@ - «Per me è morto ieri». Rosaria Costa non lo nomina nemmeno il fratello, arrestato ieri per mafia. È la vedova dell'agente Vito Schifani, morto insieme al magistrato Giovanni Falcone nella strage di Capaci, l'attentato esplosivo compiuto da Cosa Nostra il 23 maggio 1992. Il suo discorso durante i funerali rimane uno dei momenti più intensi della storia italiana del Novecento. «Io vi perdono ma vi dovete inginocchiare», invocò in lacrime.
Il fratello Giuseppe Costa, ufficialmente muratore, di fatto, dicono gli investigatori, riscossore del pizzo per conto del clan, è accusato di associazione mafiosa.
La donna si è sfogata in un'intervista a Repubblica, un urlo di rabbia alla notizia dell'arresto di Giuseppe Costa. Si dice «devastata» ma, allo stesso tempi, sostiene che «la mafia non mi fermerà, mi hanno voluto colpire al cuore per quelle parole che ho detto. La mafia non mi fermerà, continuerò il mio impegno».
IL FIGLIO: «CHI RIMANE LÌ O MUORE O DIVENTA COME LORO»
«Con mio zio non c'erano rapporti. Da tempo. Zero rapporti». A dirlo all'Adnkronos e Emanuele Schifani, figlio di Vito Schifani, l'agente di scorta di Giovanni Falcone morto nella strage di Capaci, commentando l'arresto dello zio Giuseppe Costa, fratello della madre Rosaria, perché ritenuto uomo d'onore della Famiglia mafiosa dell'Arenella di Palermo. Poi, il giovane Schifani, che è capitano della Guardia di Finanza, aggiunge: «Purtroppo, chi rimane lì, o muore o diventa come loro...». E aggiunge: «Per combattere bisogna allontanarsi, riorganizzarsi e tornare più forti».
LO STORICO DISCORSO AI FUNERALI DI FALCONE E DEI TRE AGENTI DELLA SCORTA
Il ricordo della strage di Capaci resta legato alla sua immagine: una giovane donna in lacrime, appena rimasta vedova, che non riesce a seguire il «copione» suggerito dal sacerdote che le sta accanto. Durante i funerali di Giovanni Falcone e dei tre agenti della scorta, in una chiesa stracolma e disperata, rivolgendosi ai mafiosi che le hanno ucciso il marito, Rosaria Schifani urla: «Io, Rosaria Costa, vedova dell'agente Vito Schifani mio, a nome di tutti coloro che hanno dato la vita per lo Stato, lo Stato..., chiedo innanzitutto che venga fatta giustizia, adesso. Rivolgendomi agli uomini della mafia, perché ci sono qua dentro, ma certamente non cristiani, sappiate che anche per voi c'è possibilità di perdono: io vi perdono, però vi dovete mettere in ginocchio, se avete il coraggio di cambiare. Ma loro non cambiano, loro non vogliono cambiare. Vi chiediamo per la città di Palermo, Signore, che avete reso città di sangue, troppo sangue, di operare anche voi per la pace, la giustizia, la speranza e l'amore per tutti. Non c'è amore, non ce n'è amore...».
L'ARRESTO DI GIUSEPPE COSTA: L'ACCUSA È ASSOCIAZIONE MAFIOSA
Tra gli arrestati nel blitz della Dia che ha riportato in cella il boss palermitano Gaetano Scotto c'è Giuseppe Costa, ufficialmente muratore, di fatto, dicono gli investigatori, riscossore del pizzo per conto del clan. La notizia circolata come indiscrezione in nella giornata di ieri è stata confermata poche ore dopo dagli inquirenti. Giuseppe Costa è accusato di associazione mafiosa: sarebbe affiliato alla famiglia di Vergine Maria. Per conto della cosca avrebbe tenuto la cassa, gestito le estorsioni, «convinto» con minacce le vittime - imprenditori e commercianti - a pagare la «tassa» mafiosa, assicurato alle famiglie dei mafiosi detenuti il sostentamento. Ristoranti, negozi, concessionarie di auto, imprese: nel quartiere pagavano tutti e Costa sarebbe stato tra i collettori del pizzo.
Gli inquirenti lo descrivono come pienamente inserito nelle dinamiche mafiose della «famiglia», tanto che, alla scarcerazione del boss della zona, Gaetano Scotto, per rispetto al padrino invita le sue vittime a dare il denaro direttamente a lui. L'indagine fotografa anche il ruolo di vertice che Scotto aveva riconquistato nel clan. Già accusato di mafia, il boss è ora parte civile nel processo sul depistaggio delle indagini sulla strage di via D'Amelio, costata la vita al giudice Paolo Borsellino. Accusato ingiustamente da falsi pentiti fu condannato all'ergastolo e poi scarcerato. Oggi siede come vittima davanti ai tre poliziotti accusati di aver depistato l'indagine. Nel blitz di oggi è stato coinvolto anche il fratello Pietro, tecnico di una società di telefonia, anche lui accusato nell'inchiesta sull'uccisione di Paolo Borsellino. Per la polizia aveva captato la chiamata con cui il magistrato comunicava alla madre che stava per andare a farle visita nella sua abitazione di via D'Amelio davanti alla quale fu piazzata l'autobomba. Pietro Scotto, condannato in primo grado, era stato poi assolto in appello.
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