@ - Rezession. Con un suono aspro e gutturale, la crisi sta bussando sempre più forte alla porta della Germania.
A dare forse il colpo di grazia alle residue speranze di un colpo di reni capace di risollevare l'economia tedesca, è arrivato ieri il verdetto infausto sulla produzione industriale, calata in giugno dell'1,5%. Il crollo annuo, pari al 5,2%, è la spia rossa di un malessere non passeggero.
Già lo si era capito in luglio dall'umore nero dagli investitori attraverso l'indice Ifo sulla fiducia, ai livelli più bassi da sette anni, e dal Pmi manifatturiero (a 43,1 punti, ben lontano dai 50 che fanno da spartiacque tra sviluppo e contrazione dell'attività). Ma già il passaggio a vuoto del 2018, con un Pil a crescita zero macchiato peraltro dall'andamento negativo del terzo trimestre (-0,1%), era il sintomo di una frenata in corso. D'altra parte, un Paese la cui forza industriale è basata sull'export non può non soffrire i venti di guerra commerciale tra Usa e Cina, gli interrogativi legati al caos della Brexit (l'Inghilterra è fra i principali mercati di sbocco delle merci tedesche), le vendite deficitarie del settore auto e, più in generale, il rallentamento globale. Il delicato momento congiunturale della Germania non è buona cosa per l'Europa, e men che meno per l'Italia. Il nostro Paese resta il primo partner commerciale di Berlino, al quale nel 2018 abbiamo venduto prodotti per un controvalore superiore ai 58 miliardi. In caso di minori acquisti, i primi settori a essere colpiti sarebbero quelli dei macchinari e apparecchiature (8,6 miliardi lo scorso anno), dei prodotti chimici (4,2) e dei prodotti alimentari (3,8). Numeri destinati ad assottigliarsi ora che l'obiettivo 2019 di una crescita tedesca dello 0,6% rischia di essere clamorosamente mancato, soprattutto se fra luglio e settembre la sbandata assumerà proporzioni superiori alle attese. Dipenderà da quanto la forza del settore terziario e i consumi privati riusciranno a compensare gli affanni dell'industria. L'intervento della Bce, attraverso i tassi o con il riavvio del quantitative leasing, potrebbe invece arrivare fuori tempo massimo per cambiare un copione che sembra già scritto.
Il passaggio del testimone al vertice della stessa Bce fra Mario Draghi e Christine Lagarde, previsto in novembre, potrebbe rallentare il varo di misure di contrasto. Al punto che, verosimilmente, l'Eurotower sarà l'ultima fra le banche centrali a muoversi. Il processo di allentamento delle maglie di politica monetaria sta subendo una brusca accelerazione. La prova è il taglio aggressivo dei tassi deciso ieri in contemporanea dagli istituti di emissione di India, Thailandia e Nuova Zelanda così da stimolare una crescita compromessa dallo scontro fra Cina e Stati Uniti. Per Donald Trump, un assist formidabile da sfruttare contro la Federal Reserve con una raffica di tweet ruvidi come carta vetrata: «Tre altre banche centrali hanno tagliato i tassi. Il nostro problema non è la Cina. Il nostro problema è la Fed» che «deve tagliare i tassi molto e velocemente». Stizzita la replica di Charles Evans, presidente della Fed di Chicago: «Gli attacchi che mettono a repentaglio la fiducia del pubblico nella Federal Reserve potrebbero pesare sull'economia».
Altra benzina sul fuoco per Wall Street che, dopo essere arrivata a cedere il 2%, ha però poi ridotto il rosso nel corso della seduta (-0,50% a un'ora dalla chiusura). L'oro è comunque volato sopra i 1.500 dollari l'oncia, per la prima negli ultimi sei anni. Con il rendimento dei T-bond a 30 anni sceso ieri al 2,12%, cioè sotto il livello reale dei Fed Fund, l'inversione completa della curva dei rendimenti sta pungolando Jerome Powell a ridurre altre quattro volte il costo del denaro e a far ripartire il Qe. In caso contrario, il successore di Janet Yellen finirà per diventare il capro espiatorio della prossima recessione.
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