martedì 28 novembre 2017

In Myanmar la morale non è scontata - Repubblica.it

In Myanmar la morale non è scontata - Repubblica.it: "NAYPYIDAW – Fra tutte le capitali del mondo, questa è una delle più spiazzanti. Autostrade a sei corsie talmente vuote di auto che potrebbero essere usate come piste d’atterraggio. Le strade collegano ministeri seminascosti ed enormi centri congressi. Un calore bianco riverbera sopra il vuoto. Non c’è nessuno snodo, nessun punto di incontro, nessuna piazza pubblica: e proprio questo è lo scopo per cui è nata.

I leader militari del Myanmar volevano una capitale sicura, nella sua lontananza da tutto, e la inaugurarono nel 2005. Yangon, la tumultuosa vecchia capitale, era un’insidia: nei decenni di soffocante dominio dei generali, ogni tanto esplodevano proteste. Così è proprio in questa fortezza antidemocratica che Aung San Suu Kyi, per lungo tempo un simbolo mondiale della democrazia, trascorre i suoi giorni, contemplando una spettacolare caduta in disgrazia: l’icona disonorata nel suo spettrale labirinto.

Di rado si è vista una reputazione crollare così rapidamente. Aung San Suu Kyi, figlia dell’eroe dell’indipendenza birmana, Aung San, assassinato quando lei era bambina, ha sopportato quindici anni di arresti domiciliari nella sua sfida contro il potere militare. Ha vinto il premio Nobel per la pace. Serena nel suo coraggio e nella sua disobbedienza, si è ritagliata uno spazio a sé nell’immaginario mondiale, e nel 2015 ha vinto in modo travolgente elezioni che sembravano aver posto fine al pluridecennale capitolo militare della storia del Myanmar. Ma la sua sorda evasività di fronte alla fuga di 620.000 rohingya (una minoranza musulmana che vive nell’Ovest del Myanmar) al di là del confine, in Bangladesh, ha scatenato lo sdegno dell’opinione pubblica internazionale. La sua aura si è dissolta.

Dopo aver investito così tanto sulla sua rettitudine, il mondo è furioso per essere stato ingannato. Il Comune di Oxford le ha revocato un’onorificenza. Ormai tutti danno addosso alla «Signora», come viene chiamata. Perché non riesce a vedere le «diffuse atrocità commesse dalle forze di sicurezza del Myanmar», a cui ha alluso il segretario di Stato americano nel corso di una breve visita questo mese, azioni che il Dipartimento di Stato la settimana scorsa ha definito «pulizia etnica»?

Forse perché riesce a vedere qualcos’altro, al di sopra di tutto, e cioè che il Myanmar non è una democrazia. Tutt’al più può essere definito una quasi-democrazia, in delicata transizione da una dittatura militare, una nazione in guerra con se stessa e che ancora dev’essere forgiata. Se non si muove lungo lo stretto cammino stabilito dall’esercito, tutto potrebbe essere perduto, gli sforzi di tutta una vita per la libertà dilapidati. Non è una cosa da poco. Non riconoscere il suo dilemma (cosa che l’Occidente non ha fatto quasi mai, da agosto a oggi) è voler fare le anime belle, in modo irresponsabile.

Il problema è che l’Occidente vuole che Aung San Suu Kyi sia una certa cosa. Kofi Annan, l’ex segretario generale delle Nazioni Unite, che ha pubblicato un rapporto sulla situazione nello Stato del Rakhine, nel Myanmar occidentale, proprio nel momento in cui stava per esplodere la violenza, mi ha detto che in Occidente la gente è infuriata con Aung San Suu Kyi perché «abbiamo creato una santa e la santa è diventata una politica, e questo non ci piace».

Di certo, Aung San Suu Kyi non è apparsa turbate. Ha evitato di condannare le forze armate per quello che le Nazioni Unite hanno definito un «incubo per i diritti umani». Si astiene dall’usare la parola «rohingya», che molti nella maggioranza buddista del Myanmar aborrono perché la ritengono un’identità inventata. Il suo ufficio comunicazione si è dimostrato maldestro, e l’assenza di trasparenza è diventata un marchio di fabbrica della sua amministrazione, dal momento che evita le interviste. In uno delle sue rare apparizioni pubbliche, accanto a Tillerson, nella sede del ministero degli Esteri qui a Naypyidaw, ha detto: «Non so perché la gente dica che non parlo mai». Non è vero, ha sottolineato. «Quello che intendono, probabilmente, è che ciò che dico non è abbastanza interessante. Ma le cose che dico non devono essere eccitanti, devono essere esatte. E lo scopo dev’essere creare più armonia».

«Armonia» è una delle sue parole preferite, come «Stato di diritto». Entrambe sono lontane mille miglia dalla realtà del Myanmar, che è un Paese frammentato, ancora alle prese con una miriade di guerriglie etniche e «sempre tenuto insieme con la forza», come mi ha detto Derek Mitchell, un ex ambasciatore degli Stati Uniti. Dall’indipendenza dall’Impero Britannico, nel 1948, l’esercito, noto come Tatmadaw, ha governato per la maggior parte del tempo, con conseguenze catastrofiche."SEGUE >>>


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