venerdì 15 novembre 2019

Il Vaticano, Pechino e il rebus di Hong Kong. Ma papa Francesco non resterà in silenzio

@ - Durante il viaggio in Giappone forse le prime risposte. C’è il timore di essere schiacciata su posizioni anti-cinesi. E il rischio di apparire subalterna.

In Vaticano stanno analizzando da mesi la causa e le implicazioni delle proteste a Hong Kong. Ma non hanno ancora assunto una posizione ufficiale. Sanno che si tratta di un tema al quale la Cina è ipersensibile: ancora di più dopo gli ultimi scontri sanguinosi. Qualunque presa di posizione può incrinare l’accordo temporaneo e segreto di due anni con il regime di Pechino sulla nomina dei vescovi: un’intesa da confermare e rinnovare nel settembre del 2020, e tuttora circondata da un alone di mistero e diffidenze. In più, i vertici della Santa Sede indovinano in quanto accade a Hong Kong dinamiche ambigue: in parte messe in moto da problemi reali per l’ingerenza cinese crescente sull’isola-Stato, in parte «strumentalizzate e anzi fomentate da qualcuno negli Stati uniti. I cinesi lo dicono in modo piuttosto chiaro», si fa notare nella cerchia papale. La Santa Sede non sa come andrà a finire, e finora ha taciuto per non essere schiacciata su posizioni anti-cinesi.

Ma si tratta di un attendismo che rischia di apparire, oltre che frutto di realpolitik, di subalternità a Pechino. Per questo, si è deciso di andare oltre le dichiarazioni del vescovo emerito di Hong Kong, John Tong Hon, al quale è stato delegato finora il compito di seguire la situazione. D’altronde, la prospettiva di una dura repressione è sempre più probabile, e le manifestazioni ormai durano da oltre sette mesi. Cominciarono a fine marzo scorso, per protestare contro una legge che permetterebbe l’estradizione di cittadini di Hong Kong nella Repubblica Popolare, invece di processarli nei tribunali della città che gode tuttora di uno status speciale. «Forse», è la novità delle ultime ore, «il Papa parlerà delle proteste a Hong Kong sul volo per il Giappone. Ma solo se sarà sollecitato da una domanda», spiegano gli uomini di Francesco. Si tratterebbe dunque di un commento sollecitato, non di una dichiarazione ufficiale e scritta: a conferma della delicatezza del tema.

Quanto accade ha anche bloccato la scelta del prossimo vescovo della città-Stato, dopo che è venuto a mancare l’ultimo quasi in coincidenza con i primi moti degli «ombrelli colorati». «Per ora non lo nomineremo. Esistono rischi di strumentalizzazione troppo evidenti…», si ammette. La sede resterà vacante per evitare che anche quella nomina diventi materia di scontro: sia con la Cina, sia con una comunità cattolica di circa trecentomila persone, il 6 per cento della popolazione, nella quale è forte la voce anti-cinese del cardinale Joseph Zen, da sempre ostile a un accordo definito di «svendita» della Chiesa clandestina al regime di Pechino. E così, il Vaticano non smette di percorrere una strada guardinga, resa però stretta dalla radicalizzazione della protesta e delle reazioni delle autorità cinesi.

L’agenzia di stampa cattolica Asianews non smette di sottolineare l’involuzione antireligiosa in atto in Cina, con i sacerdoti che resistono all’adesione alla «Chiesa patriottica» filogovernativa braccati e perseguitati. Trovare una risposta a quanto accade a Hong Kong senza sollevare qualche polemica, dunque, non risulta facile. Promette di scontrarsi comunque con la Casa Bianca di Donald Trump e la stampa di più di mezzo mondo, schierata con le ragioni della protesta. E, sul fronte opposto, con un Xi Jinping che, premuto dal Partito comunista cinese, appare sempre meno disposto a tollerare che Hong Kong diventi il focolaio di una protesta violenta, con morti e feriti; e a suo avviso con una regia straniera. E’ una ribellione opera di «terroristi», sono arrivate a dire le autorità di Pechino: un termine già usato per colpire e deportare in «campi di rieducazione» i dissidenti musulmani uiguri della provincia occidentale dello Xinjiang.

Essere stretto tra il gigante asiatico e quello statunitense, per Francesco non deve essere comodo. Con Washington, soprattutto, da mesi esistono tensioni e incomprensioni profonde. E non attraversano solo la politica americana ma anche gli schieramenti nel mondo cattolico degli Stati uniti, additato dallo stesso Papa come un potente nido conservatore anti-Bergoglio. L’«accordo provvisorio» con la Cina, che Pechino ha voluto tenere segreto come condizione per sottoscriverlo, il 22 settembre del 2018, rappresenta uno dei motivi di scontro non dichiarati con la Casa Bianca. L’atteggiamento della Santa Sede su Hong Kong diventa così uno dei metri di misura della geopolitica di Francesco e del grado di adesione ai valori del mondo occidentale: schemi antiquati, nella strategia globale, e tendenzialmente senza nemici pregiudiziali, del pontefice argentino.

Il tema risulta ancora più scivoloso perché incrocia il futuro di Taiwan, l’isola-Stato separata dalla Cina. Per gli Usa è un baluardo anticomunista da difendere perfino militarmente di fronte a un eventuale intervento di Pechino. Dal giorno dell’«accordo provvisorio», il nervosismo di Taiwan nei confronti delle mosse vaticane è palpabile: teme di essere abbandonato dalla Santa Sede. E negli scontri violenti di Hong Kong vede un riflesso e un presagio di quanto potrebbe accadere presto sul suo territorio.

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