@ - La lettura dei commenti a proposito del Piano Mattei presentato dalla presidente del Consiglio Giorgia Meloni in occasione del Vertice Italia-Africa mi induce ad alcune riflessioni. Parto da un presupposto: il Piano non è stato presentato come un insieme di progetti e programmi ma piuttosto come una “piattaforma” fatta per ricevere le indicazioni di priorità che i Paesi africani formuleranno. Una piattaforma di dialogo e di ascolto per la futura cooperazione italiana.
di: Paolo Sannella | 2 Aprile 2024
Se questa mia lettura delle parole della presidente Meloni è corretta, non bisognerebbe stupirsi del fatto che il Piano non enumera progetti nuovi da sviluppare (anche se ricorda quelli già in corso e che certamente non saranno abbandonati). Il Piano introduce piuttosto un cambiamento, una vera rivoluzione, non soltanto nel modus operandi della cooperazione internazionale allo sviluppo ma nei rapporti politici, culturali ed economici dell’Italia con l’Africa. Una interpretazione, la mia, che mi sembra confortata dalla notizia dell’incontro della presidente Meloni con gli ambasciatori africani accreditati in Italia proprio per recepire indicazioni e suggerimenti e per segnalare allo stesso tempo le nostre priorità e osservazioni. Una modalità dialogante per costruire insieme strategie e iniziative. Altrettanto importante notare che la presentazione del programma italiano sia avvenuta in presenza delle istituzioni europee rappresentate dai tre massimi dirigenti, quasi a voler dire che il Piano Mattei costituisce il contributo politico e metodologico italiano che sollecita allo stesso tempo la collaborazione e l’impegno europeo per la sua realizzazione.
A quanti che come me hanno vissuto per molti anni esperienze molteplici di cooperazione, operando sul campo in Africa e nei diversi centri decisionali romani, non sfuggiva l’insoddisfazione di molti interlocutori africani per l’approccio adottato per i nostri progetti di cooperazione. Da un lato, riconoscevamo la necessità di agire in “partenariato” attuando sempre e soltanto interventi promossi e richiesti dai “beneficiari”, dall’altro prestavamo poca attenzione alle esigenze locali intese nel modo più ampio e comprensivo. Si dava spesso l’impressione di leggere con difficoltà i bisogni locali effettivi e di incontrare ancora maggiori difficoltà a rispettare quanto suggerito dalle culture e dalle identità locali. In occasione di un memorabile incontro all’Università di Pavia numerosi anni fa, il professor Calchi Novati ricordò l’obiettiva limitazione dell’applicazione del concetto di “partenariato” in un rapporto che vede contrapposti – a parte ogni altro diverso atteggiamento – chi ha a chi non ha, chi dà a colui che riceve. Il tutto condito assai spesso dall’atteggiamento di chi veste i panni del primo della classe chiamato a dar lezione agli altri.
La proposta del governo italiano sembra voler modificare questa situazione. Se restano liberi gli operatori privati di offrire agli acquirenti locali le loro merci o i loro servizi come credono, la richiesta di interventi di sviluppo (quali ad esempio quelli per la creazione e la gestione delle infrastrutture di trasporto e di comunicazione, quelli per investimenti nei settori dell’energia, dell’acqua e dell’ambiente, così come quelli nel campo della formazione e della ricerca) dovrebbe essere formulata in sintonia, aderenza e conformità alle esigenze locali e alle loro culture e priorità. In attesa che tutto questo avvenga, il Piano resta vuoto ma pronto ad affermare nuove e più avanzate e genuine collaborazioni.
Il problema è passare dalle parole ai fatti, dalla enunciazione di principi alla loro applicazione pratica. Non dovremo – mi sembra voglia dire la presidente Meloni – andare in Africa con il paniere pieno dei nostri progetti ma con l’atteggiamento di chi vuol capire e sa ascoltare. Soltanto dopo questa fase di attenzione potremo insieme scegliere le soluzioni adatte a rispondere ai loro bisogni utilizzando le nostre risorse più adatte.
Se passiamo dal campo della cooperazione allo sviluppo a quello della collaborazione politica e culturale, il passaggio che ci viene suggerito mi sembra ancora più significativo e interessante: non le nostre verità e i nostri valori, ma quelli che meglio si adattano alla reciproca comprensione e alla comune ricerca degli strumenti per l’attuazione di una fruttuosa e pacifica convivenza. Ed è forse questo il contributo che il nostro Paese sembra voler dare anche in occasione dei lavori del prossimo G7 a conduzione italiana nel cui programma figura l’esigenza imprescindibile di nuove forme di collaborazione con i Paesi del continente africano.
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