L’apocalisse del retail. I brand di moda chiudono negozi a raffica: non parlano più la lingua dei Millennials? – Business Insider Italia: "Parafrasando una celebre frase di Woody Allen si può tranquillamente affermare che, oggi, «American Apparel è morto, Abercrombie & Fitch sta morendo e il retail in generale non si sente troppo bene»… e probabilmente pure “troppo bene”, in questo caso, è un mero eufemismo.
Negli Stati Uniti l’hanno definita una vera e propria Retail Apocalypse, e riflette lo stato di (assai poca) grazia in cui il settore si trova: negozi fisici, grandi o piccoli che siano, presenti o meno nei centri commerciali, stanno chiudendo senza soluzione di continuità. Tutte le grandi catene a stelle e strisce sono impegnate nel rivedere le loro strategie di azione, confrontandosi con la spietata concorrenza del commercio online e con nuovi consumatori – i Millennials – sempre meno presenti nei grandi malls e sempre più avvezzi a comprare in rete.
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La slippery slope in cui sono incappati i brand sopracitati è destinata a non fermarsi, e si prevede che nei prossimi mesi almeno altri 3.500 store cesseranno la loro attività: tra le vittime, Bebe, specializzata in abbigliamento femminile, che rinuncerà ai suoi 170 punti vendita per passare direttamente all’online e J. C. Penney, popolare catena di grandi magazzini che sta già chiudendo i negozi ritenuti più costosi da mantenere e situati in posizioni sfavorevoli (circa il 14% del totale).
Un negozio Sears in un centro commerciale Usa. Business Insider/Sarah Jacobs
L’epidemia pare non risparmiare nessuno, partendo dalla storica catena di grande distribuzione Sears, che ha messo la parola fine a 150 negozi nella prima metà del 2017 – inclusi i 108 store in partnership con Kmart – e arrivando fino a Macy’s, almeno fino a inizio millennio sinonimo di shopping medio-alto e ora invece travolta da un significativo processo di ristrutturazione che porterà alla chiusura di 100 location (pari al 15% del totale), nonostante gli analisti siano convinti che, nel tentativo di dare nuova linfa a un business ormai in stato comatoso, si renderanno necessari ulteriori tagli.
Addio centri commerciali
Storie (e marchi) diversi, con un unico comun denominatore: la reticenza del pubblico a recarsi nei giganteschi agglomerati commerciali dove fino a pochi anni fa venivano principalmente effettuati gli acquisti.
Dal 2010 al 2013 l’afflusso è diminuito del 50%, e anche un’azienda come Gamestop, che ha sempre potuto contare su una clientela assai fidelizzata, ora si vede costretta a correre ai ripari e a rinunciare ad almeno 150 negozi, a causa delle preferenze dei consumatori che ora si orientano maggiormente sugli store online e sul supporto digitale.
Leggi anche: Nel negozio del futuro potrebbe non esserci nessuno. Nemmeno voi
A non passarsela bene, però, sono anche brand medio-alti come J. Crew e catene pop come Gap o Banana Republic: nonostante gli sforzi intrapresi per uscire dalla pesante crisi che li ha investiti, nessuno di loro riesce a riemergere da trimestri che registrano dati sempre più negativi, a causa di una convergenza di fattori: la diminuzione del traffico nei malls, la minaccia di Amazon, le lunghe catene di fornitura e gli acquirenti sempre più consapevoli (e dunque esigenti) di un rapporto qualità-prezzo che – spesso – non va a loro vantaggio.
Sicuramente il modello Amazon, imponendosi in tutto il mondo, ha portato numerosi venditori a cambiare strategia per non annaspare nel nuovo mercato che è andato delineandosi, un mercato ove ogni azienda che si rispetti deve possedere un online store funzionante e ben fornito, all’interno del quale le esperienze del pre e post vendita vanno curate e seguite in egual misura, pena una consistente perdita a livello di volumi di vendite.
Ma, per quanto riguarda quei marchi che possono essere definiti “medi”, dove quindi l’equazione tra una buona fattura, uno stile riconoscibile e prezzi non spropositati è in perfetto equilibrio, c’è dell’altro.
«La risposta risiede in un punto critico, cioè che i consumatori sono alla ricerca di un loro stile personale», afferma Richard Passikoff, fondatore dell’istituto di ricerche di marketing Brand Keys: ciò che manca, secondo Passikoff, è un chiaro manifesto di quello che questi brand rappresentano, un design distintivo che li faccia fuoriuscire dal tunnel dell’assortimento indistinto e non impegnativo, che risulta quasi senz’anima. Parallelamente, essi non riuscivano a evolversi almeno quanto il loro consumatore ormai espertissimo di social media, e hanno commesso il peccato oggi mortale di “guidarlo” nelle sue scelte stilistiche, quando invece lui non voleva alcuna guida, trovandosi poi alla fine in una specie di vicolo cieco.
Senza contare che gli acquirenti adesso spendono meno sull’abbigliamento in generale, soprattutto i più giovani, preferendo investire nell’elettronica e nelle espe" SEGUE >>>
Negli Stati Uniti l’hanno definita una vera e propria Retail Apocalypse, e riflette lo stato di (assai poca) grazia in cui il settore si trova: negozi fisici, grandi o piccoli che siano, presenti o meno nei centri commerciali, stanno chiudendo senza soluzione di continuità. Tutte le grandi catene a stelle e strisce sono impegnate nel rivedere le loro strategie di azione, confrontandosi con la spietata concorrenza del commercio online e con nuovi consumatori – i Millennials – sempre meno presenti nei grandi malls e sempre più avvezzi a comprare in rete.
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Un negozio Sears in un centro commerciale Usa. Business Insider/Sarah Jacobs
L’epidemia pare non risparmiare nessuno, partendo dalla storica catena di grande distribuzione Sears, che ha messo la parola fine a 150 negozi nella prima metà del 2017 – inclusi i 108 store in partnership con Kmart – e arrivando fino a Macy’s, almeno fino a inizio millennio sinonimo di shopping medio-alto e ora invece travolta da un significativo processo di ristrutturazione che porterà alla chiusura di 100 location (pari al 15% del totale), nonostante gli analisti siano convinti che, nel tentativo di dare nuova linfa a un business ormai in stato comatoso, si renderanno necessari ulteriori tagli.
Addio centri commerciali
Storie (e marchi) diversi, con un unico comun denominatore: la reticenza del pubblico a recarsi nei giganteschi agglomerati commerciali dove fino a pochi anni fa venivano principalmente effettuati gli acquisti.
Dal 2010 al 2013 l’afflusso è diminuito del 50%, e anche un’azienda come Gamestop, che ha sempre potuto contare su una clientela assai fidelizzata, ora si vede costretta a correre ai ripari e a rinunciare ad almeno 150 negozi, a causa delle preferenze dei consumatori che ora si orientano maggiormente sugli store online e sul supporto digitale.
Leggi anche: Nel negozio del futuro potrebbe non esserci nessuno. Nemmeno voi
A non passarsela bene, però, sono anche brand medio-alti come J. Crew e catene pop come Gap o Banana Republic: nonostante gli sforzi intrapresi per uscire dalla pesante crisi che li ha investiti, nessuno di loro riesce a riemergere da trimestri che registrano dati sempre più negativi, a causa di una convergenza di fattori: la diminuzione del traffico nei malls, la minaccia di Amazon, le lunghe catene di fornitura e gli acquirenti sempre più consapevoli (e dunque esigenti) di un rapporto qualità-prezzo che – spesso – non va a loro vantaggio.
Sicuramente il modello Amazon, imponendosi in tutto il mondo, ha portato numerosi venditori a cambiare strategia per non annaspare nel nuovo mercato che è andato delineandosi, un mercato ove ogni azienda che si rispetti deve possedere un online store funzionante e ben fornito, all’interno del quale le esperienze del pre e post vendita vanno curate e seguite in egual misura, pena una consistente perdita a livello di volumi di vendite.
Ma, per quanto riguarda quei marchi che possono essere definiti “medi”, dove quindi l’equazione tra una buona fattura, uno stile riconoscibile e prezzi non spropositati è in perfetto equilibrio, c’è dell’altro.
«La risposta risiede in un punto critico, cioè che i consumatori sono alla ricerca di un loro stile personale», afferma Richard Passikoff, fondatore dell’istituto di ricerche di marketing Brand Keys: ciò che manca, secondo Passikoff, è un chiaro manifesto di quello che questi brand rappresentano, un design distintivo che li faccia fuoriuscire dal tunnel dell’assortimento indistinto e non impegnativo, che risulta quasi senz’anima. Parallelamente, essi non riuscivano a evolversi almeno quanto il loro consumatore ormai espertissimo di social media, e hanno commesso il peccato oggi mortale di “guidarlo” nelle sue scelte stilistiche, quando invece lui non voleva alcuna guida, trovandosi poi alla fine in una specie di vicolo cieco.
Senza contare che gli acquirenti adesso spendono meno sull’abbigliamento in generale, soprattutto i più giovani, preferendo investire nell’elettronica e nelle espe" SEGUE >>>
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