mercoledì 15 maggio 2019

Istinto invece di ragione, il ribaltamento dello stato di diritto

@ - Gli uomini hanno fatto milioni di leggi per punire i delitti, e non ne hanno stabilita pur una per premiare le virtù”. Così scrive, nel 1765, Giacinto Dragonetti, nella sua operetta “Delle virtù e dei premi”. Di enorme successo e tradotta in molte lingue, oggi è purtroppo quasi del tutto dimenticata, in teoria e in pratica. Dragonetti, che pure rivendica una continuità ideale con il pensiero di Beccaria del “Dei delitti e delle pene”, ne prende le distanze, sottolineando l'importanza, non tanto della punizione e della sanzione, quanto quella dei premi e delle virtù, intese, qui, in senso politico e non individuale o morale. Dragonetti parte da Rousseau: la vita in comune è auspicabile, ma fragile.

(Adobe Stock)

L'accordo tra gli uomini è costantemente soggetto alla tentazione dell'opportunismo; per questo abbiamo necessità di un contratto sociale che possa difendere e proteggere ”la persona e i beni di ciascun associato”, purtuttavia, mantenendo il cittadino in una condizione per la quale egli “non obbedisca che a se stesso e rimanga libero come prima”. Soggetto alla legge, ma libero come prima, perché la legge è ora la sua legge, scelta e interiorizzata. Il passaggio dallo stato di natura alla società civile rappresenta, dunque, nelle parole di Rousseau, un “notevolissimo cambiamento nell'uomo” (un changement très-remarquable) che ci induce a sostituire, come guida alla nostra azione “la giustizia all'istinto”. Un cambiamento grazie al quale “la voce del dovere, succedendo al fisico impulso, ed il diritto alla cupidigia”, induce gli uomini a “consultare la ragione prima d'ascoltare le inclinazioni”. Ragione, giustizia e diritto, invece di istinto, impulsi e inclinazioni.

Questo il “notevolissimo cambiamento” che lo stato di diritto, la società civile, produce negli uomini e nelle donne che ne accolgono le promesse. Promesse che devono, comunque, continuamente essere rafforzate da premi alla virtù, secondo la chiosa illustre di Giacinto Dragonetti. Il contratto sociale è fragile e instabile, per questo serve una manutenzione continua. Questo è il compito della politica e delle istituzioni, che con leggi, regolamenti, norme e l'esempio, devono “manutenere”, appunto, la stabilità del nostro legame fondamentale, la coesione delle nostre comunità civili. Che direbbe Dragonetti oggi? Coglierebbe immediatamente che, non solo non abbiamo imparato a premiare le virtù, ma che oggi, sotto molti aspetti, queste siano diventate oggetto di scherno, di biasimo e perfino di sanzione. Comportamenti che creano legami di civiltà, ispirati, come sono, alla protezione di diritti umani fondamentali, vengono oggi derisi, screditati e penalizzati, nel racconto ufficiale e nei fatti legislativi. Chi aiuta gli altri in difficoltà, lo fa per approfittare della “mangiatoia”; chi è aiutato, perché realmente in difficoltà, invece, in realtà vive una grande “pacchia” fatta di spensieratezza ed agi straordinari. Altruismo e umanità, attenzione all'altro e ospitalità, un tempo qualità altissime, in questo racconto perverso di oggi, sono svilite a facile “buonismo”. Un racconto volutamente miope costruito ad arte per accecare. Nessun premio alla virtù, dunque. Rassegnati Dragonetti!

Lasciamo la virtù ai deboli e buoni ché non ce ne facciamo niente, a noi piace “ordine e disciplina”. In piena coerenza con questo discorso viene annunciato, il “decreto sicurezza bis”. Due punti sono particolarmente interessanti: il ministro Toninelli che viene esautorato dei suoi poteri in materia di limitazione al transito nelle acque territoriali, che andrebbero in capo al Ministero dell'interno. E poi, per chi si arrischia a salvare degli esseri umani in pericolo di vita anche senza che nessuno glielo abbia chiesto, ma solo per senso di umanità e per obbedienza a leggi superiori, arrivano le sanzioni: da 3.500 a 5.500 euro per ogni essere umano strappato alla morte in mare. Istinto, impulsi e inclinazioni, invece di ragione, giustizia e diritto. Questa appare sempre con maggiore evidenza la direzione verso cui tende la propaganda del Ministro dell'Interno. Vi è alle spalle, evidentemente una visione antropologica pessimistica, negativa: “homo homini lupus”. Sono tutti (gli altri) approfittatori e opportunisti, i cui interessi più biechi devono essere gestiti con “ordine e disciplina”.

Bisognerebbe ricordare al Ministro le origini illuministiche dello stato democratico nel quale lui è potuto diventare Ministro. Perché quella cultura di civiltà e ragione che, con ironia della storia, si sviluppa magnificamente tra Milano e Napoli, nella seconda metà del ‘700, si fonda sulla convinzione che “homo homini natura amicus”. Non lupi uno per l'altro, come sosteneva Hobbes, ma naturalmente amici, come gli ribatteva, da Napoli, Antonio Genovesi, con Filangeri, Dragonetti e molti altri. Denigrare le virtù civili, la libertà di espressione del dissenso e le minoranze, come sempre più spesso si osserva in questi giorni, in nome di un buon senso, che di buono ha veramente poco, rischia, concretamente, di creare un clima di accesa contrapposizione di cui il nostro Paese ha veramente pochissimo bisogno. Un Ministro (dal latino “minister”, cioè “servitore”), oggi, è chiamato a lavorare per risolvere i tanti problemi che ricadono nell'ambito delle sue competenze, non, invece, a fare propaganda continua in una campagna elettorale senza fine e senza esclusione di colpi, contro le opposizioni, ma anche contro gli alleati di governo.

La maggioranza degli italiani si sta veramente stufando di ridicoli selfie, di tour elettorali, di comizi continui, di attacchi personali, di bacioni fasulli e di sciatte semplificazioni. Le alternative, a questo punto, non sono molte: iniziare a lavorare concretamente, spegnendo, o almeno attenuando, le luci accecanti della macchina di propaganda mediatica, oppure, andare alla ricerca di un nuovo, ennesimo nemico, grazie al quale alzare ancora di più i toni e l'asticella dell'intolleranza. Ci sono segnali allarmanti che arrivano non solo dalle nostre periferie più disperate, di conflitti pronti ad esplodere, di malesseri dimenticati e di nostalgie mai sopite, che suggerirebbero di perseguire, fortemente e decisamente, la prima strada.

L'educazione civica nelle scuole è sacrosanta, ma una “paideia” vera non si può che nutrire di esempio; non della retorica del buon padre di famiglia, ma di quell'esempio che ci fa distinguere il reale dall'irreale, che ci fa imparare a vedere nell'altro, negli altri, sempre un fine e mai un mezzo. Mai un mezzo. Ci auguriamo che ci siano, in giro, occhi capaci di vedere e orecchie disposte ad ascoltare.

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