La delicata pianta del linguaggio: "Si sente parlare spesso di difesa dell’italiano. Ma che cosa significa “difendere una lingua”? E quali sono le forze in grado di minacciarla?
La salute di una lingua dipende in primo luogo dall’esistenza di un congruo numero di persone che la parlano e la scrivono. Delle seimila o settemila lingue parlate in tutto il mondo si trovano esposte a un concreto, e spesso non evitabile, rischio di estinzione quelle parlate da poche centinaia o migliaia di parlanti, oggi diffuse specie nell’Africa subsahariana e nell’Oceania. L’italiano non corre evidentemente questo rischio; così come non lo corrono lingue europee parlate da nuclei ben più ridotti di persone, che siano lingue ufficiali di uno stato (come lettone, estone, albanese) o lingue minoritarie riconosciute (catalano, basco). Ma questo non vuol dire che l’italiano oggi non meriti particolare attenzione. Intanto da parte dei parlanti: come per la cura dell’ambiente non vale invocare le politiche generali se gli esseri umani lo trascurano o lo maltrattano, anche l’efficienza e la funzionalità della lingua risiede in primo luogo nella consapevolezza, e direi proprio nell’amore, dei parlanti madrelingua. Ma c’è anche l’esigenza di un’illuminata politica linguistica.
È essenziale che l’italiano mantenga e rafforzi la sua centralità nei vari ordini di insegnamento. Il recente referendum consultivo in Veneto e Lombardia ha previsto, tra le competenze che potrebbero essere cedute dallo stato alle regioni, anche le norme generali sull’istruzione. Ora, il presidente veneto Zaia, in una dichiarazione riportata nel «Corriere della Sera» del 24 ottobre scorso, ha detto fra l’altro che «in provincia i xe sette su diese che no parla italian». Il dato probabilmente andrà riformulato: nel Veneto sono effettivamente molti a usare il dialetto nei rapporti con familiari e amici, ma quasi tutti sarebbero in grado di usare l’italiano con gli estranei e tutti capiscono perfettamente quello che si sente in televisione.
Ma il punto non è questo: se mai si decidesse di ridurre a scuola le ore d’italiano in favore di un “dialetto veneto” (e quale? non è che a Venezia il dialetto sia lo stesso di quello parlato a Vicenza o a Rovigo), si creerebbe un danno alla comprensione generale, si scaverebbero fratture proprio là dove i più giovani sono chiamati a condividere valori e saperi comuni, quelli che, al di là dal formale certificato di cittadinanza, danno il senso di una comunità. I dialetti hanno la stessa dignità delle lingue nazionali, e possono farsi sublime strumento di poesia; ma non hanno la stessa estensione d’uso: sarebbe difficile ricorrere al veneto (o al napoletano o al siciliano) per scrivere un editoriale sulla situazione geopolitica dell’estremo oriente o sulla scarsa difesa dell’ambiente da parte dei paesi più sviluppati.
Questo, per ora, è uno scenario fantapolitico. È all’ordine del giorno, invece, la pervasività dell’inglese: un prestigio che l’inglese si è conquistato, beninteso, per il suo primato nell’economia, nella scienza, nei rapporti internazionali. Ma l’italiano, come altre lingue cariche di storia, non può rinunciare a una parte di sé, come avverrebbe se fosse estromesso dall’istruzione superiore. Bene ha fatto la corte costituzionale a ribadire, nella sentenza 42/2017, che le pur comprensibili esigenze di aprire i nostri atenei al confronto internazionale non possono comportare l’attivazione di corsi esclusivamente in inglese. La lingua italiana, argomentano i supremi giudici, non può essere ridotta «a una posizione marginale e subordinata, obliterando quella funzione, che le è propria, di vettore della storia e dell’identità della comunità nazionale, nonché il suo essere, di per sé, patrimonio culturale da preservare e valorizzare».
La scuola è il luogo dove gli studenti sono chiamati a rafforzare la competenza e la capacità di riflettere sul funzionamento della lingua. Alla fine della primaria non dovrebbero esserci più dubbi sull’ortografia (oltretutto quella italiana è molto più semplice di quella che devono imparare i bambini inglesi o francesi), bisognerebbe essere in grado di distinguere un nome da un verbo e, via via nel corso degli anni, è indispensabile allargare il proprio lessico, non contentandosi del “lessico fondamentale” sufficiente per la comunicazione quotidiana. " SEGUE >>>
La salute di una lingua dipende in primo luogo dall’esistenza di un congruo numero di persone che la parlano e la scrivono. Delle seimila o settemila lingue parlate in tutto il mondo si trovano esposte a un concreto, e spesso non evitabile, rischio di estinzione quelle parlate da poche centinaia o migliaia di parlanti, oggi diffuse specie nell’Africa subsahariana e nell’Oceania. L’italiano non corre evidentemente questo rischio; così come non lo corrono lingue europee parlate da nuclei ben più ridotti di persone, che siano lingue ufficiali di uno stato (come lettone, estone, albanese) o lingue minoritarie riconosciute (catalano, basco). Ma questo non vuol dire che l’italiano oggi non meriti particolare attenzione. Intanto da parte dei parlanti: come per la cura dell’ambiente non vale invocare le politiche generali se gli esseri umani lo trascurano o lo maltrattano, anche l’efficienza e la funzionalità della lingua risiede in primo luogo nella consapevolezza, e direi proprio nell’amore, dei parlanti madrelingua. Ma c’è anche l’esigenza di un’illuminata politica linguistica.
È essenziale che l’italiano mantenga e rafforzi la sua centralità nei vari ordini di insegnamento. Il recente referendum consultivo in Veneto e Lombardia ha previsto, tra le competenze che potrebbero essere cedute dallo stato alle regioni, anche le norme generali sull’istruzione. Ora, il presidente veneto Zaia, in una dichiarazione riportata nel «Corriere della Sera» del 24 ottobre scorso, ha detto fra l’altro che «in provincia i xe sette su diese che no parla italian». Il dato probabilmente andrà riformulato: nel Veneto sono effettivamente molti a usare il dialetto nei rapporti con familiari e amici, ma quasi tutti sarebbero in grado di usare l’italiano con gli estranei e tutti capiscono perfettamente quello che si sente in televisione.
Ma il punto non è questo: se mai si decidesse di ridurre a scuola le ore d’italiano in favore di un “dialetto veneto” (e quale? non è che a Venezia il dialetto sia lo stesso di quello parlato a Vicenza o a Rovigo), si creerebbe un danno alla comprensione generale, si scaverebbero fratture proprio là dove i più giovani sono chiamati a condividere valori e saperi comuni, quelli che, al di là dal formale certificato di cittadinanza, danno il senso di una comunità. I dialetti hanno la stessa dignità delle lingue nazionali, e possono farsi sublime strumento di poesia; ma non hanno la stessa estensione d’uso: sarebbe difficile ricorrere al veneto (o al napoletano o al siciliano) per scrivere un editoriale sulla situazione geopolitica dell’estremo oriente o sulla scarsa difesa dell’ambiente da parte dei paesi più sviluppati.
Questo, per ora, è uno scenario fantapolitico. È all’ordine del giorno, invece, la pervasività dell’inglese: un prestigio che l’inglese si è conquistato, beninteso, per il suo primato nell’economia, nella scienza, nei rapporti internazionali. Ma l’italiano, come altre lingue cariche di storia, non può rinunciare a una parte di sé, come avverrebbe se fosse estromesso dall’istruzione superiore. Bene ha fatto la corte costituzionale a ribadire, nella sentenza 42/2017, che le pur comprensibili esigenze di aprire i nostri atenei al confronto internazionale non possono comportare l’attivazione di corsi esclusivamente in inglese. La lingua italiana, argomentano i supremi giudici, non può essere ridotta «a una posizione marginale e subordinata, obliterando quella funzione, che le è propria, di vettore della storia e dell’identità della comunità nazionale, nonché il suo essere, di per sé, patrimonio culturale da preservare e valorizzare».
La scuola è il luogo dove gli studenti sono chiamati a rafforzare la competenza e la capacità di riflettere sul funzionamento della lingua. Alla fine della primaria non dovrebbero esserci più dubbi sull’ortografia (oltretutto quella italiana è molto più semplice di quella che devono imparare i bambini inglesi o francesi), bisognerebbe essere in grado di distinguere un nome da un verbo e, via via nel corso degli anni, è indispensabile allargare il proprio lessico, non contentandosi del “lessico fondamentale” sufficiente per la comunicazione quotidiana. " SEGUE >>>
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