sabato 8 dicembre 2018

È l'America di Trump a dare le carte dell'economia mondiale: l'Europa resta timida spettarice

Al di là di alcuni eccessi, il presidente Usa ha dimostrato di poter imporre agli altri Paesi le proprie regole del gioco. E nella partita Bruxelles non ha ancora trovato la forza per ritagliarsi un ruolo da protagonista. Colpa, anche, delle ritrosie tedesche sugli eurobond e delle minacce italiane alla tenuta della moneta unica.
Re dollaro e la serva Europa. La formulazione è un po’ grossolana, ma il dato cruciale è che neanche l’insofferenza generale verso la Casa Bianca di Trump è riuscita a scalfire l’egemonia Usa sulla finanza e la geopolitica mondiali. L’attivismo commerciale del presidente americano non ha, forse, portato a casa grandi risultati concreti, a sentire gli esperti, ma l’impatto sulle regole del gioco è stato netto e deciso. Trump ha dimostrato che, se l’America vuole, può imporre a tutti il quadro entro cui si devono muovere i rapporti internazionali. G7, G20, Wto, Onu sono diventati strumenti inservibili. Trump voleva rapporti uno a uno, in cui far valere appieno il peso specifico del gigante americano, e, di fatto, ci è riuscito. Il multilateralismo è stato relegato in soffitta.

Tutto questo non è stato ottenuto principalmente agitando la minaccia delle tariffe protezionistiche. Non basterebbero per consentire alla Casa Bianca quello che stiamo vedendo: Trump non solo sanziona un paese, ma punisce anche chi decide di commerciare con quel paese, non rispettando le sanzioni che lo stesso Trump ha, unilateralmente, imposto. Il bastone che agita la Casa Bianca per piegare il resto del mondo è, infatti, finanziario. Il resto del mondo risparmia, tesaurizza, commercia, traffica, paga (ad esempio attraverso le carte di credito) in dollari e chi viene tagliato fuori dalla possibilità di rifornirsi di dollari attraverso le banche americane si autostrangola.

L’esempio più evidente sono le sanzioni all’Iran e la fuga delle imprese dal paese degli ayatollah. E’ qui che l’Europa sta vivendo una netta e umiliante sconfitta, nel tentativo di tenere vivo il commercio con Teheran e l’accordo antinucleare. Ha messo al riparo le imprese europee da offensive giuridiche americane, ma nei tribunali europei, certo non in quelli Usa, che alle multinazionali importano molto di più. Ha visto il sistema di pagamenti interbancario, Swift, che pure ha sede a Bruxelles, piegarsi al diktat di Trump e mettere al bando le banche iraniane. Il risultato è che chi vuole comprare petrolio iraniano per pagarlo deve arrivare, a Teheran con un baule pieno di banconote. Per aggirare l’ostacolo, a Bruxelles avevano pensato ad una sorta di ente intermedio, fra l’Iran e le raffinerie europee. In buona sostanza, l’ente si procurerebbe il greggio iraniano e si farebbe pagare in prima persona, evitando il contatto diretto fra la raffineria e gli iraniani. Quanto basta per attirare l’ira degli americani e, infatti, nessun paese europeo, per paura di ritorsioni americane, pare disposto a ospitare questo ente. Si era parlato di una sede a Parigi, con un vertice tedesco, ma sia Macron che la Merkel paiono tuttora assai intimiditi.

E’ in questo scenario che, mercoledì scorso, è arrivato un rapporto della Commissione di Bruxelles che rilancia (non è la prima volta) l’esigenza di un più deciso ruolo internazionale dell’euro. I presupposti economici ci sono. L’Europa è il più grande importatore al mondo di energia e i contratti potrebbe farli, anziché in dollari, in euro. Idem per la vendita dei jumbo Airbus. E per gran parte dei derivati che alimentano i circuiti finanziari europei. Ma, anche qui, i primi passi non sono incoraggianti. Il tentativo della Bce di mettere in piedi un sistema di pagamenti che faccia concorrenza ai giganti americani come Visa, Mastercard, Paypal ha finora attirato l’interesse solo di qualche piccola banca spagnola. E la realtà di fondo è che il sistema finanziario europeo non è né ampio, né liquido quanto quello americano per far fronte alle esigenze mondiali. In termini semplici, l’Europa paga la riluttanza tedesca ad accettare un mercato degli eurobond, cioè di titoli pubblici che rappresentino tutti i paesi europei. Troppo pochi i Bund tedeschi per fare concorrenza, nelle casseforti degli Stati e delle aziende, ai buoni del Tesoro americani. E non aiuta il marketing l’idea – fatta liberamente circolare da Bruxelles, Berlino e Parigi – che un paese riottoso, tipo l’Italia, possa far saltare di un botto l’intero edificio della moneta unica, perché gli altri paesi non sono disposti a venire in soccorso.

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