell’ex leader, sempre meno indiscusso. Anzi, sempre più nel mirino per il suo comportamento auto-distruttivo. Trump, che non era mai stato convincente al 100% nel distanziarsi dagli estremisti dei gruppuscoli dei suprematisti bianchi e dei nostalgici del nazi-fascismo, stavolta si è superato. Ha accolto a cena a casa sua, a Mar A Lago, Kanye West, il rapper nero che negli ultimi mesi era diventato tristemente noto per dichiarazioni esplicitamente anti-semite. West si è presentato a cena con un suo amico, il 24enne Nick Fuentes, famigerato negazionista dell’Olocausto, che era già salito alle cronache nere per aver partecipato al raduno pro-Confederati di Charlottesville nel 2017.

Da poco presidente, con la sua posizione di condanna, pelosa, nel giudicare quella manifestazione violenta, Trump fornì ai suoi critici, Biden in testa, il destro per attaccarlo, da allora, come amico dei fascisti e degli antisemiti. Per forzata, o falsa, o strumentale che fosse l’accusa (il genero Kushner è ebreo, e la figlia Ivanka, sua moglie, si era convertita da tempo all’ebraismo) la cena di fine la novembre 2022 ha ora un valore di condanna irreversibile sul carattere e l’affidabilità, personale e politica, dell’uomo. Che Trump abbia poi detto di non sapere chi fosse Fuentes di certo non lo assolve, semmai aggrava il giudizio: colpevolmente ignorante? Socialmente incontinente? Irreparabilmente indisciplinato nelle sue relazioni? O semplicemente stupido, inqualificabile per la carica di contendente alla nomination repubblicana. È, tra gli altri, quello che ha fatto capire il capo dei senatori del Gop Mitch McConnell: «Chi cena con gli antisemiti è improbabile che sia mai eletto presidente», ha detto commentando la cena della vergogna.

Quello di Trump è stato un passo diretto, oggettivamente penalizzante, nella sua campagna per riconquistare la fiducia della maggioranza del partito repubblicano, per non parlare dell’elettorato in senso lato. Ma poi, a proposito di percezione, c’è un nemico più subdolo degli stessi autogol di Trump. Il calo di interesse, il senso di “fatigue”, di stanchezza. Ricordiamoci che, nel 2015 per farsi strada, ne disse di tutti i colori, o contro i messicani, o John McCain, o i giudici ispanici. Faceva scalpore, scandalo, audience stellari, e con i tweet affinò la tecnica di sfruttare i media. Ora, per il lancio della sua campagna “urgente” ha letto un discorso che, nei suoi contenuti, potrebbe essere persino condiviso da McConnell, tanto è intriso di buon senso politico repubblicano e scarico della verve dissacrante di un tempo. Così, il fatto nuovo è che nessuna Tv lo ha trasmesso per intero: quelle di sinistra ne hanno fatto fugaci cenni, e persino la Fox l’ha tagliato dopo 40 minuti. In generale, non ha lasciato traccia nell’agone politico. Insomma, il “personaggio” non tira più.

Ed Elon Musk, nuovo padrone di Twitter, gli ha fatto un doppio sgarbo: ha detto che lo ha riammesso, perché escluderlo era stato un grande errore dei precedenti proprietari, ma che gli sta benissimo se Trump non farà alcun Tweet, come l’ex presidente ha annunciato sul suo network personale, Truth Social, dove ha messo un sacco di soldi e che in pochi utilizzano (1,7 milioni di utenti, contro i 238 milioni di Twitter). Il secondo dispetto? Musk ha risposto “sì” con un tweet a chi gli ha chiesto se nel 2024 appoggerà il repubblicano Ron DeSantis. Per Musk è un cambio di partito: aveva sostenuto prima Obama e poi, nel 2020, Biden.

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