@ - La Ue ha dato il via libera alla prima tranche da 24 miliardi perché sono stati raggiunte tutte le 51 condizioni previste. Si tratta però di “traguardi” di natura qualitativa, con pochi provvedimenti concreti che possano essere verificati.
L'Italia si è impegnata a spendere 222 miliardi del programma Next Generation EU, più di qualsiasi altro paese. Di questi, 123 miliardi verranno presi a prestito, tre volte il volume di prestiti richiesto da tutti gli altri paesi dell’Unione messi insieme. Ben 21 Paesi su 28, tra i quali la Spagna - che pure paga sui propri titoli di stato interessi molto più alti di quelli previsti dai prestiti comunitari - prenderanno solo le sovvenzioni del programma, cioè i soldi regalati dalla UE.
I 222 miliardi sono una somma enorme. Molti danno quasi per scontato, autoevidente che il Piano Nazionale di Rilancio e Resilienza (Pnrr), che gestirà questa spesa, dovrà portare a un aumento duraturo del tasso di crescita dell’economia, facendoci uscire dalle secche della crescita (quasi) zero dell’ultimo ventennio. Ma non è affatto scontato: se spesa male questa montagna di miliardi potrebbe addirittura ostacolare la crescita. E spendere bene 222 miliardi aggiuntivi in poco tempo è difficilissimo.
Cosa è stato fatto in questo primo anno di vita del Pnrr per cominciare a vincere questa difficilissima scommessa? Secondo il Governo tutte le 51 le condizioni imposte dalla Commissione Ue entro il 2021 per erogare la prima tranche del progetto sono state soddisfatte e, in effetti, i primi 24 miliardi sono stati stanziati. Un passo salutato da molti con un entusiasmo pericoloso. Ben 50 di queste 51 condizioni erano di natura qualitativa, “traguardi” anziché “obiettivi” quantitativi verificabili sulla base di riscontri oggettivi. Inoltre, era davvero difficile pensare che la Commissione potesse bocciare subito il primo beneficiario del programma. L’approvazione della Commissione non è quindi un riscontro attendibile dei progressi compiuti nel 2021. Recentemente il governo ha trasmesso al Parlamento un resoconto di 100 pagine su quanto fatto sin qui.
Purtroppo la nota dominante del documento è la genericità.
Ad esempio, il traguardo numero 5, “hub del turismo digitale”, è stato raggiunto con la seguente annotazione: «sono state avviate numerose attività tecniche e un tavolo di lavoro interistituzionale in seno alla Conferenza delle Regioni, per il coordinamento degli stakeholder esterni finalizzato alla discussione dei principali temi che concorrono allo sviluppo delle politiche turistiche in chiave digitale. Inoltre, è in corso il consolidamento della partecipazione del Ministero del turismo al consorzio AI PACT (Artificial Intelligence for Public Administration Connected)”.
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I punti 11, 12 e 13 riguardano la legislazione attuativa della riforma dei processi civile, penale e nel caso di crisi d’impresa. Ma dalla scheda predisposta dal Ministero della Giustizia si evince che nessun decreto attuativo delle leggi delega è stato ancora varato (sono stati solo «istituiti i gruppi di lavoro per la riforma del processo penale e sono in corso di costituzione quelli per la riforma del processo civile»). In realtà, ci dicono alcuni esperti in materia da noi consultati, nonostante la grande pubblicità di queste riforme non è affatto chiaro quanto effettivamente si accorceranno, in media, i tempi dei processi. Ed era questo il punto essenziale di queste riforme.
Sulle politiche attive del lavoro il documento scrive che «sono avanzati i lavori per la definizione del format del Piano di attuazione regionale, ossia la declinazione a livello territoriale del programma GOL. Sono avanzati anche i lavori dei sottogruppi tematici, in particolare quello per la definizione della profilazione e dell’assessment, nonché i lavori propedeutici all’aggiornamento dei costi standard».
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E potremmo continuare. L’impressione è quella di un resoconto puramente formale, di affermazioni aventi lo scopo di barrare una casella, con ben pochi contenuti o provvedimenti concreti.
Ovviamente sarebbe ingiusto chiedere a un governo che deve gestire l’emergenza sanitaria di varare 50 riforme in meno di un anno. Contava, però attuare subito quei provvedimenti “abilitanti” che serviranno per rendere possibile l’attuazione del piano nei prossimi anni. Ma è proprio su questo terreno che si scontano i maggiori ritardi. Ne indichiamo due.
Molti progetti saranno gestiti dagli enti locali. Occorrono quindi stazioni appaltanti di dimensioni medio-grandi in grado di gestire progetti di grosse dimensioni, invece delle miriadi che esistono ora. Ma non ci risulta che siano state prese iniziative per ridurre il numero delle stazioni appaltanti, importante anche per ridurre i rischi di corruzione, né che siano stati fatti passi avanti nel costruire un sistema di rating dei fornitori (con relativa banca data per il monitoraggio sistematico della performance dei fornitori). Eppure bastava attuare la riforma del Codice degli Appalti del 2016.
Occorre poi dotare la PA di tecnici in grado di attuare e monitorare il piano. È positivo che si sia cominciato ad assumere. Ma, come messo in rilievo dall’Ufficio Parlamentare di Bilancio, lo si sta facendo riducendo la selettività dei concorsi (ad esempio con selezioni basate unicamente su colloqui a distanza senza chiarire peraltro come si sceglieranno i candidati da sottoporre a colloquio), piuttosto che adeguando le remunerazioni o prevedendo percorsi di carriera per attrarre un maggior numero (e una qualità più elevata) di partecipanti. Insomma, se vogliamo vincere la scommessa fatta dal nostro Governo conta non solo spendere in fretta, ma anche e soprattutto spendere bene. E su questo è importante tenere alta la guardia: da qui in poi conteranno i fatti, non le parole.
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