domenica 22 settembre 2019

Dibattito. Senza barbari che sarà di noi?

@ - La capacità di includere stranieri e nuove culture fu la vera forza dei romani, praticata nei fatti, cantata nella letteratura. Il latinista anticipa il suo intervento di sabato a Pordenonelegge.


Siamo testimoni di un cambiamento d’epoca che ci consegna un mondo ametrico, senza misura, nel quale non trovano più casa le nostre identità consolidate e rassicuranti. Oltre alla ormai conclamata rivoluzione tecnologica, che ci prospetta un uomo competitivo con la macchina, combinato con la macchina, aumentato dalla macchina e minacciato dalla macchina, assistiamo a un’altra rivoluzione: quella sociale dell’immigrazione, che decreta l’eclissi della centralità dell’Europa e del primato dell’Occidente, quasi a ricondurci umilmente alle ragioni della sua etimologia di "mondo destinato al tramonto". Questa rivoluzione ha il volto e il nome dei nuovi popoli che fuggono da guerra, fame, persecuzione e chiedono giustizia. Impauriti e smarriti, come davanti a un bivio senza segnaletica, ci chiediamo quale strada prendere, quale insegnamento seguire, quale maestro adottare.

Un’indicazione, anzi una vera e propria lezione illuminante, ci viene dalla Roma classica e segnatamente da una circostanza raccontata da Tacito (Annali 11, 24, 1-4). È l’anno 48 d. C.: ai senatori che, in una sorta di grido "prima i Romani", pretendono che i seggi vacanti vengano riservati agli indigeni e ai residenti e non ai transalpini, l’imperatore Claudio ricorda che, secondo l’esempio degli antenati, «a Roma va trasferito quanto vi è di eccellente altrove», che in passato furono chiamati a far parte del Senato cittadini provenienti da tutte le province, e che Spartani e Ateniesi rovinarono perché «respinsero i vinti come stranieri (alienigeni)». Per Claudio bisognava, piuttosto, prendere esempio dal padre Romolo che «ebbe tanta saggezza da trasformare i nemici (hostes) in cittadini (cives)». Quello stesso Romolo che, come racconta Livio (1, 8 sg.), non solo costruisce mura più grandi del necessario «in previsione di una popolazione futura numerosa» ( in spem futurae multitudinis), ma offre anche un asilo ( asylum), vale dire un luogo 'inviolabile', alle popolazioni vicine, senza distinzione fra liberi e schiavi ( sine discrimine liber an servus esset). Anche la leggenda del ratto delle Sabine rispondeva all’intento di mescolare sangue e stirpe ( sanguinem et genus miscere). Nel segno di questa eterogeneità va anche il racconto dei sette re, in una alternanza etnica fra Romani, Sabini, Etruschi.

Si comprende, da questi antefatti, come la storia di Roma andrà letta come un inarrestabile processo di inclusione, che parte dall’asilo di Romolo e arriva alla Constitutio Antoniniana, l’editto del 212 d. C. con cui l’imperatore Caracalla estende la cittadinanza romana a tutti gli abitanti dell’impero. I Romani volevano essere più numerosi per essere più potenti. Opposta, e per questo fallimentare, la politica dei Greci, i quali hanno alzato un muro tra chi è dentro e chi è fuori: «Il barbaro deve obbedire al greco, perché loro sono schiavi e noi siamo uomini liberi», dichiara l’Ifigenia di Euripide. All’inclusione politica, si aggiunge quella culturale: celeberrimo il motto oraziano secondo il quale Roma ha conquistato la Grecia con le armi, ma la Grecia ha conquistato Roma con le arti (Epistole 2, 1, 56 Graecia capta ferum victorem cepit). E all’inclusione culturale, si aggiunge quella religiosa: dotati di una vera e propria virtus religiosa, come riconosce Minucio Felice (Ottavio 6, 2 sg.), uno dei primi scrittori cristiani (IIIII sec. d. C.), i conquistatori romani «cercano gli dèi stranieri e li fanno propri» ( deos quaerunt et suos faciunt), configurando un Pantheon meticcio e multietnico.

Roma ci ha educati alla cultura dell’et et, non dell’aut aut. Per questo, con Rémi Brague, è da ritenere che più che la tradizione ellenica o ebraica sia la Romanità - intesa come attitudine a ricevere, trasmettere e assimilare - il modello di quell’arcipelago culturale che si chiama Europa. A nobilitare questa molteplice virtus romana, politica, culturale e religiosa, sarà il messaggio universalistico e umanitario di Seneca, il quale - oltre a constatare ( La consolazione alla madre Elvia 6, 4 sgg.) che nelle città e nei luoghi più dispersi e disparati «ci sono più forestieri ( peregrini) che indigeni ( cives) » e che «tutto risulta da mescolanza e innesti» ( permixta omnia et insiticia sunt) - enuncia ( Lettera 95, 51 sgg.) un triplice comandamento di sorprendente consonanza evangelica: «porgere la mano al naufrago» ( naufrago manum porrigere), «indicare la via a chi è smarrito» ( erranti viam monstrare), «dividere il pane con l’affamato» ( cum esuriente panem dividere). È, questo, il messaggio di un pagano che dovrebbe fare riflettere e arrossire i tantissimi cattolici avversi agli immigrati. Lo stesso Seneca ricorderà che l’auctor dell’Impero, Enea, è un esule ( exul) e un profugo ( profugus) venuto dal mare.

Roma, dunque, modello di politica umanitaria? Certamente no. Sappiamo bene che accanto all’utopia della 'città eterna' c’era la storia con la maledizione della guerra e la ferocia delle legioni; che antecedente e parallela a quella cristiana c’era «una resistenza spirituale contro Roma » (Harold Fuchs) da parte dei vinti che non accettavano soprusi e violenze; che l’imperium e la pax, profetizzati da Anchise ad Enea, per i popoli sottomessi erano propaganda politica e addirittura mistificazione linguistica («I Romani il depredare, il massacrare, il rapinare con falsi nomi li chiamano impero, e là dove fanno il deserto lo chiamano pace», farà dire Tacito nell’Agricola a un oppositore): al punto che Simone Weil individuerà proprio nella Roma imperiale le radici dell’hitlerismo.

Non modello di humanitas o di pietas, ma di realpolitik e di un grande disegno politico: Roma è stata la più potente ed è durata a lungo perché non ha alzato muri tra sé e gli altri, perché ha tenuto dentro lo straniero e "il barbaro". A noi la rivoluzione cristiana e la rivoluzione illuministica hanno consegnato il grande messaggio di essere fratelli: più forte che essere consanguinei, più impegnativo che essere cittadini, più nobile che essere uomini. Se non riusciamo ad apprendere questa lezione, ascoltiamo almeno quella di Roma: là dove non arrivano virtù e convinzione, giustizia e humanitas, dovrebbero supplire e soccorrerci il calcolo e la lungimiranza della politica, il realismo e la convenienza, vale a dire la consapevolezza che loro, "i barbari", possono essere la soluzione dei nostri problemi, la via della nostra sopravvivenza, la direzione del nostro destino. Lo aveva ben intuito Costantino Kavafis: «Che aspettiamo, raccolti nella piazza? / Oggi arrivano i barbari. / … / Perché d’un tratto questo smarrimento / ansioso? (I volti come si son fatti serî!) / Perché rapidamente e strade e piazze / si svuotano, e ritornano tutti a casa perplessi? / S’è fatta notte, e i barbari non sono più venuti. / Taluni sono giunti dai confini, / han detto che di barbari non ce ne sono più. / E adesso, senza barbari, cosa sarà di noi? / Era una soluzione, quella gente».

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