giovedì 4 aprile 2019

Cento milioni di ordigni nel mondo pronti a esplodere

@ - «Odio questi ordigni, perché colpiscono ad anni di distanza dai conflitti persone innocenti, contadini che tornano a lavorare i campi e soprattutto i bambini, che sono quelli che corrono di più e sono curiosi. Le mine sono traditrici, con la pioggia e il movimento del terreno si spostano e anche chi le ha posizionate non le ritrova più. Le più pericolose sono quelle di plastica, che sfuggono ai rilevatori del metallo». Sono parole di Staffan de Mistura, inviato speciale delle Nazioni Unite in molte zone di guerra. Ma le mine antiuomo, questi soldati perfetti, che non hanno freddo, non hanno sonno, non hanno fame, eseguono le consegne per anni e anni dopo essere state sotterrate, non mietono vittime solo nelle zone di guerra, questi ordigni infatti possono rimanere attivi per oltre 50 anni quindi ben oltre la fine dei conflitti. È per questo che circa il 90 per cento delle vittime delle mine sono civili. Quelle inesplose risultano ancora oltre 100 milioni nel mondo e ogni anno causano in media circa 15 mila vittime, tra mutilati e uccisi. Lo scopo delle mine non è, infatti, uccidere, ma mutilare. Nella perversa logica dei conflitti, chi ha perso una mano o una gamba, necessitando di cure e assistenza continua, danneggia il Paese nemico più di un morto. È per arrivare a cancellare questo orrore che ogni 4 aprile si celebra la Giornata Mondiale contro le mine, per mantenere alta l’attenzione sulla minaccia rappresentata anche dai residuati bellici inesplosi, armi e munizioni abbandonate non in sicurezza. La mobilitazione riguarda anche le bombe cluster (piccole mine lanciate in quantità dagli aerei per colpire grandi aree), gli ieds (ordigni esplosivi improvvisati), le valmara (mine saltanti di fabbricazione italiana), e i cosiddetti «pappagalli verdi» (mine mascherate da giocattoli). La presenza, o anche solo il sospetto della presenza, di questi ordigni, impedisce infatti, il pieno godimento del diritto alla sicurezza, alla vita e alla salute delle popolazioni che convivono con situazioni di conflitto, o che le hanno vissute e sono ora a dover affrontare l’eredità lasciata sui loro territori dalle guerre.

Secondo l’ultimo rapporto dell’Agenzia Onu per l’Azione contro le Mine (Unmas) dei 7200 morti causati dalle mine antiuomo nel 2017, il 47 per cento erano bambini. Oltre 2700 sono state, nello stesso anno, le vittime di ordigni improvvisati, un numero record secondo il rapporto. Le vittime sono distribuite in 49 Paesi ma la stragrande maggioranza si registra in Afghanistan e in Siria. Secondo il rapporto si tratta comunque di una realtà molto sottostimata tenendo conto della difficoltà di raccogliere informazioni nelle zone di guerra. E se le informazioni non permettono di confermare l’utilizzo di mine antiuomo da parte delle forze governative siriane, è sicuro invece che hanno fatto ricorso a questi ordigni gruppi armati in Afghanistan, Colombia, Myanmar, Nigeria, Pakistan, Thailandia e Yemen. Tra i paesi europei, il più infestato dalle mine è la Bosnia; collocate durante la guerra civile degli anni Novanta, ancora sono disseminate su oltre il 2 per cento del territorio. La bonifica non sarà ultimata prima del 2025. In Africa, dopo la completa bonifica del Mozambico e quella avanzata in Angola, ordigni sono presenti in numerosi paesi: Marocco (soprattutto nel Sahara occidentale dove «proteggono» il vallo costruito per contenere i miliziani del Polisario), al confine tra Eritrea ed Egitto, in Egitto, Sudan, Zimbabwe. Negli ultimi anni ne sono state “seminate” numerosissime in Mali per contrastare l’avanzata dei miliziani jihadisti verso sud.

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