@ - L'Italia non è la Cina: evitiamo le psicosi da Coronavirus e lavoriamo ad una catena di approvvigionamento sostenibile e resiliente.
Un mese fa il distretto di Wuhan è stato chiuso per contenere il contagio da Coronavirus, il governo cinese ha prolungato le vacanze scolastiche a fine febbraio, le strade hanno cominciato a svuotarsi, ristoranti e negozi a chiudere, le piattaforme di shopping online ad essere subissate di richieste. Molti retailers hanno chiuso le attività: IKEA, Uniqlo e Levi al 50%. Burberry e Prada hanno perso visitatori, la settimana della moda di Shanghai è stata annullata.
L’Italia non è la Cina
Dai contatti di lavoro in Cina ho potuto cogliere smarrimento, preoccupazione e nervosismo. Situazioni e provvedimenti che stiamo iniziando a vivere anche in Italia. Ma nel nostro Paese, in cui le infrastrutture sanitarie e di assistenza sociale sono tra le migliori al mondo, si può evitare di cadere in simili scenari ridimensionandone gli impatti del Coronavirus, almeno se ondate di panico multimediale e propagandistico non alimenteranno fenomeni di psicosi collettiva.
Di fronte alle discontinuità e alle crisi, le società lottano per mantenere le attività il più “normali” possibile.
Impatto nel breve termine
I mercati azionari hanno registrato il colpo con una caduta degli indici per ora nell’ordine del 5%. La riduzione degli scambi commerciali cross-border potrebbe anche innescare processi inflazionistici che penalizzerebbero anche il mercato obbligazionario, generando una rotazione dei portafogli, in primis da parte dei grandi investitori istituzionali.
L’impatto più immediato si avverte nei settori di attività globali che dipendono fortemente dal commercio e dal turismo, in particolare nei settori dell’abbigliamento, dell’elettronica, dei beni di consumo, degli alimenti e delle bevande e in quello automobilistico. Indubbiamente nel medio periodo gli impatti saranno anche di natura strutturale.
Le strategie di risposta dei Governi variano: alcuni minimizzano la crisi per rimanere aperti agli scambi commerciali il più a lungo possibile, altri hanno un atteggiamento più prudente anche con provvedimenti di chiusura delle frontiere. COVID-19 ha messo in evidenza la tendenza di molti paesi a negare o nascondere le bandiere rosse al fine di evitare impatti economici, ma questo approccio può portare ad una crisi di fiducia nelle istituzioni e nei rapporti internazionali.
Strategie di ripresa
La grande domanda però rimane: quando tutto tornerà alla normalità? Per le comunità e le famiglie colpite dal Coronavirus, per le persone in tutto il Paese preoccupate per la propria salute e per le aziende interessate al benessere dei propri lavoratori che si chiedono quando le attività produttive e commerciali si normalizzeranno.
Questa è diventata una sfida significativa per tutte le aziende, in particolare nei settori manifatturiero e servizi. Più si allungano i tempi, più aumenta la pressione finanziaria per gli imprenditori e i lavoratori.
Consideriamo giustamente l’epidemia di coronavirus prima in termini umani, monitorando il tasso e il grado di infezione e concentrandoci sul costo umano, gli effetti spesso tragici sulla vita e sulle comunità locali e familiari. Ma poi ci si trova anche di fronte ad un cambiamento storico dei rapporti economici e sociali.
Le aziende si trovano ad affrontare grandi sfide su come gestire le scorte ormai non solo nel mercato cinese e su come effettuare ordini futuri. Poiché molte fabbriche cinesi sono chiuse, anche i produttori del sud-est asiatico sono colpiti dalla mancanza di materie prime e componenti. L’impatto del Coronavirus sulla Cina e sul business globale, in particolare sulle catene di approvvigionamento, sarà significativo.
Una lezione da imparare
Un aspetto importante e che solleva un’altra domanda che riguarda gli impatti strutturali e gli sviluppi futuri delle catene di fornitura, ovvero su come costruire una catena di approvvigionamento sostenibile e resiliente, perché i beni e i servizi che forniscono toccano milioni e milioni di vite.
In un recente articolo, la società di consulenza Kearney sottolinea che l’entità della perturbazione che caratterizza i mercati globali non rende più sostenibile la strategia della catena di approvvigionamento convenzionale. Le aziende dovranno ripensare le strategie logistiche, riconfigurando le loro catene di approvvigionamento globali per offrire la massima soddisfazione del cliente prevenendo le discontinuità piuttosto che gestirle con risposte reattive.
Le produzioni just-in-time su richiesta e l’eliminazione del magazzino si sono ormai diffusi e consolidati in tutte le aziende. Tali politiche e prassi operative avranno impatti negativi in molte aziende, in quanto quei modelli gestionali non immunizzano sufficientemente contro una grave interruzione della catena di approvvigionamento.
Il mantenimento di livelli di inventario/magazzino più elevati può costare fino all’1% in termini di maggiori oneri, ma in caso di crisi, i livelli di inventario più elevati sono compensati in termini di soddisfazione del cliente e posizionamento competitivo. È meglio avere una scorta sufficiente e non averne bisogno piuttosto che averne bisogno e non averla. Si dovrà imparare a convivere con inventari più elevati di quanto suggeriscano i modelli logistico-distributivi convenzionali, flessibilizzando una parte della catena di approvvigionamento. Tagliare gli inventari fino all’osso in nome dell’efficienza può infatti rivelarsi una manovra ad alto rischio anche all’interno di un solo paese.
Analoghe considerazioni valgono per le politiche di concentrazione dei fornitori. Certo, si può risparmiare e massimizzare le economie di scala acquistando prevalentemente da un fornitore, ma quando quel fornitore si trova nell’epicentro di una crisi, pandemica o meno, i vantaggi superano i maggiori rischi?
L’epidemia di Coronavirus verrà certamente superata ed è ragionevole ritenere che le catene logistico-produttive globali si normalizzeranno tra qualche mese. Per compensare la produzione persa durante l’epidemia è anche verosimile che inizialmente possano funzionare a tassi di attività più elevati per colmare i gap di fornitura, ma nel medio termine dovranno realizzare dei cambiamenti strutturali per minimizzare impatti sociali, economici e finanziari.
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