mercoledì 14 novembre 2018

La conferenza per la Libia è una sconfitta per l'Italia

Il dossier libico, tra i più importanti sotto il profilo dell'interesse nazionale italiano, è oggetto da tempo di una gestione confusa e caratterizzato da un'evoluzione critica. Una responsabilità politica, quella del suo progressivo fallimento, non imputabile al solo governo in carica presieduto dal Presidente del Consiglio Giuseppe Conte, ma certamente attribuibile a tutti gli esecutivi succedutisi dal 2011 ad oggi.

La prima, grande, responsabilità dell'Italia è stata quella di farsi travolgere dagli eventi nel 2011 proprio nel paese dove avrebbe dovuto dimostrare di padroneggiare le proprie capacità di politica estera e di intelligence. Al contrario, il governo allora presieduto da Silvio Berlusconi, non solo è stato colto di sorpresa dall'azione combinata del Qatar e della Francia, ma è stato anche travolto dal veloce progredire delle dinamiche militari sul terreno, finendo per assumere decisioni di fatto contrarie all'interesse nazionale.

Le successive fasi della gestione politica del dossier libico sono state invece caratterizzate dalla – giusta – necessità di salvaguardare e consolidare gli interessi economici italiani in loco – non ultimi gli ingenti investimenti infrastrutturali e produttivi dell'ENI – sebbene intervenendo politicamente con scarsa determinazione nell'arena di interessi scaturita dal collasso del regime di Gheddafi.

Nel complesso intreccio di vicende che determina il disequilibrio libico post-regime, l'Italia ha correttamente e legittimamente scelto di sostenere la componente politica che più da vicino rappresenta il bacino socio-culturale del rapporto storico con l'Italia e, non ultimo, che amministra geograficamente (con ampia zone grigie) le aree più strategiche degli interessi economici dell'Italia.

Il sostegno per Tripoli, e per l'eterogeneo sistema di intrecci ideologici che ne rappresenta la complessa e variegata autorità politica, è stato oggetto di scelte coraggiose quanto di basso profilo, giustificate in un primo momento dall'esigenza di non porsi al di fuori del quadro diplomatico internazionale, che sino agli accordi di Skhirat del 2015 riconosceva come legittimo il solo parlamento di Tobruk.

Successivamente alla firma di quegli accordi, tuttavia, l'Italia avrebbe potuto e dovuto adottare una politica più netta e coraggiosa, sfidando apertamente le ambizioni del generale Haftar e dei suoi dante causa egiziani, negoziando ad un più alto livello con gli Emirati Arabi Uniti e chiamando a raccolta i partner europei con i quali è più in sintonia per inserire l'appoggio all'Italia sulla Libia nell'ambito del più ampio fattore migratorio.

Al contrario, proprio all'indomani degli accordi di Skhirat, la capacità di definire una strategia di breve e medio periodo italiana è venuta meno, e sostituita da una pavida quanto inutile ricerca del consenso sia sul piano locale che quello internazionale.

L'Italia sa bene che il negoziato con il generale Haftar è impossibile, quanto inutile. Quello che a tutti gli effetti è il vero dominus del contesto politico con sede a Bengasi non ha alcuna intenzione di assumere un ruolo secondario nell'ottica di una strategia unitaria per la Libia. Il generale Haftar non ambisce a diventare Ministro della Difesa di una Libia unita e finalmente riconciliata politicamente, ed è ben conscio del fatto che una condizione di tal fatta è pressoché impossibile da realizzarsi oggi e nell'immediato futuro. Per tale ragione, il generale propone sé stesso alla comunità dei propri dante causa nella regione e sul piano internazionale come il nuovo "uomo forte" necessario, capace di riportare l'ordine in Libia non con inutili negoziati ma con il potere delle armi.

Il messaggio, semplice quanto efficace, è quello di proporre un nuovo sistema di potere autoritario – sul modello di quello gestito per oltre quarant'anni da Gheddafi – come unica possibile soluzione all'instabilità della Libia. Un modello di potere, tuttavia, non alla portata di Haftar, che difficilmente potrebbe emulare il precedente rais, non essendogli riconosciuta alcuna autorità, né legittimità, in buona parte della Libia. Tanto ad est, quanto ad ovest.

Conscia del non poter scendere a patti con una controparte come Khalifa Haftar, e ben consapevole di quanto fragile e mutevole sia il tessuto sociale e politico della Tripolitania, l'Italia avrebbe dovuto quindi definire una strategia più netta ed incisiva per il proprio ruolo in Libia, osando maggiormente tanto sul piano politico quanto su quello militare, sostenendo il processo di consolidamento dell'esecutivo di Fayez al-Serraj con un impegno diretto sul fronte della sicurezza a Tripoli, correggendo in tal modo il pericoloso errore commesso con l'apertura dell'ospedale di Misurata (se si voleva dare l'idea di una scelta di parte, sarebbe stato preferibile impegnare lo sforzo militare nazionale a difesa di al Serraj, direttamente a Tripoli).

Al contrario, la postura dell'Italia è stata progressivamente sempre più debole e sempre meno lungimirante in termini di obiettivi. La palese azione di contrasto portata avanti dalla Francia a danno dell'Italia non è mai stata oggetto di una posizione netta quanto chiara. Il dialogo sulla Libia con l'Egitto è stato parimenti ambiguo, in conseguenza dei crescenti interessi energetici locali ma anche dell'incapacità di assumere una posizione più rigida a difesa delle proprie priorità regionali. Ancora più debole, se possibile, è stata la postura adottata nel rapporto bilaterale con gli Emirati Arabi Uniti – che rappresentano il principale promotore dell'azione politica libica ostile alla visione italiana – che è a sua volta gravata dagli ingenti interessi economici dell'industria della difesa.

In ultimo, è mutato anche l'approccio sul piano locale, scegliendo di aprire al dialogo con il generale Haftar ed in tal modo generando un crollo di credibilità sia ad est tra le componenti più vicine a Roma, sia ad ovest tra quelle che sostengono il generale Haftar, e che hanno interpretato l'apertura italiana come una debolezza ed una tacita ammissione dell'impossibilità di sostenere indefinitamente la propria strategia. Il caso delle minacce all'Ambasciatore Perrone e il suo pronto richiamo a Roma non hanno potuto che confermare ai libici tale percezione.

Questo approccio, a completamento di un quadro già complesso e deteriorato, ha portato ad un progressivo mutamento della narrativa politica locale nei confronti dell'Italia, che viene oggi vista da molti più come un attore intrusivo ed incapace di portare soluzioni. Anche in questo caso, tanto ad Ovest quanto ad est.

Un bilancio sulla conferenza di Palermo

La Conferenza per la Libia, tenutasi a Palermo il 12 e 13 novembre, era stata concepita sotto l'auspicio di una nuova sinergia con gli Stati Uniti, nel tentativo di contenere il progetto francese di proporre ed organizzare elezioni politiche in tempi brevi, come proposto in occasione dell'ultimo vertice di Parigi, al quale l'Italia non era stata invitata a partecipare.

La decisione di organizzare la conferenza di Palermo, tuttavia, è stata formulata unilateralmente dal Presidente del Consiglio senza alcuna preventiva verifica di fattibilità né con le agenzie di intelligence, né con il Ministero degli Esteri, che si è quindi trovato a gestire l'organizzazione dell'evento con tempi troppo brevi e senza il necessario quadro di riferimento politico, domestico quanto internazionale.

Le finalità della conferenza, vaghe ed approssimative, sono state definite in corso d'opera, mentre la capacità di assicurare la presenza di esponenti di spicco del tessuto politico libico e di quello internazionale è stata affidata ad alcune missioni all'estero dello stesso Conte e all'azione della Farnesina, con il risultato di arrivare alla vigilia della conferenza senza avere una lista chiara e definitiva di chi avrebbe preso parte alla stessa.

Al Serraj e le autorità politiche di Tripoli hanno confermato la propria partecipazione sin dapprincipio, insieme ad alcune fazioni invitate nell'ottica di proporre una generale politica di riconciliazione e di disarmo nazionale. È tuttavia evidente come la gran parte di queste componenti locali abbia aderito al progetto della conferenza di Roma anche – e forse soprattutto – per ottenere gli aiuti economici previsti dal piano dell'ONU e garantiti dalla presenza dell'inviato speciale Ghassan Salamè.

Il generale Khalifa Haftar, che aveva dapprima assicurato la sua presenza, ha successivamente cancellato la sua disponibilità, accusando l'Italia di aver invitato rappresentanti di organizzazioni terroristiche al tavolo dei negoziati. Un affronto tanto grave quanto inopportuno, prodotto tuttavia dalla percezione di debolezza che Haftar ha ormai dell'Italia, e in base alla quale ritiene di poter gestire adesso il dialogo con Roma con arroganza e forza negoziale superiore a quella disponibile in passato. Ha poi deciso di volare a Palermo all'ultimo momento, solo per partecipare alla riunione a porte chiuse con i leader regionali, lasciando la città prima dell'avvio dei lavori della conferenza, e ribadendo alla stampa di non aver nulla a che fare con la stessa.

La rappresentanza degli attori internazionali è stata invece molto debole, con l'assenza della Germania, rappresentanti di più modesto profilo dagli Stati Uniti e dalla gran parte degli attori regionali (ad eccezione di Tunisia ed Egitto), una presenza sostanzialmente simbolica della Russia, che ha mandato il premier Dmitry Medvedev e il viceministro degli esteri Mikhail Bogdanov.

La Turchia, intervenuta con il vicepresidente Fuat Oktay, ha abbandonato il tavolo dei lavori quasi subito, dopo aver appreso di essere stata esclusa dalla riunione informale del mattino con al Serraj e Haftar. Un errore enorme da parte italiana, che ancora una volta si è piegata al volere del generale Haftar, senza ottenerne alcunché in cambio, e prestando invece il fianco ad una mancanza di rispetto del tutto inopportuna nei confronti della Turchia.

La conferenza si è poi svolta senza particolari elementi di rilievo, terminando con una nota del Presidente del Consiglio sul dialogo e l'inclusività, e con l'annuncio della prossima conferenza da tenersi in Libia entro i primi giorni di gennaio del 2019.

Un risultato del tutto neutro, che non porta significativi risultati sul piano della pacificazione e del disarmo, che consente ad Haftar di rafforzare la propria posizione e che colloca l'Italia ancora una volta all'interno di una prospettiva politica di grande debolezza. L'apertura al dialogo dell'Italia con Haftar viene percepita dai più – Turchia compresa – come il prodotto dell'assenza di una strategia generale, di una debolezza strutturale del paese e della disperata ricerca di un'azione diplomatica finalizzata a salvare il salvabile del ruolo nazionale.

L'assenza di una capacità di pianificazione sul piano dell'interesse nazionale italiano assume in tal modo un connotato di emergenza in questa fase, e la conferenza di Palermo ha paradossalmente contribuito più a confermare l'immagine di debolezza del paese che non la sua risolutezza in direzione di una visione strategica di lungo periodo.

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