martedì 2 dicembre 2014

«Ecco come ho salvato i manoscritti cristiani dalla furia di Isis» - Corriere.it

«Ecco come ho salvato i manoscritti cristiani dalla furia di Isis» - Corriere.it: "«La notte che le bandiere nere sono entrate a Qaraqosh, nella piana di Ninive, ho caricato i manoscritti sul camion, e sopra ho fatto salire le persone, perché dovevo portare in salvo la gente assieme alla memoria della nostra cultura, un popolo senza la propria memoria è un popolo perduto». Padre Najeeb Michaeel, Domenicano, studi in Francia, viveva nel monastero di Qaraqosh, a venti chilometri da Mosul, dove la cristianità è radicata sin dal secondo secolo dopo cristo, dedicando la vita alla ricerca e al restauro di testi antichi. «Non solo testi cristiani, abbiamo sempre raccolto manoscritti musulmani, yazidi, ebraici, armeni e di tutte le comunità che hanno abitato la Mesopotamia: li raccoglievamo, e dopo averli restaurati e inseriti nel nostro archivio digitale li riportavamo nei luoghi da dove provenivano, ecco perché non li ho potuti salvare tutti».
Non può rivelare dove sono custoditi i preziosi codici che è riuscito a salvare dalla furia distruttrice dell’Isis, o Da’ish come li chiamano qui, stato islamico dell’Iraq e della Grande Siria, in arabo: troppo alto il rischio di furti o attacchi, e anche questi frammenti di quasi duemila anni di storia finirebbero in cenere, come i testi rimasti nelle città della piana di Ninive, dati alle fiamme e sacrificati sull’altare della follia integralista. «Salvare questi libri significa affermare che siamo ancora qui, questa è la nostra terra natale, la nostra cultura fa parte di questi luoghi, dagli albori della cristianità, nonostante tutte le difficoltà, le violenze, la paura...so che hanno bruciato tutto, ma questi li ho salvati, e con loro la nostra memoria».
Stretti intorno alle chiese

Città intere sono fuggite in poche ore davanti all’Isis: prima Mosul, poi Qaraqosh, Bartella, luoghi a grande maggioranza cristiana. Ci sono stati trasferimenti di massa ad Erbil, oltre la linea dietro la quale si sono attestate a difesa le forze peshmerga, che in estate si sono ritirate velocemente abbandonando agli uomini in nero tutta la piana. Attendati all’inizio intorno alle chiese, nelle scuole e in ogni angolo del quartiere cristiano di Ankawa, i profughi vi hanno riprodotto i legami sociali. Così sono ancora i parroci - che qui chiamano Abuna, padre, e che hanno guidato l’esodo notturno verso la salvezza -, il punto di riferimento per la loro gente, solo che ora sono diventati il tramite per il cibo, l’acqua, vestiti, coperte, un alloggio, il conforto della speranza di tornare, di uscire da tutto questo. «Ho fatto avanti e indietro sette otto volte quella notte con il furgone» dice Majeet, il segretario del Vescovo di Mosul, anche lui adesso sfollato ad Erbil. «Portavo la gente a metà strada, da lì potevano proseguire a piedi, poi tornavo davanti alla chiesa e facevo un altro carico, l’ultimo erano una quarantina, uno sull’altro. Quando sono tornato non c’era più nessuno, e gli Isis erano dall’altra parte della piazza, così sono scappato anche io».
Più di centomila cristiani, dentro ci sta di tutto. Un sacerdote dice: «Ci sono le categorie anche tra i profughi, purtroppo: c’è chi ha ancora soldi, e può affittare una casa, i prezzi sono altissimi, mille dollari al mese e più; e c’è chi non ha avuto il tempo di portare via nemmeno i vestiti, ma come possiamo distinguerli in mezzo a tutto questo? Solo Dio lo sa». Tra distribuzioni di cibo, vestiti, pannolini, visite alle famiglie, ad ogni piè sospinto c’è sempre qualcuno che si avvicina: «Abuna, devo chiederle qualcosa», e ogni volta sono problemi insormontabili. Qualche volta allarga le braccia, non può dar loro sempre la soluzione che vorrebbe.

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