giovedì 26 agosto 2021

I veri rischi dopo il fallimentare G7 sull’Afghanistan

@ - Il G7 sull’Afghanistan è stato una letterale barzelletta. Ma nel frattempo sono passati quasi inosservati alcuni dati interessanti provenienti dagli Usa.


Non so se vi siete accorti, ma il cosiddetto Occidente, quello che vorrebbe imporre modelli ed esportare democrazia, ha appena collezionato la più colossale prova di impotenza che la storia recente ricordi. Il G7 sull’Afghanistan è stato una letterale barzelletta, una sesquipedale presa in giro dei più basilari principi di quella stessa democrazia che si invoca oggi per Kabul. Gli Usa sono arrivati al tavolo con la decisione del ritiro il 31 agosto già presa. E non da Joe Biden, bensì dalla CIA. Il cui numero uno il giorno prima del consesso virtuale era proprio nella capitale afghana per incontrare il capo dei Talebani e, con ogni probabilità, a trattare per evitare problemi con le condizioni di evacuazione da qui a fine mese. Lo ha scritto non smentito il Washington Post, non la Pravda.

Gli altri partecipanti hanno presentato il loro compitino formale, ovvero la richiesta in senso opposto di restare nel Paese anche oltre la data prestabilita per il ritiro definitivo. Alla faccia del non si tratta con i Talebani, gli Usa hanno trattato alla grande. Inviando il capo dell’intelligence in persona e fregandosene, come al solito, del parere altrui. Già così basterebbe. Ma c’è di peggio. Perché dar vita a una riunione che sulla carta doveva essere operativa senza invitare i due players maggiori nell’area, ovvero Cina e Russia, equivale alla convocazione di un meeting della Uefa sul futuro della Champions League che veda oggi escluse Chelsea e Paris Saint-Germain. Eppure, tutti con le orecchie tese per carpire le ultime geniali intuizioni dei grandi per salvare il popolo afghano dalle grinfie dei barbuti.

Siamo veramente al tramonto. Oltretutto, coscienti di esserlo. Ma così pieni di noi stessi da proseguire con retoriche fuori tempo massimo come quelle della Nato. La quale, in effetti, dal quadrante afghano esce veramente a testa alta e con grande dignità: militari rimasti per 20 anni in un Paese straniero per servire interessi che con la democrazia hanno poco a che spartire e che adesso si prestano giocoforza al ruolo di addetti alla sicurezza aeroportuale, quasi un customer care di emergenza. E costosissimo. D’altronde, cosa stia sviluppandosi sottotraccia appare chiaro da subito.

Prendiamo l’Europa, ad esempio. Come si è presentata al G7? In ordine sparso, ovviamente. Anzi, in punta di clamorosa contraddizione interna. Perché quando il presidente di turno, lo sloveno Janez Jansa, stronca sul nascere qualsiasi ipotesi di corridoio umanitario, apparentemente senza che questa posizione sia stata decisa collegialmente con gli altri Stati membri, capite da soli che dietro c’è il nucleo forte del Nord. Non a caso, in contemporanea con il G7, dalla Germania arrivava la notizia del sorpasso della Spd sulla Cdu in vista del voto del 26 settembre. Per la prima volta da 15 anni a questa parte, i socialdemocratici strappavano il primato ai cristiano-sociali. Che inglorioso addio si prospetta per Angela Merkel, tutto a causa di un candidato alla successione degno del Muppet Show. Il prezzo politico delle porte aperte verso i siriani nel 2015 è stato alto e Angela Merkel ha buona memoria.

Spiace dirlo, ma occorre guardare in faccia la realtà, per quanto cinica possa apparire. Non a caso, il cancelliere austriaco, Sebastian Kurz, ha immediatamente chiuso a ogni ipotesi di ricollocamento di profughi nel suo Paese. Senza che il presidente della Repubblica, ambientalista e super-progressista, si sentisse in dover di aprire bocca. Viktor Orban, idem. Insomma, la Mitteleuropa teme non tanto i corridoi umanitari quanto la parallela invasione della rotta balcanica per i flussi non coordinati. Tradotto, tratta di clandestini.

E quando la Grecia, nazione che da tutti viene indicata come esempio di società solidale e per questa vittima della Troika, alza a tempo di record un muro di 40 chilometri con la Turchia, qualcosa stona. Una delle nazioni con lo Stato più inefficiente del mondo si scopre una succursale della Svizzera, quando c’è da blindare i propri confini: non vi pare strano?

Signori, guardiamo in faccia la realtà: per quanto strepitino tutti in punta di diritti umani, è altrettanto chiaro a chiunque che il ritorno al potere dei Talebani è stato una diretta conseguenza dell’incapacità occidentale di operare. Se lo stesso Charles Michel, presidente del Consiglio europeo, al termine del G7 ha parlato di solidarietà ma a certe condizioni, appare chiaro quale tragica e vergognosa pantomima sia in atto. I Talebani hanno vinto sul campo, sbaragliando l’esercito afghano e facendolo apparire agli occhi del mondo per quello che era: il corrispettivo delle Strumtruppen. Oppure una forza di collateralisti e fiancheggiatori. Senza il supporto operativo dei soldati stranieri, si sono sciolti come neve al sole. E gli stessi Talebani hanno dovuto rallentare la marcia, altrimenti avrebbero preso Kabul già a inizio agosto.

Venti anni di occupazione, miliardi spesi in addestramento ed ecco i risultati. E abbiamo anche politici che si permettono di dire che con i Talebani non si tratta e che il loro Governo non deve ottenere legittimazione internazionale tramite il dialogo: ma se abbiamo creato noi le condizioni per il loro ritorno, di cosa stiamo parlando? E da quando, poi, la pace si fa con gli amici soltanto? Vogliamo bombardare di nuovo il Paese, al fine di cacciare i barbuti dalle istituzioni un’altra volta? Forza, avanti: a quanto pare, la prima puntata non è bastata.

Signori, dal suo splendido isolamento, la Russia è stata chiara: la precondizione di tutto è un no alla presenza di forze Usa in Asia Centrale. Tradotto, cari americani, fate pure la guerra a Nord Stream 2, sfruttando il caos politico tedesco ed europeo in generale, ma, al netto del rubinetto in mano nostra, la stanza dei bottoni dei gasdotti, la Heartland delle risorse, da oggi per voi è territorio vietato. Salvo intenzioni bellicose, verso cui né Mosca né Pechino appaiono però particolarmente timorosi. Il Nuovo Secolo Americano preconizzato, teorizzato e messo in pratica dai neo-con di George W. Bush a colpi di bombe e patti con il diavolo pare giunto anzitempo al termine. Sono bastati una ventina d’anni per mostrarne la corda. Certo, l’insipienza di Joe Biden ci ha messo del suo per tramutare in farsa ciò che in realtà è una tragedia. Ma se dell’America mi interessa davvero poco, se non che pensi a se stessa e lasci il mondo al suo destino, ho grossa preoccupazione per una politica italiana che si muove in contesto simile con la delicatezza e l’intelligenza strategica di un elefante bendato e sotto anfetamine in una cristalleria.
Qui la questione non è essere filo-cinesi o difendere invece l’appartenenza atlantica, qui la questione è capire quale sia la via d’uscita dal gioco di ruolo cominciato nell’inverno del 2020. E ancora in atto. O, almeno, apparentemente in atto. Perché sapete cosa è accaduto il 24 agosto, in straordinaria contemporanea con la pantomima del G7? Lo mostra questo grafico elaborato da Bank of America in base alle metriche IHME della University of Washington (riconosciute dal CDC): l’America ha scollinato il picco della variante Delta. Di fatto, sta uscendo dall’emergenza. Senza lockdown, senza obblighi particolari, senza nulla di differente dai mesi scorsi. A parte un paio di cose.

La certificazione della Fda rispetto al vaccino Pfizer, apripista per il riconoscimento di status ufficiale anche per gli altri sieri che finora sono stati somministrati di fatto sub judice su base sperimentale. Detto fatto, il Pentagono ha subito prospettato la vaccinazione obbligatoria per tutti i militari Usa. E sono tanti, davvero tanti. Non a caso, in Borsa si è festeggiato. Tanto. In attesa della certificazione della terza dose e del booster di richiamo.

Secondo, ogni criticità macro dell’economia può venire imputata alla variante Delta, quindi garantire alibi per interventi tampone almeno da qui a fine anno. Poiché, giocoforza, le letture del terzo e quarto trimestre patiranno gli effetti nefasti dell’ennesimo stop (e non dei disequilibri di fondo e strutturali delle varie economie). Insomma, si stampa e si sostiene ancora un po’. Si calcia il barattolo, per l’ennesima volta. E domani a Jackson Hole, vedremo se Jerome Powell confermerà la strategia o azzarderà un impegno al taper, con tempistiche comunque che vedano terminare gli acquisti attorno al settembre 2022. Mentre qui, cosa accade? Il dibattito pare tutto incentrato su tre temi: Afghanistan, Lamorgese e Durigon. In compenso, arriva il primo effetto sgradito dall’emergenza agli sgoccioli: cartelle esattoriali che ripartono dal 1° settembre. E, soprattutto, il mancato rifinanziamento da parte del Governo dell’indennità da quarantena. Tradotto, se ora non saranno le aziende a pagarlo (e Confindustria non pare dell’avviso), il lavoratore costretto a casa dal virus rischia un drastico taglio allo stipendio. Sgradevole come realtà da ingoiare.

Ma niente paura: in sottofondo abbiamo la nenia ossessiva dei mullah tornati a Kabul e negli occhi le scene di panico all’aeroporto, debitamente immortalate e rilanciate dai social. Praticamente, una dissimulazione da premio Oscar. L’ennesima.

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