@ - Intervista esclusiva al presidente dell'Aministrazione del Patrimonio della Sede Apostolica (Apsa), che smentisce le anticipazioni di stampa sul libro di Nuzzi "Giudizio universale".
Ci risiamo. Ormai sembra essere diventato uno sport abbastanza praticato il tiro al bersaglio sui soldi della Chiesa, e del Vaticano in particolare. Che il bersaglio venga centrato o meno, cioè – fuor di metafora – che le informazioni diffuse con libri di grande tiratura e altrettanti lanci pubblicitari conditi persino da articoli di grandi firme, siano vere o false (o tutt’e due, in un inestricabile mix) poco importa. L’essenziale è far passare nell’opinione pubblica l’idea di un Vaticano in preda a faide interne, in cui magari un gruppo di cattivi curiali si contrappone all’opera risanatrice di papa Francesco. E che proprio per queste faide lo stesso Vaticano sarebbe sull’orlo del default.
La tesi, ripetuta fino all’esasperazione come in una sorta di telenovela (l’ultima puntata è il volume ancora fresco di inchiostro di Gianluigi Nuzzi) non coglie di sorpresa monsignor Nunzio Galantino, presidente dell’Apsa, l’Amministrazione del Patrimonio della Sede Apostolica, una delle realtà della Santa Sede più pesantemente tirate in ballo dalla pubblicazione. Il vescovo allarga le braccia con un gesto a metà tra lo sconsolato e il rassegnato. Come a significare: tutto questo è un déjà vu.
«Che cosa vuole che le dica? – attacca –. Qui non c’è alcun crac o default. C’è solo l’esigenza di una spending review. Ed è quanto stiamo facendo. Glielo posso dimostrare con i numeri. Il tono scandalistico che leggo nelle prime anticipazioni va bene per il lancio di un libro, molto meno per descrivere una realtà articolata e complessa come la Chiesa. Laddove articolata e complessa non è assolutamente sinonimo di segreta o subdola».
Eccellenza, l’Apsa viene descritta come un ente con i conti in rosso, frutto di una gestione clientelare e senza regole, con contabilità fantasma e illeciti. Insomma non esattamente ciò che si direbbe un esempio evangelico. Come risponde?
Rispondo che non è vero. Mi permetta di fare una doverosa premessa, anche di carattere storico. Parlavo prima di una realtà articolata e complessa, come articolate e complesse sono tutte le situazioni chiamate a misurarsi con una mission come quella della Chiesa: l’annuncio e la testimonianza del Vangelo che ha per protagonisti uomini e donne che per la loro azione si servono di mezzi e strumenti umani. Tali sono gli strumenti che l’Apsa amministra. Lo fa con lo scopo di reperire quanto è necessario attraverso una retta e corretta amministrazione del patrimonio che le è stato affidato.
Da dove deriva questo patrimonio?
È un patrimonio messo nelle mani della Chiesa dai tanti fedeli che hanno creduto e continuano a credere nella sua missione. A questo si è aggiunta nel 1929 la somma versata dall’Italia alla Santa Sede a chiusura della nota "questione romana", con la Convenzione finanziaria allegata ai Patti Lateranensi. Negli anni successivi poi Pio XI – per assicurare libertà di azione alla Chiesa, affinché non si trovasse di nuovo nella morsa di uno Stato che con le leggi del periodo risorgimentale aveva sostanzialmente incamerato una quantità enorme di beni ecclesiastici –, ha investito i soldi ricevuti in beni immobili e mobili. E, secondo il ben noto principio economico della diversificazione degli investimenti, ha operato non solo in Italia ma anche all’estero. La motivazione di fondo non è dunque quella della speculazione, ma è un modo per assicurare alla Chiesa la libertà nell’esercizio della sua missione e anche la prosecuzione di tutto questo nel tempo.
Bene, ma qual è la situazione attuale?
La situazione attuale della amministrazione della Santa Sede non ha niente di differente rispetto a quanto capita in una qualsiasi famiglia o anche negli Stati dei diversi continenti. A un certo punto si guarda a quello che si spende, si vede quello che entra e si cerca di riequilibrare le spese. Con un termine oggi molto in voga si chiama spending review. E dunque l’attuale bilancio dell’amministrazione della Santa Sede – in rosso o in verde che sia – non è frutto di ruberie, furbizie e gestione malaccorta. È la presa d’atto che molte cose sono cambiate. Teniamo presente che il Vaticano non ha un regime fiscale frutto di imposizione di tasse o imposte, non ha un debito pubblico. Il suo Pil, se così vogliamo chiamarlo, si basa unicamente su quello che riesce a ricavare dal patrimonio che ha (compresi i Musei Vaticani) e dalle offerte dei fedeli e delle diocesi di tutto il mondo. Gli strumenti di controllo messi in atto da Benedetto XVI e potenziati da papa Francesco stanno permettendo di mettere ordine nella gestione di questo patrimonio per equilibrare le uscite e le entrate e dove è necessario operare correzioni di prassi nel rispetto delle competenze degli organi amministrativi della Santa Sede.
Lei accennava prima al bilancio dell’Apsa. Ci può dare qualche cifra?
Il risultato negativo del bilancio non è, come è stato scritto, la conseguenza di «una gestione clientelare e senza regole, di contabilità fantasma e del testardo sabotaggio dell’azione del Papa». In realtà la gestione ordinaria dell’Apsa nel 2018 ha chiuso con un utile di oltre 22 milioni di euro. Il dato negativo contabile è esclusivamente dovuto a un intervento straordinario volto a salvare l’operatività di un ospedale cattolico e i posti di lavoro dei suoi dipendenti.
Quindi tutto chiaro? In Apsa non esistono conti cifrati o contabilità parallele?
Glielo confermo e ribadisco. L’Apsa non ha conti segreti o cifrati. Si provi il contrario. In Apsa non ci sono neppure conti di persone fisiche e di altre persone giuridiche, se non i dicasteri della Santa Sede, gli enti collegati e il Governatorato. Uno Stato che non ha tasse o debito pubblico ha solo due modi per vivere: mettere a reddito le proprie risorse e basarsi sui contributi dei fedeli, anche quelli all’Obolo di San Pietro. Qui si vuole che la Chiesa non abbia niente e poi comunque provveda a dare la giusta paga ai suoi lavoratori e a rispondere a tante necessità, prima di tutto quelle dei poveri. È evidente che non può essere così. C’è la necessità di una spending review, per contenere i costi del personale e gli acquisti di materiali, e su questo si sta lavorando con grande cura e attenzione. Quindi nessun allarmismo sull’ipotetico default. Piuttosto parliamo di una realtà che si rende conto che bisogna contenere le spese. Come avviene in una buona famiglia o in uno Stato serio.
I due bilanci da non confondere
Quando si parla di conti vaticani, di solito a prevalere è la confusione, frutto molto spesso di approssimativa conoscenza delle regole che sono alla base dei bilanci e degli enti d’Oltretevere e dei loro reciproci rapporti. È quanto emerge anche dalle prime anticipazioni del libro di Nuzzi, dove si affastellano considerazioni relative all’Apsa, allo Ior e ai bilanci in rosso del Vaticano senza tener conto delle differenze – di funzione e di amministrazione – dei vari segmenti di una realtà «articolata e complessa», come ricorda monsignor Galantino. Il bilancio del cosiddetto Vaticano si compone infatti di due distinti conti economici: quello consolidato della Santa Sede che raggruppa i bilanci delle singole realtà che lo costituiscono (i dicasteri della Curia Romana, le istituzioni collegate e le nunziature, in tutto una sessantina di enti della Santa Sede) e quello dello Stato della Città del Vaticano, o meglio del Governatorato che ne è l’organo esecutivo. Secondo i dati 2015 (gli ultimi pubblicati) il bilancio consolidato ha fatto segnare un disavanzo di 12,4 milioni di euro, mentre il Governatorato registrava un surplus di 59,9 milioni.
Ci può fornire i dati relativi agli immobili dell’Apsa, su cui molto si favoleggia?
Si tratta di 2.400 appartamenti per lo più a Roma e a Castel Gandolfo. E di 600 tra negozi e uffici. Quelli non a reddito sono o gli appartamenti di servizio o gli uffici della Curia. Quanto al loro valore di mercato, è impossibile fare una stima. Prendiamo i palazzi di piazza Pio XII: quanto valgono in concreto? Se ci fai un albergo extralusso è un discorso, se ci metti gli uffici della Curia romana, come ora, non valgono niente. Inoltre circa il 60% degli appartamenti è affittato ai dipendenti che hanno necessità, ai quali viene riconosciuto un canone di affitto ridotto. Questa è una forma di housing sociale: se lo fanno le grandi aziende private, sono realtà benemerite che si prendono cura del personale; se lo fa il Vaticano, siamo degli incompetenti o peggio, che non sappiamo amministrare il patrimonio.
Molto spesso in questo tipo di pubblicazioni si tende a contrapporre la Curia (resistente) al Papa che vuole fare le riforme e viene osteggiato dai suoi stessi collaboratori. Qual è il suo parere al proposito?
Contrapporre il Papa alla Curia è un cliché giornalistico usurato. Stiamo tutti continuando a lavorare per equilibrare entrate e uscite e dunque cerchiamo di fare proprio e soltanto quello che il Papa vuole. Altre letture sanno molto di Codice da Vinci, cioè di un approccio assolutamente romanzato alla realtà.
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