giovedì 5 settembre 2019

Ortodossia. Perché la Chiesa non impone la propria moralità alla polis

@ - Il teologo Aristotele Papanikolaou: «Siamo chiamati a modellare un secolarismo cristiano. Nello spazio politico incontriamo colui che non crede in ciò che noi crediamo Serve un consenso inclusivo».

Si apre oggi presso la Comunità di Bose il 27° Convegno ecumenico internazionale di spiritualità ortodossa sul tema «Chiamati alla vita in Cristo». Pubblichiamo un estratto dell’intervento che pronuncerà Aristotele Papanikolaou, statunitense, cofondatore e senior fellow al Fordham’s Orthodox Christian Studies Center e al Center for the Study of Law and Religion presso l’Università di Emory.

Per quanto siamo creati come esseri dialogici in relazione con Dio e con la creazione, una delle più grandi intuizioni della tradizione cristiana è che se questo dialogo deve produrre amore, sia nella relazione con Dio che con il prossimo, allora esso richiede ascesi. In Elementi di fede, che a mio modo di vedere continua a essere la migliore introduzione alla teologia ortodossa, Christos Yannaras sottolinea vivamente l’importanza dell’ascesi. Dice: «L’ascesi è la lotta per rinunciare alla mia tendenza egocentrica a guardare a tutte le cose come a oggetti neutri, soggetti ai miei bisogni e desideri… allora comincio a rispettare ciò che mi circonda, a scoprire che non si tratta semplicemente di ricchezze oggettive impersonali (o strumenti oggettivi), ma oggetti, cioè risultati di un attività, di ciò che è stato fatto da una Persona creatrice. Scopro il carattere personale degli elementi del mondo, una ragione inimitabile in qualsiasi cosa, una possibilità di relazione, un contesto di riferimento amoroso a Dio. La mia relazione con il mondo diviene così una relazione indiretta con Dio, l’artefice del mondo, e l’utilizzo pratico del mondo un incessante studio della verità del mondo, una sempre più profonda conoscenza inaccessibile alla scienza positiva».

Come ho proposto in altri scritti, e anche nel mio precedente intervento nel quadro di questo stesso convegno a Bose, la polis non dev’essere vista come qualcosa di separato dal deserto, piuttosto la politica in sé dev’essere considerata come una forma di ascesi. Se me lo permettete, vorrei fare una citazione dal mio libro The mystical as political, in cui dico: «Se la vocazione cristiana consiste nell’imparare come amare, allora un’ascesi di comunione divino-umana non può essere confinata né in un monastero né nella Chiesa: il mondo intero è il campo in cui tale ascesi dev’essere esercitata.

E se quest’apprendimento di come si ama si spinge al di là della famiglia o degli altri cristiani e comprende il prossimo, che può essere pure un estraneo, allora la politica non può essere irrilevante per un’ascesi tesa alla comunione divino-umana. Infatti nella misura in cui la politica può essere compresa come un mettersi in gioco con il prossimo/estraneo, essa dev’essere considerata come una delle tante pratiche di un’ascesi tesa alla comunione divino-umana.

La comunità politica non è l’antitesi del deserto, ma uno dei molti deserti in cui il cristiano deve combattere i demoni che tentano di bloccare l’apprendimento dell’amore. In nessun altro campo la tentazione di demonizzare il prossimo è più persuasiva e apparentemente giustificabile che nel campo della politica. Dunque, in nessun altro spazio se non in quello politico il cristiano è più impedito nel compimento del comandamento dell’amore». Se l’affermazione cristiana dell’incarnazione indica ciò che è possibile per gli uomini, tale possibilità comprende quel che il teologo bizantino del settimo secolo Massimo il Confessore descriverebbe come apprendimento di come si ama, cioè apprendimento di come impegnarsi nelle pratiche che ci immergeranno più in profondità nella vita di quel Dio che i cristiani hanno chiamato amore.

L’importanza di quest’aspetto per la questione del rapporto tra religione e democrazia è che, indipendentemente da come si sia giunti a questa congiuntura storica, piuttosto di considerare un’ontologia cristiana della comunione come diametralmente opposta al pluralismo secolare, una prospettiva ascetica della comunione considererebbe lo spazio politico come uno spazio in cui il cristiano impara ad amare. Tale spazio, infatti, è il luogo in cui egli incontra l’estraneo, così come il nemico, che cerca di distruggere tutto ciò che egli apprezza in quanto vero e bello. Come dicevo, non c’è bisogno di andare nel deserto per raggiungere la theosis; lo spazio politico è in realtà il deserto in cui si combattono i demoni che si intromettono nella via della comunione divino- umana, come quelli della paura, dell’ira, dell’odio, che conducono a proiezioni e oggettificazioni.

Lo spazio politico è effettivamente distinto da quello ecclesiale, soprattutto dal momento che esso legittima, come opzione tra le tante, il fatto che si creda alla non esistenza di Dio. Nondimeno, viste secondo la prospettiva delle pratiche di comunione divino-umana, o di apprendimento di come si ama, le strutture liberaldemocratiche che promuovono un pluralismo secolare non appaiono così estranee a una cosiddetta ontologia della comunione. In realtà, impegnati in pratiche di comunione divino-umana, i cristiani delineerebbero attivamente uno spazio politico strutturato attorno a un nucleo embrionale di principi normativi suscettibili di ulteriori sviluppi, inclusi la libertà e l’uguaglianza, garantiti da un linguaggio dei diritti umani che non sia legato a una specifica morale religiosa, restando sempre consapevoli che l’ecclesiale non è il politico, anche se, come argomenterò, il mistico è politico. Una politica della theosis opera per creare strutture politiche tese a favorire a ogni persona l’esperienza viva della personalizzazione, che secondo il metropolita Ioannis Zizioulas, senza dubbio il teologo ortodosso più influente dei nostri tempi, è l’esperienza viva dell’unicità irriducibile, dell’essere creati «a immagine e somiglianza di Dio».

Tuttavia, sostenere le strutture liberaldemocratiche significa accettare che la moralità dello spazio pubblico politico non sia identica a quella dello spazio pubblico ecclesiale, dal momento che il fine dello spazio pubblico politico è distinto, per quanto speculare, da quello della Chiesa in quanto spazio comune, condiviso di adorazione. Per creare strutture che garantiscano che tutti gli uomini siano trattati come unici e irriducibili, i cristiani dovrebbero adoperarsi per una massimizzazione del pluralismo, tale che lo spazio pubblico politico non possa sposare la moralità di una singola tradizione religiosa, indipendentemente dalla storia culturale di quello spazio pubblico politico condiviso.

Operando per stabilizzare strutture che garantiscano che tutti gli uomini siano trattati come unici e irriducibili, l’asceta cristiano (che non è solo il monaco) non accetterà uno spazio pubblico politico privo di moralità, ma opera in favore di uno spazio pubblico politico plasmato da una moralità che si fonda su di un consenso inclusivo. Sulla base di questo assunto teologico, le Chiese ortodosse, specie se professano sostegno alle strutture democratiche, nelle loro madrepatrie non dovrebbero sfruttare il privilegio offerto loro dalla storia e dalla cultura come strumento per rafforzare necessariamente per legge posizioni morali specifiche della Chiesa ortodossa. In tal caso, le Chiese finirebbero per utilizzare il potere conferito dalla loro presenza pubblica per promuovere, sviluppare e approfondire quelle forme di strutture politiche che sono più conformi ai loro principi ecclesiologici, o a quel che risulterebbe se la Chiesa fosse un’etica sociale. Qualcuno potrebbe chiamare democratiche queste strutture, ma non è questo il punto. Semplicemente, la Chiesa non può utilizzare il privilegio della sua posizione culturale e storica per imporre la propria moralità su di uno spazio pubblico politico, condiviso e pluralistico.

Ciò non significa che i cristiani debbano accettare quel che è stato definito come l’antropologia liberale dell’io autonomo, dell’eccessivo individualismo e del consumismo spinto all’infinito. I cristiani infatti opererebbero anche a favore di un bene comune, costituitosi a partire da un pluralismo di voci, capace di mitigare un eccessivo individualismo e consumismo, a favore di un io relazionale la cui fiorente e irriducibile unicità si costituisce grazie a una consapevole dipendenza dall’altro. Non sono d’accordo con quanti pretendono che il liberalismo politico e la politica del bene comune si escludano a vicenda. In definitiva, una politica della theosis dovrebbe affermare quel che chiamerei un secolarismo cristiano, che non richiede l’eliminazione dalla vita politica delle voci religiose, ma richiede la negazione di una prospettiva teologica comune come base per strutture legali e civili, in vista di un consolidamento di quel pluralismo che sancisce la libertà e l’uguaglianza. In conclusione, ai nostri giorni è impossibile pensare alla polis senza pensare al termine secolare; e il termine secolare si è evoluto nel corso del tempo. Nessuno crede più che la religione sarà spazzata via o eliminata.

Quel che rappresenta ancora un oggetto di discussione è se la religione debba essere privatizzata, ma anche su questo punto l’opinione dominante in Occidente è che la religione debba avere piuttosto una voce forte nella sfera pubblica. Ma quando la religione o le istituzioni religiose sfruttano la loro autorità per plasmare strutture legislative tali da limitare il pluralismo religioso e minacciare la libertà e l’uguaglianza allora non c’è secolare. Ed è questo che la nostra vocazione cristiana ci chiede? Io penso di no. Siamo chiamati a modellare un secolarismo cristiano nella polis.

Dobbiamo ricordarci che la Chiesa e l’arena politica sono due spazi differenti. Nello spazio politico, incontriamo colui che non crede in ciò che noi crediamo. Dobbiamo accostarci a costui dopo essere stati plasmati da un’ascesi della theosis compresa come apprendimento dell’amore, anche se tale persona è impegnata a distruggere ciò a cui noi teniamo. Tale politica della theosis comporta che non forziamo nessuno ad abbracciare l’ortodossia; una politica della theosis comporta che ci adoperiamo a favore di strutture legislative e pratiche culturali che rendano possibili quadri relazionali che riaffermino l’irriducibile unicità dei cittadini di una polis. Alcuni sosterranno che una politica della theosis comporta la deificazione di tutta la creazione, comprese la cultura e la politica. Tuttavia, quel che dobbiamo capire è che la polis non è la Chiesa, perciò la theosis della polis non può che essere un riflesso, un’icona, un’immagine speculare di quel che vediamo nella Chiesa. Quando la cultura e la polis risulteranno divinizzate significherà che la Chiesa in quanto realtà cosmica si sarà realizzata.

Fino ad allora, la Chiesa e la polis sono spazi distinti e la comunione divinoumana possibile nella polis non può mai coincidere con la sua pienezza realizzata nella Chiesa; e alcune strutture politiche riflettono tale comunione divino-umana più di altre. È sempre stata mia opinione che un liberalismo politico che promuova un bene comune che richieda un pluralismo secolare renda possibile una comunione tra le persone superiore a quella del totalitarismo. È molto, molto forte la tentazione di utilizzare lo stato e il nazionalismo per assicurare il privilegio dell’ortodossia in una società in nome della deificazione della cultura e della polis. Ma, come ha sostenuto il noto teologo ortodosso Pantelis Kalaitzidis, questa è la tentazione di Giuda, non la politica della theosis a cui siamo tutti chiamati.

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